Autogestione

Un breve e-mail la sera prima che io parta da Dhaka è una doccia fredda. Arriva dall’Italia sommersa da neve e gelo che, mi comunica la professoressa Donatella Scaloia, hanno messo fuori combattimento anche lei con febbre alta e malanni vari. Niente viaggio per venire a guidare il nostro ritiro spirituale annuale a Dinajpur, ma… a letto, con paracetamolo e minestrine.
Noi che facciamo? Trovare un sostituto con 24 ore di anticipo è impensabile, posporre pure: tutti faticano a ritagliarsi una settimana libera per il ritiro, poi arrivano Quaresima, Pasqua, Assemblea, altri programmi… Ce la caveremo da soli.
Un libro con un corso di esercizi predicati dal card. Martini sul Discorso della Montagna ci dà la traccia. Uno di noi riassume passo passo le conferenze, poi passa a tutti il testo ciclostilato; la sera, condivisione libera. Il terzo pomeriggio, invece della meditazione, gustiamo un intenso e bellissimo “commento” artistico e storico al Discorso della Montagna vissuto oggi: il film “Uomini di Dio”. L’ultima sera il nuovo vescovo Sebastian viene a pregare, cenare e condividere con noi, con la sua semplicità disarmante e la sua passione pastorale e missionaria.
Insomma, forse il fatto di dovercela cavare da soli ci ha stimolati, e il ritiro autarchico ha soddisfatto tutti (o quasi).

Bellezza

Nei bei tempi andati si stracaricava la sposa di gioielli, belletti, veli ricamati, sari, broccati, pendagli, cavigliere e quant’altro – per poi trasportarla alle nozze su una portantina. La portantina è quasi scomparsa, ma tutto il resto rimane, ingoffito dalla mentalità consumista che avanza, e reso possibile anche ai poveri grazie al sistema dell’affitto degli abiti e di chili di chincaglierie. I “Beauty Parlor” sono sempre più diffusi, anche in piccole cittadine, e vanno da minuscoli antri con uno specchio rotto, un seggiolino zoppo, vari barattoli di creme e una volonterosa matrona che le spalma senza risparmio sulla fanciulla, a vere e proprie cliniche della bellezza, con massaggi, bagni, lampade e chissà che altro, spesso agli ordini di una intraprendente Filippina.
Qualche “Beauty Parlor” sta lanciando con successo anche la sezione per uomini – rigorosamente separata.
Compaiono pure insegne pubblicitarie con foto (più spesso disegni, o meglio caricature) di omaccioni seminudi mostruosamente carichi di incredibili fasci di muscoli, luccicanti di olio. Sono le palestre di “Body building”, che affascinano giovanotti complessati. Qualcuna ha pure la sezione per donne – rigorosamente separata.

Magnifici!

Due robusti giovani chiacchierano tranquillamente tenendo in braccio Martin, che per un incidente è rimasto paralizzato. Muove solo le braccia e la testa, non può sedersi, vive sdraiato su una rudimentale lettiga a rotelle. Sono preoccupato: ce la faranno? Sul grosso autobus parcheggiato nella stradetta altri giovani armeggiano, provano, tirano, spostano, portano su mattoni recuperati da qualche parte, corde… Ci siamo, ancora una volta l’arte di arrangiarsi ha vinto e la barella è fissata in modo che a me pare terribilmente precario, ma invece reggerà a due giorni di viaggi, sarà scaricata e ricaricata molte volte, senza inconvenienti. Martin viene sdraiato, ora si caricano carrozzelle e grucce varie, con ragazzi e ragazze che si sistemano allegramente sui sedili. Partiamo per un picnic di lusso da Rajshahi, tappa a Bonpara per vedere la nuova chiesa e il seminario e pranzare, poi a Zirani, visita al nuovo centro per lavoratori  e pernottamento (sul pavimento). Il giorno dopo a Dhaka, con il pezzo forte: il Planetarium, seguito dalla passeggiata al parco, il pranzo nella parrocchia di Tejgaon con il simpaticissimo parroco p. Gabriel Corraya che serve i ragazzi a tavola, e sulla via del ritorno una tappa ancora al Monumento dell’indipendenza del Bangladesh. Le mie preoccupazioni e tensioni si sciolgono lentamente, vedendo come i ragazzi sono organizzati, si aiutano a vicenda, e come suor Dipika, che sembra perennemente distratta, segue invece tutto con grande discrezione e saggezza: qualche indicazione quasi sotto voce, e tutto fila liscio.
Penso a P. Mariano Ponzinibbi, che ora certo si diverte con noi in cielo. Aveva messo le basi di questo ostello – ora chiamato Snehonir (cioè “Casa dell’affetto”), raccogliendo ad uno ad uno bimbi e bimbe con handicap vari, e altri poveri o orfani ma senza handicap, per non creare un ghetto, e insegnare a stare insieme, aiutarsi, aprirsi una strada nella vita nonostante le avversità. Martin, sulla sua lettiga, ce l’ha fatta, ora vive con la mamma e si guadagna il riso lavorando come contabile. Altri stanno arrivando, Flora ha preso il diploma e sta cercando lavoro… Ma tutti sentono che questa è la loro famiglia, tornano appena possono, continuano a condividere.
Due giorni intensissimi. Pensavo: la sera del secondo giorno, appena in autobus per tornare crolleranno tutti addormentati. Macché! Sui sedili muovendo spalle e braccia quando le gambe non reggono, o nel corridoio, canti e danze scatenati per tutto il percorso ai ritmi infernali delle moderne danze indiane, fino all’arrivo alle 11 di sera.
Una grande gioia per loro – e per me.

