Nei giorni scorsi il radicalismo in Bangladesh ha compiuto un passo inedito. Non per la modalità, ma per l’obiettivo. La modalità infatti è collaudata: volantini diffusi a livello locale, lettere, scritte sui muri, “firmate” da gruppetti fondamentalisti che minacciano castighi a chi non osservi determinate regole dettate da loro. Tipica la minaccia alle giovani donne che lavorano: se non indossate il “burqa”, non garantiamo della vostra incolumità. A minacciare, ora, è il Islami Khelafot Mujahidin Bangladesh. Ritengo abbia a che fare con il movimento – emerso quasi dal nulla qualche anno fa e poi tornato nel silenzio – che, per opporsi alla secolarizzazione, aveva organizzato a Dhaka una sterminata manifestazione di protesta, conclusasi con una notte di vera e propria guerriglia con decine di morti. Adesso il Khelafot si rivolge ad un obiettivo nuovo: imprenditori, commercianti, artigiani non musulmani, ai quali manda una lettera ingiungendo di seguire otto punti precisi, pena provvedimenti severi per i disobbedienti. Fra i contenuti di questa “ordinanza”: tenere nei propri locali la scritta in arabo: “Nel nome di Dio Clemente e Misericordioso”, una copia del Corano, una riproduzione della “Kaaba” (Meta del pellegrinaggio alla Mecca); rimuovere qualunque statua, religiosa o meno, fotografie, ecc.; tenere a disposizione dei Musulmani un luogo adatto per la preghiera; non tenere cibi proibiti ai Musulmani; durante il mese di digiuno chiudere ogni locale che fornisca cibo; abolire qualsiasi trasmissione di musica o canti che non siano coranici. Infine: vietato assumere dipendenti donne, si licenzino al più presto quelle che fossero già assunte, e se proprio è necessario avere donne che lavorano (la lettera non precisa come mai potrebbe essere proprio necessario…) imporre che indossino il “burqa”.