Coppamania

Recentemente, l’ambasciatore di Germania presso il Bangladesh è andato a Magura, località quasi sconosciuta del Bangladesh rurale. Voleva vedere di persona una bandiera tedesca lunga cinque chilometri e mezzo, portata in lunga processione da tutto il villaggio ed orgogliosamente esposta nel campo antistante la scuola locale. L’aveva confezionata un agricoltore per esprimere incrollabile fede nella vittora della Germania alla Coppa del Mondo di Calcio.
La Germania non ha vinto la Coppa del Mondo, ma la bandiera ha stravinto sulla bandiera argentina portata in processione con canti e inni a Feni pochi giorni prima, lunga solo un chilometro…
La sera in cui la partita Argentina-Islanda si concluse con un sorprendente pareggio, il mio giovane amico Roby, amareggiato e umiliato, ha perso l’appetito ed è andato a letto senza cena. E non ha voluto sapere nulla di questa “Islanda” rompiscatole che non aveva mai sentito nominare fino alla drammatica serata in cui ha osato fermare l’Argentina…
Stramberie isolate?
Centinaia di migliaia di bandiere di tutte le misure garriscono al vento del Bangladesh su tetti, staccionate, pali, alberi, biciclette, barche, negozi, nelle città, nelle campagne o avvolgono, sotto forma di magliette, innumerevoli toraci di bengalesi giovani e anziani. Per numero, stravince l’Argentina, seguita dal Brasile; molto rare le bandiere tedesche, rarissime le spagnole.
L’anno scorso, il Parlamento s’interrogò: esporre bandiere di altre nazioni offende il proprio paese? “Certo, è alto tradimento – sosteneva qualcuno – e va severamente proibito.” Ma prevalse una linea tollerante: visto che il Bangladesh non è entrato nella Coppa del Mondo, s’innalzino pure bandiere di altri paesi, ma più alta di ciascuna sventoli la nostra. Infatti, qua e là si vedono anche bandierette del Bangladesh che fanno da cappello a bandieroni stranieri.
Le bandiere sventolano, e a terra volano sberle, o peggio. Ad oggi – 28 giugno – sono 13 i morti per violenze fra tifosi, quanti siano i feriti e ammaccati non lo so.
Qualcuno si chiede: che cosa spinge un bengalese a sostenere la squadra di un paese che non conosce e non sa dove sia, fino ad azzuffarsi e accoltellarsi con chi sostiene la squadra di un altro paese che non conosce e non sa dove sia? Basta dire che si tratta di un innocente, un po’ infantile passatempo nazionale?
Le risposte sono numerose e fantasiose quanto la sarabanda di bandiere.
L’agricoltore che ha venduto un campo per realizzare la bandiera superlunga, dice che era stato guarito da medicine omeopatiche tedesche, per questo tifa Germania. Ma qualcuno va indietro nella storia: le prime vittorie di Argentina e Brasile nell’era della comunicazione (anni ’70, mi dicono), con figure di spicco come Pelè e Maradona… fecero diventare simpaticissimi Brasile e Argentina, paesi lontani e sconosciuti ma capaci di suonarle sonoramente alle orgogliose squadre occidentali. Erano simboli che davano voce al bisogno inespresso di vedere a testa bassa chi di solito mi avvicina guardandomi dall’alto, e si ritiene maestro in tutto…
Ci sono anche risposte geo-socio-psico-ambientali. Il Bangladesh è terra di grandi fiumi, alluvioni, dedali di canali, tigri, cicloni, disastri naturali, poeti. I suoi abitanti sono abituati al rischio, sanno che spesso non ci sono rifugi, e hanno bisogno di simboli positivi rassicuranti, che assicurano successo. Non solo calciatori, certo, anche Muhammad Ali e Madre Teresa, Robindronath Tagore e il “Padre della Patria” Bongobundhu, fino a Zidane, Messi e Neymar. Anzi, non c’è neppur bisogno che il salvatore esista davvero: nel 1990 – quando la TV stava incominciando a diffondersi – una popolare telenovela raccontava le mirabolanti avventure di un personaggio dalle caratteristiche simili a quelle di Robin Hood: rubare ai ricchi per dare ai poveri. Quando la storia volse al peggio, e il protagonista venne condannato a morte, le masse si mobilitarono in processioni e manifestazioni di protesta perché si cambiasse il racconto, e l’iniqua sentenza venisse cancellata.-
Ovviamente, non può mancare chi pensa che la risposta abbia radici storico-religiose. Il Bengala venne islamizzato sotto il grande impero dei Mogul, ma nella sua fase tarda, quando ormai le glorie originali dei lontani Califfati di Bagdad e di Damasco si erano spente. L’Islam venne portato da predicatori pii ma ignoranti, che convertivano i lavoratori delle loro terre, creando una “religione dell’aratro”. Esperti sentenziano che “atti di devozione irrazionale spesso si sviluppano in ambienti “moribondi” per stagnazione culturale” (Ahmed Sofa, The Mind of the Bengali Muslims, 1976).
Come mai i “dervisci” e i “pir” islamici di tanti secoli fa abbiano posto le premesse per arrivare alle bandiere argentine e brasiliane che sventolano sopra Dhaka, e ad innamorarsi perdutamente di calciatori di squadre sconosciute… non chiedetemelo perché non l’ho capito neppure io.
Più modestamente, l’autore dell’articolo da cui ho rubato queste notizie, verso la fine scrive che una conclusione si può trarre: il Bangladesh sta vivendo una spettacolare crescita economica, ma “la crescita economica non necessariamente si traduce in sviluppi socioculturali”. Insomma, il mondo è complesso, ma le cose semplici, chiare, appassionanti, indiscutibili fanno comodo; dite quello che volete, ma una cosa è certa e chi non la condivide non capisce nulla: il Brasile è onnipotente… la Francia fa schifo… Messi è un santo…
Forse una mentalità che non manca anche in Italia?

