Memoria

Nei boschi di larici si trovano spesso grossi mucchi di aghi secchi che le formiche accumulano per farne i loro nidi. Da bambino era per me una tentazione irresistibile il rovesciare con un bastone questi aghi per sentirne il profumo e per vedere le formiche impazzite correre in tutte le direzioni… Questo “flash” di tanto tempo fa mi è tornato in mente il 7 gennaio scorso, quando ho rimesso piede, dopo anni, nella parte vecchia di Dhaka, lungo il fiume Buriganga. Cercavo l’antica chiesa armena, per partecipare ad una preghiera ecumenica organizzata dall’infaticabile fratel Guillaume, di Taizé, e mi pareva di essere una di quelle formiche frenetiche che s’incontrano e scontrano fra aghi di larice e colleghe di lavoro, agitandosi in mille direzioni… con l’aggiunta di rumori, fumi, urla degli altoparlanti pubblicitari o delle moschee, clacson, ambulanti, autobus stracarichi, borseggiatori, e persino carrozze a cavalli per il trasporto pubblico. Poi, di colpo, ecco la chiesetta, circondata da un muro da cui emerge una cuspide bianca con una croce. Si entra, e pare di essere improvvisamente avvolti da una bolla di pulizia, nitidezza, silenzio, pace, ricordi. La chiesa risale al 1781, e deve aver avuto i suoi momenti di vita intensa; ma la comunità armena – formata per lo più da commercianti – da molti anni è scomparsa. Alcuni armeni di buona volontà, pur residendo in altri paesi, si interessano di custodirla, stipendiare un guardiano, visitare ogni tanto questa silenziosa testimonianza della loro storia travagliata. Tutto attorno alla chiesa, tombe, con lapidi adagiate sul terreno e scritte bilingui: armeno e inglese; c’è pure una frase in latino. Le solite espressioni semplici di dolore, di affetti che vogliono continuare oltre la morte, di speranza e fede, di fierezza. Molti i giovani, ma c’è anche la tomba di un uomo che “ha lasciato questa terra dopo una lunga vita piena di attività alla veneranda età di anni 108, mesi 4, giorni 23”. Su molte lapidi, oltre alla data di nascita e di morte, viene indicata l’età, precisando anni, mesi e giorni di vita. Come in ogni cimitero, la visita diventa una silenziosa meditazione, resa più struggente dal fatto che queste persone non hanno nessuno qui che continui le loro tradizioni, ricordi le loro liturgie e le loro storie, li tenga in qualche modo in vita attraverso la loro stessa vita.
Sembrano essere stati inghiottiti dalla storia, e con loro, chissà quanti altri popoli grandi e piccoli, di cui non esiste neppure una piccola memoria.
Ci troviamo in 70 nella chiesetta, cristiani di varie denominazioni e gruppi etnici, a pregare guidati da fratel Guillaume e dal vescovo anglicano di Barisal. Ci sentiamo uniti specialmente ai cristiani armeni, e a tante chiese orientali sempre più incerte sul loro futuro e sempre più disperse. Ci sentiamo uniti fra noi, mentre uno sparuto gruppetto di nuovi cristiani della popolazione Bom recita il Padre nostro nella sua lingua sconosciuta a tutti. Siamo noi i custodi della memoria di una culla di Betlemme, di un messaggio pieno di speranza, di un condannato a morte crocifisso, di una tomba trovata vuota…

