Falsi

Da quando guida il camioncino, Massimo sa che lungo le strade fuori città, ad ogni bazar bisogna fare i conti con non meglio identificati “comitati”, che per lasciarti passare chiedono soldi, e in città la polizia spesso e volentieri ferma per controlli. Ma lui ha le carte in regola… Lo fermano ad un posto di blocco a Dhaka, porge i documenti, l’ufficiale si allontana scrutandoli attentamente, i curiosi attendono. Dopo un bel momento, l’ufficiale torna con l’aria accigliata. “Sembrano in regola, ma queste carte sono false, tutte false” “Come sarebbe a dire? Ho fatto i documenti io personalmente, ho aspettato un sacco di tempo. Come fa a dire che sono falsi?” “Guardi, le faccio vedere…” Mentre l’ufficiale s’avvia verso un collega a poca distanza, uno dei curiosi sussurra all’orecchio di Massimo che lo segue: “Quanto t’ha chiesto? Ducento o quattrocento?” – Arrivati, l’ufficiale mostra un altro plico: “Venga. Vede  questi documenti? Carta giallastra, macchie, inchiostro scolorito quasi illeggibile, tipico di una stampante stravecchia. Questo è senza dubbio autentico. Ma il suo? Carta pulita, nuova, stampa nitida, nessuna macchia… non può essere che falso!”

Lichi

Si costruiscono una capannuccia sopraelevata, tipo tendina da campo, quanto basta per starci in due a dormire e fare da “campo base” nel boschetto dei “lichi”. Piazzano sugli alberi più alti una fioca lampadina (la luce non piace ai pipistrelli) e sugli altri strani marchingegni di lamiera, legno e altro materiale rigido collegati con corde alla capannuccia. Passano la notte a tirare queste corde, urlare, battere le mani per cacciare i volatili divoratori del piccolo frutto che – dopo il mango – è il più amato dai bengalesi. Di giorno ciondolano, dormicchiano, cucinano, guardano quelli che hanno il compito di controllare lo stato di maturazione dei “qatal” (frutto del pane) battendo leggermente un lungo bastone sul grosso frutto e ascoltando il rumore che fa. Durata di questi due preziosi incarichi: oltre un mese, fra aprile e maggio.

Cuore

Abbiamo vissuto giorni tristi in Bangladesh, fra terribili violenze politiche, ondate di fondamentalismo, crollo del palazzo a Savar, presso Dhaka. I morti del Rana Plaza sono stati oltre 1120, più ancora i giovani rimasti feriti e mutilati, cui in alcuni casi è stato tagliato un arto senza anestesia, per estrarli dalle macerie in cui erano bloccati. Ne conoscevamo personalmente alcuni.
Un’amica mi ha scritto da Roma: “Vengo lì spesso con il cuore”. Grazie!

