Anniversario

Pian piano, il gruppetto di missionari del PIME in Bangladesh sta smettendo di essere identificato come come “I missionari italiani”. Mentre gli italiani sono diminuiti di numero e aumentati di età, sono arrivati missionari di altri paesi: Cameroun, Brasile, Colombia, India – per ora – mentre sono in attesa di ottenere il visto di entrata e unirsi a noi – oltre a un italiano – un missionario della Guinea Bissau e un altro dall’India. Ogni tanto poi, compaiono missionari del PIME bengalesi, che ritornano per le loro vacanze dalle missioni in cui si trovano: Cameroun, Guinea Bissau, Papua Nuova Guinea, Filippine, direzione generale dell’Istituto a Roma (…perchè, non è una missione anche quella?).

Durante l’assemblea che abbiamo tenuto a Dinajpur (la “capitale” del PIME in Bangladesh) il 26 e 27 febbraio scorsi mi guardavo in giro, e non nascondo che mi sentivo soddisfatto. Mi è venuto in mente che si potrebbe celebrare un anniversario, perchè questa ricchezza di presenze è stata avviata quasi 30 anni fa, settembre-ottobre 1989, quando il PIME ha scelto di aprirsi ad accogliere anche persone provenienti da paesi “a maggioranza non cristiana. Fino a quel momento questo non accadeva per due motivi: il PIME si sentiva in qualche modo legato alle sue origini di istituto che esprime la missionarietà della chiesa italiana, rimanendo in vari modi legato ad essa, e il PIME voleva spendere tutte le sue energie nella fondazione di chiese locali, preoccupandosi di formarne il clero, per cui indirizzava ai seminari diocesani (fondati dal PIME stesso), coloro che chiedevano di unirsi a lui.

L’assemblea generale speciale del 1971 aveva ribadito questi principi, fermando un piccolo inizio di accoglienza di membri indiani, avviato negli anni precedenti. Era la risposta al problema che per gli stranieri era diventato praticamente impossibile ottenere visti per lavorare in India, e per questo si prospettava la necessità di lasciare parrocchie e opere fondate da noi, fino a scomparire gradualmente – come era ormai avvenuto nel Bengala occidentale e sarebbe avvenuto anche nell’Andhra Pradesh, dove avevamo creato tante comunità cristiane, parrocchie, diocesi, scuole, ospedali, centri sociali e così via. Ma la maggioranza ritenne che questo motivo non fosse compatibile con le nostre caratteristiche. Entrare nel PIME per lavorare poi nel proprio paese era qualcosa di inedito, e avrebbe messo in crisi vari aspetti della nostra tradizione, anche spirituale. Fu una scelta difficile e anche dolorosa, specie per coloro che ci credevano, e ancora di più per i confratelli indiani (fra cui diversi miei amici personali); ma ne condividevo le motivazioni, e la sostenni.

Nell’assemblea generale che si svolse 18 anni dopo a Tagaytay (Filippine), si decise invece per l’apertura – e io mi espressi a favore. Voltagabbana? Non penso. Le motivazioni erano altre, e le modalità di apertura furono elaborate in modo da garantire che il PIME rimanesse se stesso, aprendosi però alle realtà diverse nel frattempo maturate e di cui stavamo diventando meglio coscienti.

Quali? Era più chiaro che la missione non si poteva identificare con il partire da “paesi cristiani”, in pratica Europa e Americhe, verso “paesi non cristiani”. I primi erano sempre meno identificabili come tali, e i secondi stavano arricchendosi di chiese che – pur fortemente minoritarie – erano tuttavia vivaci e feconde; ci si era convinti che la missione non è un “di più” doveroso solo per coloro che hanno “vocazioni” in abbondanza, o addirittura preti che rimangono disoccupati; è una dimensione della chiesa stessa, grande o piccola che sia. Il PIME dunque, accogliendo membri di paesi “a maggioranza non cristiana” non doveva aver paura di defraudare quelle chiese, doveva invece aiutarle ad esprimere la loro dimensione missionaria anche all’estero, perchè questo avrebbe contribuito alla loro maturazione e crescita, oltre che a offrire aperture, metodi, mentalità nuove nelle tradizionali “missioni”.

