Cibo

Il Bangladesh sembra aver raggiunto, e forse superato Cina e India per la rapidità dello sviluppo economico, in ansiosa attesa del momento in cui il Paese verrà classificato non più come “sottosviluppato” o “povero” ma come “a reddito medio/basso” o addirittura “medio”… Il fervore di opere balza all’occhio ovunque, con cambiamenti rapidi di interi quartieri, negozi, strade e così via. Anche il “consumismo” avanza nella vita quotidiana, con la corsa ai cellulari sempre più smart, l’uso crescente di merendine oleose e dolciastre che fanno poi andare dal medico con il mal di fegato e il sovrappeso, le moto che infestano le strade, la gente meglio vestita di quanto fosse pochi anni fa. La miseria si ritira e si nasconde; se prima era normale, ora si vergogna. Le statistiche (non chiedetemi su quali dati si fondino) dicono che le persone gravemente malnutrite sono oltre 26 milioni. Malnutrizione non significa rimanere senza fatica snelli e senza cellulite; significa fragilità, meno resa nel lavoro anche intellettuale (risultati scolastici anzitutto), malattie più frequenti. I medici dopo una serie di esami costosi, concludono che hai bisogno di mangiare meglio e prescrivono ricostituenti, vitaminici e integratori vari. Poi aggiungono “consumare ogni giorno un bicchier di latte, un uovo, verdure abbondanti”. Se sono rimasti quattro soldi, si comprano le medicine e si dimenticano uovo, latte e verdure…

Svaniscono

“Hanno sgozzato tre giovani di un villaggio vicino al mio” mi dice angosciato un giovane Tripura che studia a Dhaka. Queste voci che arrivano da lontano non sono mai del tutto sicure, ma un fondamento ce l’hanno. Sono ormai oltre 400mila i Rohingya che in pochi giorni hanno passato il confine e sono stati faticosamente sistemati in campi profughi nell’estremo sud. Il Bangladesh dapprima aveva cercato di fermarli, anche a fucilate, poi su giornali e TV ha preso forza l’interpretazione che i Rohingya siano perseguitati perché musulmani, e il governo ha avviato iniziative di accoglienza – accompagnate da regole chiare: li accogliamo ma nessuno esca dai “campi”, si faccia un censimento specifico per loro e nessuno abbia documenti bengalesi, non vengano assunti per lavorare, dovranno andarsene al più presto.
E’ da tempo che Myanmar e Bangladesh si scaricano addosso questo “peso” umano e politico, sostenendo che i Rohingya sono cittadini dell’altro paese.
Si dice che ora, in questi squallidi campi, si trovino in stragrande maggioranza donne e bambini; e gli uomini? “Svaniscono” scrive un quotidiano bengalese; polizia ed esercito hanno rintracciato gruppetti di profughi anche in altre regioni e li hanno prontamente rispediti ai campi di raccolta, ma si tratta proprio di poca gente… Perché cercare lontano? Lungo il confine con il Myanmar c’è il Cittagong Hill Tracts, la fascia collinare che nel sud est del Bangladesh è da secoli terra di vari gruppi aborigeni con culture e religioni diverse, e già prima che si scatenasse la repressione dell’esercito birmano era meta di molti Rohingya. Per molti bengalesi l’Hill Tracts è come il “far west”, da occupare cacciando i pochi “selvaggi” che la abitano; e sono già riusciti a diventare maggioranza, specie nelle città. I Rohingya che negli anni scorsi scappavano da questa parte del confine, rimanendovi clandestinamente, venivano impiegati come mano d’opera a basso costo dalla malavita e dal contrabbando locale, che li aiutava a trovare spazi, a spese degli aborigeni. Ora il processo si accelera. Se altrove in Bangladesh è quasi impossibile farsi largo, qui gli spazi ci sono, e dell’accoglienza si può fare a meno, se si è decisi, armati, e fiancheggiati da bengalesi locali anche loro arrivati da lontano ed entrati a forza. In più, gioca a loro favore uno degli obiettivi dell’estremismo islamista: creare e sfruttare odio contro i “diversi”. Già vittime di assalti razzisti negli anni scorsi, ora i buddisti vengono dipinti come bestie assetate di sangue, persecutori dei musulmani, e se molti aborigeni buddisti non sono, la differenza non è tanto importante.
Attorno ai campi profughi ronza gentaglia di ogni tipo: chi cerca donne per i bordelli bengalesi e all’estero, chi recluta estremisti o spacciatori, chi vuole lavoratori a bassissimo costo, cioè schiavi…
Nei remoti villaggi Tripura, Chakma, Marma, Mrong e di altre etnie in quest’ultimo angolo di foreste in Bangladesh, gli uomini vegliano tutta notte per prevenire assalti; ai buddisti le autorità hanno consigliato di girare “con prudenza”; i monasteri sono presidiati. La paura è tanta, e non è infondata.