Non tutti

“Il Rana Plaza ospitava 6 fabbriche tessili tra il 3° e l’8° piano, e più di 3mila persone, ammassate a produrre come topi in trappola nelle fabbriche tipo del 21° secolo, dove i lavoratori tessili si sfiniscono in turni produttivi massacranti per rispondere alle richieste del mercato internazionale: bassissimi costi, just-in-time, flessibilità totale in barba alle regole e alle convenzioni internazionali (…) Lavoratori, ridotti a merce da scambiare al miglior prezzo. 38 dollari al mese, per recarsi in fabbriche malsane e insicure, lavorare 12 ore al giorno e rinunciare a priori a qualunque sogno di emancipazione e futuro…”.
Fra le tantissime possibili, questa è la citazione di un articolo che – dopo la tragedia del palazzo crollato a Savar – descrive la situazione dei lavoratori in Bangladesh. In termini generali è vera, purtroppo.
Ma dire che non tutto è così, oltre ad essere giusto, può incoraggiare a capire che cambiare è possibile, e perciò diventa ancora più doveroso.
Fra le ditte che operavano agli ultimi piani del palazzo crollato c’era anche la Phantom, di cui scrive Fratel Massimo Cattaneo, direttore della Novara Technical School del PIME:
La scuola tecnica che dirigo è in stretta collaborazione con la ditta Phantom, che ci ha concretamente aiutato nell’avviare un training per operatrici di macchina da cucire nella nostra sede di Dinajpur. Ci sono state donate tutte le macchine da cucire e l’attrezzatura relativa; dal 2008 Phantom paga lo stipendio dei tecnici che insegnano nel nostro centro educativo e regala tutto il materiale necessario allo svolgimento delle lezioni pratiche. I corsi hanno una durata media di otto mesi e le ragazze vi partecipano al prezzo simbolico di due euro al mese.
Alle ragazze che completano il corso è sempre offerta la possibilità di un impiego alla Phantom o in altre ditte nel settore abbigliamento.
Un buon numero era tuttora impiegato in Phantom, in quanto l’ambiente e le condizioni di lavoro erano decisamente migliori rispetto allo standard locale.
Più volte sono stato in visita alla ditta e sono sempre restato soddisfatto nel constatare che il responsabile, sig. Aminul, aveva attenzioni che andavano ben oltre il semplice interesse economico ed imprenditoriale. L’ambiente spazioso, ben arieggiato e ben illuminato, rendeva le condizioni di lavoro assolutamente confortevoli.
La ditta per molti anni ha lavorato con l’estero e si era adeguata agli standard internazionali anche sulle norme di sicurezza: attrezzatura antincendio, vie di fuga ampie, sempre libere e con segnaletica fosforescente, periodiche simulazioni di evacuazione in caso di emergenza, uno spazioso ambulatorio con attrezzatura di pronto intervento e personale sanitario sempre presente.
Più volte il personale dirigente di Phantom ci ha raccomandato di accogliere nei nostri corsi solo ragazze di età superiore ai 18 anni, altrimenti non avrebbero potuto offrire loro un impiego lavorativo in ditta, pur avendo completato il training.
Ho avuto il piacere di essere ospite del Sig. Aminul anche al di fuori dell’ambiente lavorativo e vi posso assicurare che è una persona squisita, un imprenditore che ha capito l’importanza ti mantenere le condizioni di lavoro al miglior livello possibile, non solo per il bene stesso della ditta, ma soprattutto come dovere morale nei confronti dei dipendenti, secondo gli insegnamenti dalla religione islamica.
Purtroppo non era un tecnico edile e si è fidato di chi gli garantiva l’assenza di pericolo quello stesso giorno del crollo.”
Fratel Massimo commenta:
“Il grande colpevole di gran parte dei mali di questo Paese è la corruzione che permette tutto l’illecito che si può immaginare, basta avere i soldi per coprirlo. E così è stato possibile costruire un palazzo di 9 piani su fondamenta previste per soli 5, senza che nessuno controllo fosse eseguito.”

Direzione

Il 20 maggio scorso a Roma, l’Assemblea del PIME ha eletto la direzione generale, responsabile dell’Istituto per i prossimi sei anni. Nuova di zecca, giovane: tutti entrati nell’Istituto mentre io ero nella direzione a Roma, loro predecessore…
Il capo è P. Ferruccio Brambillasca, di Agrate Brianza, figlio, nella vocazione missionaria, del suo concittadino Beato Clemente Vismara. Di lui ricordo una bella tesi di laurea discussa a Napoli, sulla Croce nella cultura orientale. Ha lavorato come formatore in Italia (Caserta) e in India (Pune) e poi come missionario in Giappone. Il suo vice è P. Davide Sciocco, missionario in Guinea Bissau, ex direttore del Centro Missionario PIME di Milano, fondatore della radio cattolica della Guinea, pluripremiata.
Poi… P. Amal Gabriel Costa, il primo bengalese entrato nel PIME, nel 1996! Missionario in Costa d’Avorio, rettore del nostro seminario teologico a Monza fino all’anno scorso, ora avrà lo sguardo rivolto a tutto l’Istituto. Con Fratel Marco Monti ci spostiamo in Thailandia, dove ha lavorato per molti anni specialmente fra giovani portatori di handicap. Infine, torniamo in Bangladesh: P. Paolo Ballan detto “l’assessore” per aver ricoperto questa carica al suo paese, nel Varesotto, prima di entrare nel PIME. È stato “rapito” dal Bangladesh, dove lavorava dal 2004. Siamo contenti, ma siamo nei guai: come sostituirlo nel suo compito di parroco a Dhaka e formatore dei giovani in ricerca vocazionale?