Controversie fantasma

Dal 1967, a Tongi, a pochi chilometri da Dhaka, ogni anno si svolge, il secondo più frequentato pellegrinaggio del mondo islamico, noto come “Biswha Ijtema” (raduno mondiale). Non ci sono strutture stabili, solo una grande area sulle rive del fiume Turag, dove tutto viene organizzato in modo estremamente precario e povero. I pellegrini – (si dice siano oltre un milione) sono pronti ad affrontare freddo, sete, scomodità per viaggiare, dormire, mangiare, lavarsi… tutto, per trascorrere tre giorni ascoltando sermoni di “Maulana” famosi venuti anche dall’estero, pregare per la pace e per la diffusione dell’islam, vivere l’ardore e la fraternità del movimento di spiritualità “Tabligh Jamaat”, fondato in India nel 1927, che conta fra i 70 e gli 80 milioni di seguaci in 150 paesi del mondo. Il Bangladesh ne ha 15 milioni. Il pellegrinaggio si ripete due volte in due settimane, generalmente in gennaio, e ovviamente provoca non pochi ingorghi di traffico, blocchi, e altri inconvenienti – ma nulla di violento se non, qualche anno fa, vandalismi nella stazione di Tongi per i treni che non arrivavano. Già, i treni… in queste occasioni sono un boccone ghiotto per fotografi di costume: letteralmente coperti di persone attaccati da tutte le parti: sopra, ai fianchi e persino sotto i vagoni; ma anche mescolarsi, a piedi, nel fiume di persone, quasi tutti uomini che camminano spediti per chilometri verso la capitale dopo la fine dei tre giorni, è un’esperienza unica, che ha un suo fascino per il clima di fratellanza, zelo, gioia che si respira.
Quest’anno però, qualcosa ha rischiato di andare storto. Non sapevo che al Tabligh Jamaat aderissero interi gruppi e movimenti, e fra loro tutta la lunga lista di “madrasse “Qawmi”, quelle ispirate e finanziate da paesi arabi conservatori, e dal movimento “Hefajat-e Islam”, che si è dimostrato capace di mobilitarne centinaia di migliaia di studenti e simpatizzanti per la “difesa” dell’islam – come dice il suo nome. Due giorni prima dell’inizio del primo “Ijtema”, il 10 gennaio, mentre l’aeroporto era già sotto pressione per l’arrivo di pellegrini esteri, s’è sparsa la voce che fra loro c’era anche il famoso predicatore indiano Maulana Saad, e che avrebbe parlato. La faccenda non è piaciuta a Shah Ahmed Shafi, capo di Hefajot-e Islam, il quale ha fatto sapere che Maulana Saad aveva recentemente pronunciato “affermazioni controverse” sul Corano e sulla Sunnah, e per questo non era gradito. L’aeroporto è stato subito bloccato da una folla immensa che non voleva lasciarlo uscire. Disagi e code inimmaginabili per quasi tutta la giornata, ma i manifestanti non mollavano, finché hanno saputo che Maulana Saad non poteva essere bloccato, perché già si trovava a Dhaka, e proprio nella sede centrale di Tabligh Jamaat, situata (tra l’altro) molto vicina alla cattedrale e alla casa dell’arcivescovo cattolico. La faccenda si complica: se bloccare l’aeroporto provoca grossi guai, bloccare quella zona di Dhaka per impedire al “controverso” di partecipare è peggio, una decisione foriera di guai pesanti. Interviene il governo, che in una riunione al ministero dell’interno persuade (così dicono i mezzi di informazione) Maulana Saad a stare zitto e non farsi vedere in giro.
Ma che cosa aveva detto di “controverso”? I giornalisti dichiarano di non aver trovato nessuno che lo sapesse o che fosse disposto a dirlo…