Antiterrorismo

Dopo l’attentato terroristico di Dhaka, avvenuto in un ristorante il primo luglio dell’anno scorso, la paura era diffusa – e le vendite di telecamere a circuito chiuso per controllare entrate, cortili, sale e quant’altro andarono alle stelle. I parrocchiani di Mirpur cercarono di persuadere il parroco p. Quirico, e il sottoscritto, che un impianto del genere era assolutamente necessario; non ci riuscirono, ma non si scoraggiarono: raccolta la somma necessaria, strapparono il permesso di sistemare l’impianto con tre telecamere nei punti strategici. Poi si rilassarono contenti: ora siamo sicuri…
Infatti, non successero incidenti di sorta, se non che – dopo circa un anno – una signora, tornando al suo posto dopo aver ricevuto la Comunione durante la Messa, vide che la sua borsetta era sparita. Stupore, indignazione, commenti… poi, per qualche settimana ogni tanto spariva un paio di scarpe in buono stato (qui da noi si entra in chiesa a piedi scalzi) e rimanevano desolate in veranda una signora a piedi scalzi, e un un paio di vecchie ciabatte non sue. Poiché l’atmosfera rischiava di avvelenarsi, si decise di tenere chiusi i cancelli al momento dell’uscita, finché tutti avessero recuperato le loro calzature, scarpe o ciabatte che fossero: un provvedimento astuto, unanimamente approvato, e mai messo in pratica. Finchè un’altra borsa scomparve durante la distribuzione della Comunione…
Fu allora che qualcuno si ricordò dell’impianto antiterroristico, e alcuni volontari si diedero a controllare i filmati, alla ricerca non di bombe o cinture esplosive, ma di una borsetta – che venne trovata! Una donna sconosciuta appariva mentre s’affrettava verso il cancello con la refurtiva, prima della fine della Messa. “Non si farà più vedere” sentenziò qualcuno. Ma dopo oltre un mese la signora riapparve, e venne riconosciuta. Allora sì, i cancelli vennero chiusi, e la signora, fermamente invitata ad andare in sacristia, dovette fronteggiare una decina di membri del consiglio parrocchiale, insieme al facente funzioni del parroco. L’accusa era ampia: scarpe in numero imprecisato, e due borsette, ma la signora negava. Dopo qualche tira e molla, il segretario parrocchiale, che conduceva l’interrogatorio, tirò fuori l’asso che teneva nella manica: la ripresa delle telecamere: “Lasciamo perdere tutto il resto, ma abbiamo le prove che una borsetta l’hai rubata. Se lo ammetti, bene, altrimenti… polizia”. Mentre parlano, finalmente ricordo di averla già vista: viene da lontano; l’ho aiutata almeno due volte, pur con qualche dubbio, perché evidentemente ammalata, e – secondo il suo racconto – completamente sola. Indù, aveva sposato un cristiano che poi l’aveva piantata in asso e ora era rifiutata dagli indù e sconosciuta ai cristiani che aveva frequentato per poco tempo. Mi guarda a lungo. Le sussurro: “Ti hanno indicato la via per uscirne, coraggio…”. Ammette, negando – non creduta – di aver preso anche le scarpe e l’altra borsetta. Seguono vari predicozzi, dal sapore inevitabilmente ipocrita, di alcuni dei presenti, che esprimono in vari modi il concetto fondamentale che: “I cristiani non fanno queste cose”. Già…
Finalmente lo spettacolo finisce: “Vai, non ti facciamo nulla, ma non farti più vedere”. E i “giudici” se ne vanno. Rimaniamo di fronte, lei e io, a lungo. S’incidono nella memoria e nel cuore il suo volto magro e terreo, le sue parole disperate. Le do quel poco che ho in tasca al momento, poi mi dice: “Come faccio a uscire con questa vergogna?” L’accompagno per mano fino al cancello, per un addio tristissimo, e senza speranza di rivederci. Come faccio a ricordarla senza angoscia?

