Il compenso

Racconta p. Carlo Buzzi che nei primi tempi della sua presenza in Bangladesh, cercando di essere missionario per tutti, senza discriminazioni religiose o di altro genere, avviò un corso serale di alfabetizzazione. Messe insieme una quindicina di persone in grado di insegnare, dopo qualche giorno di esperienza spiega che il servizio che intende offrire agli analfabeti poveri è gratuito, e chi insegna deve farlo come volontario: “Le vostre serate sono libere, le trascorrete chiacchierando, ascoltando la radio, giocando a carte… Potete pure trascorrerne alcune dedicandole agli altri, anche se nessuno vi paga, come nessuno vi paga per chiacchierare…” Parecchi si defilano, ma qualcuno rimane e il corso funziona. Un giorno, uno dei volontari, musulmano, spiega a P. Carlo la sua sorpresa: “Mia moglie dice che da qualche tempo, quando va al pozzo non le è possibile prender l’acqua come faceva prima. C’è sempre qualche donna che le toglie di mano il secchio e attinge per lei, spiegando: tuo marito insegna ai nostri figli, lascia che noi facciamo qualche cosa per te…”

Paura

Da qualche mese il partito Jamaat-e-Islam, che durante la guerra d’indipendenza nel 1971 ha collaborato con il Pakistan aiutando l’esercito a massacrare partigiani, intellettuali, indù e – per sicurezza – varie minoranze, ha cambiato stile. Ha organizzato feste per premiare gli ex partigiani, dichiarato che Mujibur Rahman (il finora odiato “padre della patria”) ha fatto un buon lavoro, specialmente perché ha fatto entrare il Bangladesh nell’Organizzazione dei Paesi Islamici, ha elogiato l’indipendenza… Conversione? Stanno per iniziare i processi ai criminali di guerra, e del gruppo fanno parte tutti i leader del Jamaat-e-Islam, incluso il suo segretario generale che ha recentemente dichiarato: “A quei tempi ero giovane, studiavo. Non ricordo bene quali fossero le mie attività…”

Ruth

Papà di incerta identificazione; la mamma, stramba, quando ha pochi mesi non vuol più saperne di lei perché scura di pelle. La chiamano “Moni”, nient’altro. L’alleva la nonna, che muore quando lei è in seconda media. Nessun parente se ne cura, lascia la scuola e il villaggio per cercare lavoro a Dhaka come domestica. E’ bella, intelligente, sensibilissima. Pochi anni fa una coppia di stranieri la assume: giapponese buddista lei, australiano cristiano lui. Per la prima volta si trova con qualcuno che assomiglia ad una mamma e ad un papà. La signora la porta con sé ai ricevimenti, le fanno frequentare corsi di cucina, imparare l’inglese…
Per curiosità s’infila ogni tanto nella chiesa di Nayanagar, fra la folla che partecipa alla Messa. Le piace che leggano il vangelo e lo spieghino per bene, ma nulla di più, finché ascolta un’omelia in cui il celebrante dice che non dobbiamo far pesare sui figli le colpe e gli sbagli dei genitori: se i genitori trascurano i figli, il Signore li ama ancora di più. E’ la sua luce, come Saulo a Damasco: si sentiva punita da Dio, ora si sente amata. Chiede alle suore di Madre Teresa di diventare cristiana, ma la respingono bruscamente, confondendola con i tanti che vanno per interesse, o per spiare. Non desiste, continua ad andare alla Messa, ritenta di qua e di là finché incappa nel Seminario, supera la barriera del seminarista sospettoso, e finalmente arriva a P. Shorot, il Rettore. “Non la finiva più di farmi domande, ma alla fine ha capito che sto solo cercando quel Dio che ci ama quando siamo considerati senza valore”. Incomincia la catechesi, ci conosciamo e viene a qualche incontro biblico. Un giorno mi chiede: “Dammi tu il nome cristiano.” Esito: “Devi sceglierlo tu”, poi le dico di leggere il libro di Ruth. L’appassiona, ma non vuole scegliere il nome, lo vuole ricevere come dono. “Ti chiamerai Ruth.” le dico. Mi ringrazia felice.
S’arrangia a fare tutti i documenti legali richiesti per autorizzare il cambiamento di religione, resistendo alle pressioni e alle prese in giro del notaio con tutto il suo ufficio. Battezzata il 20 marzo scorso, ha fatto la Comunione il 21, sprizzando gioia. Deve cambiare casa, perché quella in cui abita non ammette né cristiani né indù, e pensa di andare in un quartiere lontano, dove non la conoscono. Ma poi cambia idea: “Sono contenta di quello che sono, perché devo nascondermi?” E trova casa lì vicino, dichiarandosi cristiana.

