Facevano parte del panorama e della tradizione, e non c’era neppur bisogno di nutrirli, s’arrangiavano razzolando energicamente nei dintorni della casa, facile preda di sciacalli e ladruncoli, speranza delle massaie che nelle grandi occasioni servivano la loro carne, magra magra e dura come il ferro, ma saporitissima. Erano pure il piatto fisso per ospitare i missionari, in occasione delle rare visite ai villaggi più lontani. Pure oggi le galline rallegrano l’atmosfera dei villaggi, ma per le città sono diventate un gigantesco giro di lavoro, soldi e trasporti: 150.000 fattorie di produzione, innumerevoli camion che ogni notte viaggiano verso Dhaka con gli animali “stivati come polli” (appunto!) per rifornire e “profumare” i mercati. La carne dell’umile pollo oggi è molto tenera, ma quasi insapore, e tuttavia batte le altre carni, impigliate in regole religiose e credenze popolari più o meno verosimili. Guai a offrire carne di mucca a un indù, e d’altra parte, anche musulmani, buddisti e cristiani pensano che sia una carne che “fa male”: alla gola (quindi chi canta non la tocca), alla pressione, agli occhi e via via quasi a tutto, secondo le tradizionali convinzioni di ogni regione. Per il maiale manco parlarne con i musulmani; è il preferito degli aborigeni, e i cristiani lo mangiano con gusto – ma sono pochi. La capra – con il pesce – è considerata la più prelibata, ma costa tanto. Così, se c’è un banchetto cui partecipano diverse categorie di persone, e si tratta di ricchi, sono le capre a farne le spese, ma quasi sempre a farne le spese è l’umile pollo d’allevamento, spennacchiato e traballante, che neppure sa che cosa voglia dire razzolare e scegliersi un insetto o un semino in mezzo all’erba di un prato, o un verme che striscia fuori dalla terra appena arata.
E le uova? Dicono che, con la crescita economica, i bengalesi siano arrivati mangiarsene in media 51 all’anno, e gli addetti al settore puntano a farne mangiare 85 all’anno entro il 2021. In barba agli occidentali terrorizzati dal colesterolo.