Non lo conoscevo, ma di lui avevo sentito qualche vaga notizia. L’anno scorso aveva chiesto ospitalità a padre Michele Brambilla nella sua missione di Kodbir, e vi era rimasto un mese; un mese di silenzio, meditazione, lettura della Bibbia, preghiera, solo, ospite discreto e gentilissimo. Faceva spesso periodi di ritiro di questo tipo, ma forse quest’ultima volta era consapevole che stava preparandosi ad “andarsene”. Tempo prima aveva detto a un collaboratore: “So che cosa ho e so che non durerò a lungo. Quando mi aggravo, non voglio cure e metodi artificiali più complessi e costosi di quelli che sto usando qui per i miei pazienti. Voglio un funerale cristiano, e una tomba dietro casa.” E così è stato.
Era neozelandese, nato nel 1941, con una buona carriera medica e specializzazioni varie. Dopo aver lavorato in Nuova Zelanda e poi, in due periodi, nel Vietnam in guerra, aveva servito in Papua e in Zambia, approdando infine in Bangladesh nel 1979. Il suo ultimo luogo di lavoro e della sua vita dedicata e solitaria è stato Kailakuri, zona ancora forestale del nord, abitata per lo più da aborigeni Mandi e Bormon, dove ha gradualmente creato un centro di assistenza medica. Ha lavorato tanto, con metodo e competenza, ma soprattutto si è fatto voler bene. Diceva: “Sono venuto qui perché ho trovato gente buona”. “Lo ha mandato Dio” sostiene la gente, e molti ricordano la sua “filosofia”: “L’uomo può fare qualsiasi cosa se ha dedizione. E la dedizione viene dalla fede. Abbiamo fede in Dio, nella gente, in noi stessi”.
Si chiamava Edrik Baker, era conosciuto come “Fratello dottore”.