Visita del Papa e dintorni 4

Ripa era venuta a cercarmi con una lettera di presentazione firmata da un prete diocesano che conoscevo bene; anche un cieco avrebbe subito capito che la lettera era falsa, e infatti
p. Abel me lo confermò. Ma Ripa, giovane, bruttina e magra come un chiodo, oltre a essere imbrogliona e chiacchierona, era pure con un braccio rotto, con due bambini, senza il marito (andatosene dope averle spezzato il braccio… “ci vogliamo bene, ma quando perde la pazienza perde anche la testa”), senza soldi, senza possibilità di lavorare; ma non senza debiti da tutte le parti. L’aiutai un poco, poi di nuovo, poi di nuovo. Dai e dai, riconciliati e ridivisi, alla fine hanno trovato un po’ di equilibrio e i figli ora sono sui 15 anni. Ma lui – si chiama Badol – lavorando come imbianchino è scivolato dalla precaria impalcatura cadendo dal quarto piano. Vivo, ma sconquassato. Appena rimesso in sesto per poter ricominciare a guadagnare qualche soldo pescando (la sua passione), tocca a Ripa – forse per amore? Piove, l’acqua entra dal tetto in lamiera, Ripa sale per aggiustarlo e cade. Viva, ma sconquassata. Non che vadano troppo in chiesa, ma qualche volta sì; non avendo mezzi nemmeno per farsi vedere da un medico, pensano di rivolgersi al parroco, che trova un posto per lei dalle suore di Madre Teresa. Vado a trovarla là, e mi fa proprio pena. Dolorante da tutte le parti, scoraggiata, sfigurata dai denti rotti: “Le suore mi trattano benissimo, ma non miglioro, questa volta non sopravvivo”. Per di più, arriva anche il giorno in cui le suore le dicono: ci dispiace, ma fino a dopo la visita del Papa dobbiamo liberare questi locali – e la riaccompagnano a casa. Mi telefona più volte, piange come una fontana e capisco poco, ma non ci vuol molto per intuire che va sempre peggio.
Il Papa viene, e va dalle suore di Madre Teresa prima di incontrare preti, suore e affini nella chiesa “Regina del Rosario”. Poi riparte.
E Ripa mi telefona di nuovo. Non piange, e capisco che mi dice: “Sto bene, sono a posto” “Cioè?” “Cioè sto bene, vengo e te lo racconto”.
Il giorno dopo arriva. Cammina, ride, parla (questo però non mi stupisce…). Insomma, è andata così. Pochi giorni prima, una Suora le telefona: “Ripa, tu hai bisogno di una benedizione speciale, vieni a prenderla dal Papa” “Ma se non c’è posto! E poi sto male, malissimo, ho dolori da tutte le parti, non cammino, vomito…” “Vieni, il posto te lo trovo io”. Ripa non se la sente, ma alla fine sale dolorante e piangente su un pulmino che va a Dhaka, aspetta pregando come una matta, ed è presente quando il Papa fa il giro fra i letti. Si ferma anche davanti a lei, si scambiano due parole, la benedice, se ne va. E poi? “E poi quella notte l’ho sognato, tre volte. La mattina mi sono svegliata e stavo bene, benissimo. Non lo vedi?”. Sì, i denti sono ancora rotti, ma tutto il resto funziona – anche la lingua.

Visita del Papa e dintorni 3

Suor Roberta da anni manda avanti un ospedale che cura ammalati di lebbra e di tubercolosi, a Khulna, e segue non pochi “satelliti” dell’ospedale, punti d’appoggio distribuiti nella zona, aperti a rotazione, dove i pazienti possono fare controlli e ricevere medicine. Saputo che il Papa sarebbe venuto a Dhaka, s’è detta: “Se il Papa pensa agli ultimi, allora glieli porto vicini”. Comitati, permessi, tagliandi, difficoltà, raccomandazioni, consigli: “ma lascia perdere!”, e alla fine l’ha spuntata. Erano una decina, e il viaggio era lungo, con tanto di attraversamento in traghetto dell’immenso fiume Padma, e di circolazione sugli autobus di Dhaka. Fino alla fine, tutto bene – quasi. Arrivati alla parrocchia “Maria Regina degli Apostoli”, che aveva messo a loro disposizione una saletta ben arredata con tre tavolini e varie stuoie, una signora si fa avanti e comunica: “Ho perso mio marito”. Chi li conosce pensa subito: “Un colpo di fortuna” – ma queste cose non si possono dire, e la signora piange. Interrogatorio a tutti, e risulta sicuro che l’anziano, iracondo e distratto signore era ancora con il gruppo quando si accingevano a salire sull’ultimo autobus, in un punto caoticissimo della caotica Dhaka. “Voleva finire la sigaretta e non s’è accorto che stavamo salendo” è l’unanime commento, e la preoccupazione s’aggrava quando la moglie conferma che non aveva soldi nè indirizzo, quindi non poteva chiedere indicazioni per andare… dove?
Ma l’uomo – da tutti giudicato piuttosto “tardo” – se la cava, e chiede ai passanti di accompagnarlo dove c’è una chiesa. Trovare chiese a Dhaka non è che sia facile, e il disperso interpella innumerevoli passanti, vigili, pedalatori di riksciò, venditori di noccioline, autisti di autobus, ragazzini di strada… finchè uno (purtroppo rimasto sconosciuto e senza il piccolo premio che avrebbe meritato), l’ha fatto arrivare ad una chiesa – protestante. Sottoposto a pressante interrogatorio, l’uomo ha fornito elementi sufficienti a far supporre che si trattasse di una chiesa cattolica, e con un giro di telefonate i nostri “fratelli separati” ci hanno rintracciati. Permettendo così a suor Roberta di dormire tranquilla, alla moglie di smettere di piangere, alla gente di chiedersi “che facciamo?” e di offrire i consigli più disparati, al disperso di arrivare a destinazione, mangiare la cena e di andare il giorno dopo a vedere il Papa – dopo essersi fumato una sigaretta.