Rabbia

Rabbia numero 1. Fa caldo. Guido con prudenza sulla strada a tre larghe corsie che attraversa Uttora, vuota come solo il venerdì. Mi tamponano. Mi fermo: niente meno che un autobus a due piani costretto ora a fermarsi dietro di me. Come un lampo mi passa per la mente: accorrere di spettatori curiosi, fiume di parole dall’autista e dell’aiutante, irritazione dei viaggiatori trattenuti. La sarabanda si ravviverà all’arrivo della polizia, che si farà raccontare tutto tre volte, darà due sberle all’autista, dicendo poi che risolverà  il problema, ma deve sequestrare la macchina, e far firmare documenti per cui occorre pagare. Poi, se ci sarà qualche forma di processo, almeno 10 persone testimonieranno che sono stato tamponato perché ho frenato di colpo, e dovrò pagare per riavere l’auto sequestrata.
Mi sposto, pieno di frustrazione, sul bordo della strada e il bus se ne va. La mia ruota posteriore destra è bloccata da un pezzo di lamiera contorto che non si smuove. Mi guardo intorno. Alcuni bancarellari si chiedono che cosa farò. Li avvicino. “C’è qualche officina qui vicina?” Lungo silenzio. Ripeto. Parlottano. “Non sappiamo. Devi cercare un’officina.” “Infatti, ma la macchina non va, e io non so dove andare.” Silenzio. “Non c’è qualche leva in ferro, qualche strumento con cui sollevare un poco la lamiera?”. Ripeto. “Ci vuole lo strumento adatto, bisogna cercarlo.” Mi allontano per non scoppiare. Altro interrogatorio ad altri bancarellari, che mi spiegano che per riparare l’auto ci sono appositi negozi, ma loro non sanno dove sono. “Prova dentro quel cancello in fondo”. Vado, c’è un ufficio di polizia… Torno. Mi sta venendo la febbre. Un passante si ferma, mi chiede che problema ho, mi indica un distributore dall’altra parte della strada, non troppo distante: “Prova là…” Vado e spiego al padrone seduto all’ombra. Pigramente mi indica un giovanotto che sta lavando un’auto. Spiego. “Dov’è la tua auto?”. La indico. “Aspetta”. Va, e torna dopo un quarto d’ora. “Sono giovane, più forte di te. Ho messo a posto la lamiera e per un poco puoi viaggiare, ma vai adagio.” “Così, con le mani?” “Certo!” Faccio per dargli una mancia, insisto, rifiuta. “Prega per me.” conclude.

Rabbia n. 2. Accanto al treno fermo ad una stazione un mendicante senza gambe, con un pezza di cuoio sotto il sedere, chiede l’elemosina cantando. Un gruppo di giovanotti nel mio vagone lo guarda, uno butta una monetina che rotola lontana. L’uomo arranca per raggiungerla, poi torna faticosamente sotto il finestrino. Un altro giovane getta un’altra moneta, questa volta fa apposta a buttarla lontana. Il mendicante si muove, e altri buttano monete in tutte le direzioni, ridendo. Mi invade una rabbia selvaggia, ma se parlassi riderebbero ancora di più. Uno di loro osserva in silenzio. Scende, raccoglie una per una tutte le monete, le porge al mendicante chiedendogli scusa.

