Dito

Una testimonianza missionaria insolita – almeno per la maggioranza di noi – si può trovare in un libro recentemente pubblicato da un missionario del PIME vissuto per qualche anno in Bangladesh, poi in India, ora in Italia. Parla della sua ricerca interiore e di come si è sviluppata soprattutto in “ashram” indiani, con la guida di “guru” cristiani – specialmente p. Bede Griffiths – in dialogo con la tradizione religiosa indù.
Giovanni Belloni, Grazie al dito che mi indicò la luna, ed. Tracce per la Meta, Sesto Calende, 2015, pp. 237.

P. Dominic

Purtroppo non ero a Rajshahi il 7 agosto scorso, ma ho saputo che la festa per l’ordinazione di P. Dominic Hasda – il primo aborigeno santal che entra nel PIME – è stata bella e intensa. La diocesi ha solo 25 anni, celebrati (e anche in quest’occasione non c’ero) l’11 settembre, ma oltre a p. Dominic ha già mandato in missione attraverso il PIME un fratello, Joseph Aind, ora missionario in Cameroun. Dominic racconta di aver sempre avuto il desiderio di diventar prete, e da piccolo costringeva i compagni di giochi a partecipare alla “Messa” celebrata da lui indossando un asciugamano e distribuendo biscotti per la “comunione”. Ma non tutto è stato facile per arrivare all’ordinazione, e ha dovuto aprirsi la strada diplomandosi infermiere e lavorando, poi lottando contro varie difficoltà familiari. Per “consolarlo”, gli diciamo che queste prime difficoltà saranno seguite da altre, certamente più dure: è stato “destinato” alla Papua Nuova Guinea. Dominic sorride, e risponde che ne è convinto, ma ha fiducia.                                                            Il  Signore ti accompagnerà, e noi siamo ben contenti di averti come confratello.

Utholi

Utholi
Non lontano dalla riva sinistra, là dove l’immenso Jamuna (Brahmaputra) si unisce alle acque del Padma (Gange), appena fuori dalla strada verso i traghetti che portano al sud ovest del Paese, potete trovare una piccola missione cattolica con ostelli per ragazzi e ragazze, casa della suore e del padre, piccola scuola e chiesa – tutto nel villaggio di Utholi. Ma ha anche cappelle e scuolette in villaggi più o meno vicini, piccoli agglomerati di case costruite per i più poveri, catechisti, maestri, gruppi di preghiera che girano di casa in casa e tante iniziative. Tutte su scala ridotta, ma sono veri miracoli inattesi, in quella zona e in quelle condizioni. La comunità cristiana è decisamente varia: pescatori senza neppure un pezzo di terra dove seppellire i loro morti, lavoratori a giornata, intrecciatori di ceste, impiegati venuti da altre zone per lavorare nelle imprese dei traghetti, ex membri delle comunità battiste, ex conciatori di pelli fuori casta, aborigeni, bengalesi… Un amalgama difficile da creare e da tenere insieme, con gente semplice e buona e altra gente rissosa e profittatrice. Aveva messo un piccolo seme un prete diocesano, p. Dominic, poi ha innaffiato, sarchiato, diserbato, concimato con immensa pazienza e tenacia p. Arturo Speziale, conosciuto ora da tutti nella zona per il suo cuore tenero (qualcuno dice: troppo) e per il suo ostinato impegno nell’evangelizzazione dei più poveri, quelli che nessuno considera degni di fiducia. Il 7 giugno scorso P. Arturo ha salutato questa gente per andare a servire in un’altra missione. Fatica del distacco da parte di tutti, ma anche soddisfazione per una realtà nata praticamente dal nulla e che ora ha messo radici, per i molti ragazzi e giovani che hanno potuto studiare, per i poveri aiutati, i malati curati, la Parola diffusa in ogni occasione, la preghiera che è diventata parte della vita quotidiana di non pochi. Ad accompagnare questo “piccolo gregge” è ora il primissimo seminatore, p. Dominic Rozario. Fino a pochi anni fa, nessuno avrebbe mai scommesso che in quella zona potesse esserci una comunità cristiana e cattolica. Ora c’è.

Perché?

Sono tre i “perché” di questa “scheggia”.
Numero uno: perché non si sono viste “schegge di bengala” per molte settimane?
Un’urgenza mi ha costretto a lasciare il Bangladesh a fine luglio, e come produrre “schegge di Bengala” in Italia? Controlli, esami, riposo, medici in gamba, un’acrobazia della tecnica medica moderna mi hanno rimesso in sesto e sono ritornato. Pausa per riprendere contatto, ed eccomi qui a scrivere. Un grazie a chi ha commentato l’ultima scheggia intitolata “Mantello” e a chi s’è chiesto come mai non scrivessi più.
Numero due: perché ti ostini a ritornare, non è imprudente? Non credi che ci sia molto da fare anche qui?
Ho le carte in regola: il permesso del medico, e questa è la pima parte della risposta. La seconda parte me l’ha suggerita p. Gianni, che due anni fa è tornato in Bangladesh – dove ora è incaricato di un’estesissima parrocchia qui nel nord – all’età di 72 anni e dopo 18 anni di servizio in Italia: “Ritorno perché da giovane missionario sono stato – come ci esprimiamo noi – “destinato” al Bangladesh, e questo “destino” ha fatto sì che io ora decida semplicemente di tornare “a casa mia”. Sì, quella è la mia casa”.
Numero tre: perché tra settembre e ottobre hanno ucciso un italiano e un giapponese, e l’ISIS ha rivendicato gli omicidi minacciando di commetterne altri e costringere i “crociati” ad andarsene? Risposta che brancola nel buio. Le ipotesi sono tante, tutte più o meno plausibili. Potrebbe essere davvero l’ISIS che apre un altro fronte. L’idea del califfato ha radici storiche in Medio Oriente e Nord Africa, ed è senza radici da queste parti; ma un poco di fascino potrebbe anche esercitarlo nella gran confusione di idee che ci circonda e nella rabbiosa frustrazione di molti. Potrebbe essere l’opposizione radicale locale per mettere in difficoltà il governo contro il quale diventa sempre più difficile opporsi con metodi aperti e legali. Qualcuno fa notare che gli omicidi sono stati commessi mentre la Primo Ministro Seikh Hasina era a New York a raccogliere premi per il suo impegno ecologico ed elogi per il suo discorso all’Assemblea. Coincidenza voluta? Potrebbe essere un gruppetto sbandato e senza forza che vuole darsi importanza usando nome che fa paura. Non è raro che terroristi di ogni paese e ideologia cerchino di dimostrarsi forti con i propri concorrenti facendo azioni che spaventano, pur senza avere la capacità di dare continuità alle loro pretese.