Paolo di Monte Siro

Prete diocesano, p. Paolo Ciceri, originario di Monte Siro (Milano), arriva in Bangladesh poco dopo l’indipendenza, nel 1973, e lo mandano a Beneedwar alla scuola del più anziano p. Giulio Schiavi e insieme a p. Emanuele Meli. E’ una missione vastissima, e dopo pochi anni l’area di Chandpukur viene eretta in missione autonoma e affidata a lui, che ci mette anima e corpo per fondarla e permettere agli aborigeni di stare tranquilli sulla propria terra. E’ là che, per il suo zelo travolgente, la sua passione per la gente, le sue iniziative vulcaniche e il lavoro senza sosta l’amico p. Emilio lo definisce scherzando “l’ultimo dei grandi missionari dell’Asia”. Poi una parentesi a Ruhea, nel nord, prima di approdare a Rajshahi, 25 anni fa. La presenza cristiana in questa città sul Gange è ancora poco più che simbolica; la chiesa cattolica ha un piccolo ufficio della Caritas, e una cappella accanto ad un modesto ostello per ammalati, che fanno parte della parrocchia di Andharkota, villaggio aborigeno a pochi chilometri di distanza. P. Paolo però si rende conto che qualcosa sta cambiando. Aborigeni santal, mahali, paharia, orao perdono le loro terre e approdano in città come spazzini, facchini, guardie notturne. Si disperdono, vivono in baracche e verande, sono preda dell’alcool e dello sfruttamento. Con P. Faustino Cescato e suor Silvia Gallina incominciano un’avventura che andrà lontano. Comprano terre e vi costruiscono villaggi con casette in terra dove collocare la gente e formare nuovi agglomerati di popolazioni diverse. Fra difficoltà enormi l’esperienza cresce, e migliora. La gente riprende dignità, i figli vanno a scuola, le casette e l’alimentazione migliorano e di conseguenza migliora la salute di tutti. P. Paolo è esigente: chi non sta alle regole se ne va. Ma ben più che le sue sfuriate e i suoi castighi la gente percepisce il bene che vuole loro. Non manca chi lo imbroglia, chi lo delude o lo tradisce; chi lo accusa di essere un ingenuo. Ma P. Paolo vede anche i buoni risultati e tira avanti. Giovani che si laureano, famiglie che vivono unite, fede cristiana frutto – come dice lui – di “tonnellate di catechesi…”
Ora, a quasi 70 anni, p. Paolo con la solita irruenza spiega alla sua gente che deve cambiare: “Devo lasciare tutti questi impegni, e mettere in pratica altre doti che finora non ho espresso in pieno. Basta soldi, conti, progetti, costruzioni…Voglio dedicarmi allo studio – ho portato dall’Italia 40 chili di libri! Voglio impegnarmi nella pastorale delle famiglie. Voglio pregare. Anche s. Camillo, dopo tanto lavoro per i malati si è ritirato a pregare e prepararsi a morire.” Dispiace a tutti che se ne vada, e qualcuno ha protestato con il vescovo; ma la maggioranza lo capisce e gli augura di fare ancora tanto, in un’altra diocesi, Dinajpur, e con un altro stile.
Come Paolo di Tarso, Paolo di Monte Siro ha fondato tante comunità e lascia a Rajshahi migliaia di fedeli, una parrocchia cattedrale che presto verrà divisa in tre, opere sociali, vari istituti di religiose che in questi anni hanno aperto scuole, ostelli, dispensari. Come un Mosè del terzo millennio, ha dato terre e identità a gente che non aveva le prime e stava smarrendo la seconda. E’ stato anche un poco Giona. E ora vuole essere s. Camillo. Auguri.