Retata

Chiamiamolo “Alberto”. Dicannove anni, abita in una cittadina di campagna, oltre 150 chilometri a nord ovest di Dhaka, dove per molti decenni il PIME s’è dato da fare, passando poi la mano ai preti locali. Ha finito l’esame di “Intermediate” (equivalente al penultimo anno di liceo) e andrà al College, ma dopo due telefonate di contatto, prende l’autobus e viene a Dhaka per parlarmi: vuole diventare missionario del PIME. Come al solito chiedo di raccontarmi la sua storia e gli dico che ha un curriculum perfetto per diventare diocesano, o religioso di un altro istituto; ma perché proprio il PIME? Condisco la domanda con descrizioni macabre delle enormi difficoltà della vita missionaria… Il giovanotto non si scompone (che lo abbiano preavvisato?). Gli dico che così, su due piedi, nonostante la presentazione del parroco, non prendiamo nessuno: deve farsi due anni di College per conto proprio, tenendo contatti con noi e poi, se non cambia idea, magari viene in comunità. Si dice d’accordo e mi saluta. Va da alcuni parenti in città, verrà domani, domenica, per la Messa, mi darà la domanda scritta e dopo cena se ne partirà per il paesello. Invece…
Invece invita l’amico- chiamiamolo “Paolo” a pranzo dai suoi, e dopo pranzo escono insieme per andare a Messa nella chiesa di Tejgaon. Attraversano il quartiere di Karwan Bazar, grande mercato, baraccopoli, crocevia di tutto. Chiacchiera e cammina, vedono in lontananza un grande assembramento di poliziotti, centinaia, e gente che li guarda, e decidono di passare da un’altra strada. Ma…
Ma da 12 giorni il governo ha lanciato una campagna durissima di contrasto al commercio di droga di ogni genere. Dicono che ci siano 7 o 8 milioni di consumatori in Bangladesh, che i “boss” siano nella politica, che le mafie locali si combattono, che… insomma, come in tutti i paesi del mondo. Ma in Bangladesh, in questi 12 giorni sono morti ammazzati 72 “noti spacciatori”, tutti nello stesso modo: i giornali scrivono che si tratta di “omicidi extragiudiziari”. I politici però correggono: si tratta di “scontri a fuoco”. In piena notte, le loro bande attaccano pattuglie di polizia che rispondono al fuoco e, dopo lo scontro, trovano sul terreno, crivellato di colpi, proprio lui e solo lui, quello che era ricercato e che tutti sanno essere un pericoloso delinquente… Oggi, tredicesimo giorno, siamo arrivati a 83 uccisi, in ogni angolo del Bangladesh.
Alberto e Paolo proseguono verso la chiesa sull’altra strada, ma ci sono altri poliziotti, che capiscono al volo trattarsi di pericolosi delinquenti. Li fermano e ammanettano insieme ad altri giovani per portarli alla stazione di polizia di Tejgaon. Si trovano in buona compagnia, centinaia di persone raccolte a casaccio, svegliate bruscamente nelle loro baracche dal sonnellino pomeridiano in questa torrida domenica di digiuno per il Ramadan…
Arriva il momento in cui possono telefonare a casa, e il papà di Paolo, nostro parrocchiano, si precipita a Tejgaon. Ore e ore di attesa, domande, telefonate, ricorsi a persone che ne conoscono altre, che possono parlare con altre, che possono intervenire… finché uno degli ufficiali dice: “Va bene, possono andare”. “Andiamo?”. “Sì, cioè no, un momento, vada da quell’ufficiale là”. Dieci minuti d’attesa, poi la domanda: “Che vuole?” “Mi hanno detto che questi due giovani possono andare, ma devo parlare con lei”. “Giusto, appunto, e allora?”. Il papà di Paolo sa benissimo che cosa significa “e allora?”, ma fa il tonto, così gli tocca andare da un altro, poi da un altro, poi finalmente salta fuori che con 25.000 taka per ciascuno, i due giovani risulteranno innocenti. Per fortuna c’è l’amico che conosce uno che è amico… ci vuol tempo, ma alla fine ci si accorda su 5.000 taka ciascuno. Un bello sconto, perbacco! Solo 100 euro per portarsi a casa non solo il figlio, ma anche l’amico del figlio, tutti e due con la coscienza pulita.
I politici dicono che l’opinione pubblica applaude, e l’inflessibile campagna contro gli spacciatori continuerà finchè sarà necessario.
Aggiornamento dell’8 giugno siamo arrivati a 143 morti ammazzati (circa), nonostante il ritmo abbia subito un brusco rallentamento dovuto al fatto che a Teknaf (estremo sud) abbiano ammazzato un leader del partito al potere, molto popolare e chiaramente “pulito” per ciò che riguarda la droga; era finito nella lista probabilmente per l’astuzia di un avversario politico, e qualcuno ha iniziato a protestare sul serio.