Conclusione. In Bangladesh non ci si riesce mai ad arrabbiare fino in fondo.

Guillaume

Il “Pir” (leader spirituale di un movimento islamico) s’infiamma, all’incontro fra musulmani e cristiani: “Oggi non è qui fra noi, e posso dirlo con chiarezza, specialmente ai miei fratelli di fede. C’è un uomo che ha cambiato la mia vita e la ispira. E’ uno straniero, venuto da un paese ricco che vive fra i nostri poveri, non si stanca di creare amicizia, riconciliazione, di proporre comprensione e pace, di educare i giovani, di pregare. E’ un cristiano, Fratel Guillaume. Per lui ringrazio Allah e dico che dovrebbe essere il modello di tutti noi!”
Nove studenti dell’ultimo anno di teologia e io stiamo condividendo le nostre meditazioni. Ben quattro, con parole ed esempi diversi, confidano che quando pensano alla povertà nella vita dell’apostolo, subito viene loro in mente Fratel Guillaume. Il suo nome ritorna con vari altri gruppi, quando parliamo di spirito missionario, di dedizione, di semplicità, di tenacia, di rapporti fra le chiese, di capacità di rapporti…
Suo padre, pastore della Chiesa Riformata Olandese, rimase deluso quando, invece di seguire le sue orme, entrò nella comunità di Taizé. Ma poi si appassionò anche lui alla sua vocazione. Instancabile nonostante i 63 anni, se occorre viaggia sul tetto dell’autobus, ma arriva dove lo aspettano. Un ottimismo incrollabile: quando c’è tempesta, si rallegra per quanto sono belle le nuvole. Per celebrare i 25 anni della sua consacrazione religiosa ha chiesto alla sua comunità di lasciargli fare la cosa che più sognava. Affittato un battello, lo ha caricato di bambini di strada, mendicanti, zoppi e storpi e ha fatto loro trascorrere una memorabile giornata sul fiume, con pranzo abbondante e canti fino a sfiatarsi. S’intrufola nelle prigioni a trovare i più dimenticati, scova gruppi di profughi birmani che si nascondono, conosce tutte le chiese e comunità ecclesiali, tutti i gruppi tribali, le loro iniziative, le loro sofferenze. E’ capace di criticare sempre in modo costruttivo, con un cuore pacificato. Abbiamo trascorso vari periodi insieme, quando predicava gli esercizi spirituali ai futuri diaconi nell’ashram di Diang. Lo sentivo cantare spesso, la sera parlavamo a lungo. Se mancava la corrente elettrica, il discorso continuava alla luce delle stelle. Bastava anche quella per accorgersi che, quando parla di Gesù, gli si inumidiscono gli occhi…

Specializzazione

Dal 1978 ogni mattina, anche quando è buio, Mr. Andrew Frazer viene a Messa, a piedi. Una mezz’ora.
L’altro giorno due passanti lo fermano, coltelli in mano. “Cellulare!” intimano. “Non lo porto con me.” “Soldi!.” “Non ne ho.” Lo perquisiscono accuratamente, brontolando perché non trovano nulla. Sono evidentemente delusi. “Beh, se proprio volete qualcosa, prendete l’orologio…” “No, noi trattiamo solo cellulari.” E se ne vanno.

Accettarsi

12 marzo 2010: 92 ragazzi e ragazze di 17-18 anni al secondo incontro del “Corso Samuele” s’interrogano a gruppi su come accettano sé stessi, la vita, le loro difficoltà. Il clima in generale sembra positivo: sono giovani che hanno speranza, voglia di vivere.
Il punto debole che ritorna più volte? “Quando mi chiedo perché mai sono nato in Bangladesh, allora mi sento frustrato…”