Messaggio

Lui, il giovane Sebastian, ordinato ieri primo vescovo di etnia santal, e lei, Rosaria, suora ultraottantenne che da anni vive in una delle missioni più remote del Bangladesh, s’incontrano finalmente. Suor Rosaria abbraccia forte “il suo” Sebastian, che era ragazzino quando lei stava alla missione di Marianpur, e che, da seminarista più grande, aveva donato il sangue a lei, gravemente ammalata. Piangendo, gli lascia il messaggio della sua lunga vita missionaria: “Sebastian, fatti coraggio. Sei vescovo. Ama soprattutto quelli che ti vogliono male, quelli che sono più poveri e disperati, quelli che ti rifiutano. Ama tanto, ama tutti”. “Queste parole staranno sempre nel mio cuore”.

Scugnizzi

Di buon passo percorro il vialone che costeggia il grande prato attorno al prestigioso palazzo del parlamento, gloria architettonica moderna del Bangladesh. Venerdì mattina, c’è relativamente poca gente in giro. Trascinando una valigia con le rotelle sorpasso una coppietta mano nella mano, incrocio due enormi poliziotti impegnati ciascuno a chiacchierare con il suo cellulare, un giovanotto appoggiato alla moto mi segue insistentemente con gli occhi. Poi vedo arrivare due scugnizzetti impolverati da cima a fondo. Avanzano saltellando e scherzando, uno impegnato a mangiare un pezzo di pane, l’altro a cercare bottiglie di plastica vuote. Mi fermano: “Signore, stia attento, guardi!” mi dicono timidamente. La giacca, legata alla maniglia della valigia, si era sciolta e me la trascinavo nella polvere da chissà quanto tempo. Ci volevano proprio loro per avvisarmi!

Osservazioni

Nel breve viaggio compiuto in Italia per visite mediche, ho portato con me Mong Yeo, il giovane che ha fondato e gestisce con grande impegno un ostello di oltre 85 ragazzi e ragazze per le minoranze tribali del sud est – ne ho parlato varie volte in queste “Schegge”. Era la prima volta che usciva dal Bangladesh, e non e’ stato facile persuadere la polizia di frontiera bengalese che quell’uomo semplice, scuro di pelle, con abiti dimessi e con il passaporto intonso aveva ottenuto legalmente il visto turistico per l’Italia. In pochi giorni trascorsi insieme a Roma e poi in Lombardia, ho raccolto alcune sue riflessioni su cio’ che vedeva, e ascoltava.
Grande stupore ed entusiasmo per l’antichita’ di edifici e arte, e per la genialita’ dei nostri antenati che hanno costruito cupole, innalzato colonne gigantesche, trasportato acqua a distanze incredibili senza i mezzi tecnici di oggi.
Invidia meravigliata per il traffico ordinato, la pulizia, il senso di benessere che si respira ovunque.
Gran noia per i lunghissimi pasti che non si sa mai quando finiscono e quante portate abbiano…
Una domanda preoccupata: “Siete meravigliosi, e con una tradizione di grande fede. Ma ho letto che ora non fate piu’ figli, e vedo che tanti stranieri vengono a stare qui da ogni parte. Se il vostro popolo finisce, chi custodira’ e valorizzera’ tutte queste cose? Come continuerete ad arricchire il mondo con il vostro genio?”
Tanta gioia per l’accoglienza fraterna di molti, per la scoperta che s’interessano al suo Paese, ai “suoi” aborigeni, e aiutano. Un sorriso perplesso per qualcuno che in strada, vedendolo scuro, si allontana.
Un’impressione: “Guardo, e mi sembrano tutti ricchi. Ma mi sembra anche che molti non abbiano il cuore contento”.
“Chissa’ perche’, con questo freddo, portano la gonna cosi’ corta!”
Il cibo? Un poco di perplessita’ nei primi due giorni, ma poi nessuna difficolta’, anzi. Deliziose le castagne.
L’acqua gassata… una schifezza.
Ma quanto parlate voi italiani!
“Vi ammiro tantissimo, per mille motivi, siete pieni di iniziative bellissime, per la pace, la giustizia, la preghiera. Ma mi pare che dovreste curare di piu’ la formazione dei vostri giovani.”
Una galleria lungo la superstrada: meraviglia mai vista e da filmare.
Il marmo: ma come fanno a produrre lastroni di cemento cosi’ belli?
L’indicibile gioia di rotolarsi nella neve.
Il pensiero sempre rivolto ai suoi ragazzi. Per loro abbiamo portato 4 chili di marron glace’ e un taleggio intero da assaggiare.