Lasciare

Quando Gesù dice al giovane ricco: “Vai, vendi tutto, dallo ai poveri; poi vieni e seguimi”, quello s’intristisce e se ne va, in silenzio. Forse gli è mancato il coraggio, che certamente occorre per una scelta del genere; o forse gli è mancato quell’appoggio che sarebbe bastato a fargli compiere il salto? Lo pensavo mentre, dal 3 al 6 agosto, partecipavo alle liturgie, celebrazioni, festeggiamenti, spettacoli che hanno animato la parrocchia di Tumilia (Dhaka), e molti di noi missionari del PIME con rispettivi amici e collaboratori, per l’ordinazione presbiterale di Regan John Gomes.
Era lui, infatti, che veniva ordinato e che era deciso a lasciare tutto, partendo per la Guinea Bissau; ma chi “lasciava” di più non era certo lui.
Lo conosco da quando era all’inizio degli studi di college. Dinamico, impulsivo, pieno di energie e interessi, in ricerca, anche critico e “zuccone”… Lo interpellava la nostra vita qui, lontano dal nostro paese e perciò “per forza” dedicati interamente alla gente a cui eravamo stati mandati. Cercava la sua strada, e si è orientato sempre più chiaramente e decisamente al presbiterato missionario nel PIME. Ma non era una scelta facile: primo di 6 fratelli e sorelle, il papà era morto improvvisamente pochi anni prima, e l’unico fratello – molto giovane – era annegato in uno stagno vicino a casa. Ogni volta che andavo a trovarlo, la mamma mi mostrava piangendo le loro fotografie. Quattro sorelle: una suora nel monastero di clausura delle Clarisse adoratrici a Mymensingh; una gravemente handicappata e bisognosa di assistenza, due che studiano ora nel liceo. Regan non doveva lasciare molti campi, o case, o conti in banca, ma questi “beni” ben più preziosi. Se lo ha potuto fare, certamente è perché ha avuto coraggio; ma ancora di più perché questi suoi cari non solo non hanno posto ostacoli, ma lo hanno sostenuto in tutti i modi nella scelta. Durante le celebrazioni osservo la mamma: sempre silenziosa, sembra quasi che voglia scomparire in mezzo agli altri, senza farsi notare. Ricordo quante volte mi ha chiesto: “Come va Regan? E’ buono? Mi raccomando, lo aiuti a realizzare la sua vocazione; non deve pensare a me!” E osservo la zia, avvocato, sorella del papà, che gli ha confermato tante volte: “Problemi in casa ce ne sono, anche economici; ma tu non preoccuparti, ci penso io, la mia famiglia siete voi. Vai avanti.” Mentre siamo affiancati durante la processione di entrata, le chiedo: “E’ contenta ora?” “Sì, tanto” mi risponde.
Abbracciando Regan subito dopo l’ordinazione, gli sussurro: “Sai che la tua mamma non mi ha mai detto: perché Regan non rimane con me? Mi ha sempre detto: preghi perché io lo affido al Signore, e voglio che sia tutto per Lui.” E in un brevissimo incontro durante queste feste, mi ha mormorato: “Sto dando proprio tutto…”