Quando m’ha detto il suo nome, ho pensato che mi prendesse in giro, perché mi è sembrato un acronimo (qui li usano moltissimo). “Estiar”, mi ha detto, che in inglese sarebbe S.T.R. Cioè? Con un po’ di tira e molla, l’equivoco si è chiarito, si chiama proprio Astiar, nome che non avevo mai sentito, e appartiene alla popolazione Mandi, del nord est. “Che cosa desideri?” “Voglio fare il missionario con voi, da prete”. Lo guardo perplesso, gli faccio un rapido quadro delle terrificanti difficoltà della vita missionaria, e gli fisso un appuntamento, convinto che stia facendo il furbo: viene perché lo aiutiamo a studiare e poi se ne va.
Il mio dubbio è legittimo in genere, ma in questo caso proprio non ha fondamento. Il giovanotto ormai maturo mi spiega che ha completato gli studi al college, e fra tre mesi darà l’esame finale. Terminata la High School a 15 anni, il papà gli ha detto che aveva altri figli a cui provvedere e non poteva più pagargli gli studi. Non s’è scomposto, e ha risposto: “OK, ci penso io”. Ha detto che voleva entrare in seminario, ma il parroco gli ha risposto che per quell’anno era tardi. “OK, farò per conto mio”. Ha incominciato a fare il contrabbandiere di legname: tagliava legna da ardere al di là del confine indiano, portandola in Bangladesh. Poi ha coltivato un “suo” pezzo di foresta, ha lavorato nei campi a giornata e dopo due anni – senza mai frequentare – si è presentato agli esami “Intermedi” e li ha superati. Per il College, è venuto a Dhaka facendo i lavori più fantasiosi, e anche – per sei mesi – trasportando passeggeri sui riksciò. E’ un amico che lo ha indirizzato al PIME, e quando ho ripreso a parlargli delle difficoltà mi ha risposto che non gli fanno paura: si tratta solo di affrontarle una dopo l’altra, fidandosi di Dio. Ora è con noi, nella Comunità formativa che vive nella parrocchia in cui mi trovo, e se tutto va bene, fra qualche mese avrà pane per i suoi denti: lo studio della filosofia, insegnata in inglese, nel seminario nazionale.