Si stabilì dunque che non si trattava di “cercar vocazioni” per la sopravvivenza dell’istituto; piuttosto, alle chiese che avevamo fondato o in cui operavamo da tempo, potevamo proporre anche il nostro istituto come strumento di missione a dimensione universale. La regola, molto semplice, fu stabilita in questi termini: chi entra nel PIME viene mandato ad operare in paesi diversi dal suo, segno di una chiesa – anche piccola e giovane – che si apre al donare, e stimolo nuovo per la chiesa che lo riceve.

Inoltre, l’accoglienza di missionari da queste chiese doveva essere decisa caso per caso, in armonia con gli episcopati locali.

Si iniziò subito, non mancarono fatiche ed errori; ma ora, guardandomi intorno nell’aula della nostra piccola assemblea, ascoltando gli interventi, pensando a dove lavorano i miei confratelli – sia italiani sia di “paesi a maggioranza non cristiana”, mangiando e pregando insieme… sentivo una grande gioia e soddisfazione. E’ stata una scelta giusta, direi provvidenziale. Io, italiano, entrato nel PIME ben prima che loro nascessero, sono ben contento di ascoltare, guardare, scambiare esperienze, idee e programmi con questi missionari africani, asiatici, latino americani. Insieme, esprimiamo meglio la realtà di una chiesa universale, ovunque a casa propria e ovunque straniera.

Franco Cagnasso

Inutilità – 2

(continua dalla Scheggia “Inutilità – 1″)
Ho interrotto la scheggia precedente al punto in cui dico che abbiamo qualche piccolo segno che l’inutilità, se è vissuta con amore, non vale meno di una vita attiva spesa a fare cose buone. Riprendo: tu dici che conosci persone impegnate “a dimostrare con la vita la loro fede ma io no, io sono dentro queste mura…”.

Ma tu sì, invece!
Credere e amare nelle tue condizioni “dimostra” tanto quanto, e probabilmente più che occuparsi dei migranti o dei bambini abbandonati, cosa che (per fortuna) possono fare e fanno anche molti non credenti. E’, in un certo senso, complementare.

Il credente che può lavorare per qualche obiettivo buono, deve dare il segno che l’obiettivo ha qualcosa di più, ha un “oltre” che viene dalla fede. Ma anche senza credere a questo “oltre”, tante cose più o meno si fanno.

Per te la domanda è più diretta, radicale, priva di alibi; e così la risposta. Anche tu hai dubbi e difetti, e ogni fede ne ha, ma il contesto in cui la vivi, quello della tua impotenza che ti dà apparire e sentire di essere inutile, parla una lingua “diversa dal solito”, pone domande che molti non si porrebbero. E’ quello che scopro sempre di più frequentando persone handicappate, specialmente mentali, che non si capisce nemmeno se possano credere o no, eppure silenziosamente ti interrogano con la loro stessa esistenza: perchè? a che servono? roba da buttar via? Inutile, anzi, ingombrante e dannosa? La mia amica Naomi, giapponese, che davvero ha la vocazione a stare con loro, mi dice: parlano un unico linguaggio, quello degli affetti, spesso soltanto balbettati ma sinceri, è il linguaggio dell’amore e null’altro; è il linguaggio di Dio…

Tu chiedi a noi, missionari indaffarati, di essere le tue mani. Fai bene a chiederlo!!! Ricordacelo spesso. Ricordaci che il nostro lavoro non basta e spesso può essere inutile e controproducente addirittura, o ambiguo (“lo fanno per convertirci… qualche interesse ce l’hanno di sicuro, ecco perchè aiutano… li paga il Vaticano o l’America… approfittiamone, visto che sono così fessi…). Il nostro lavoro vale se è intriso di quello stesso amore che anche a te viene donato dallo Spirito, e che vivi nella tua condizione di “reclusa”. La tua coerenza sta nel restare fedele – cioè nella fede – nonostante che la vita sia “ingiusta” con te e tu non possa viverla come vorresti; e la mia coerenza sta nel restare fedele nella donazione del mio servizio attivo, nonostante le fatiche e i fallimenti. Non chiediamoci chi vale di più, crediamo che il dono che ci è fatto, di credere, è appunto un dono che ci rende “servi inutili” ma riconoscenti e gioiosi, e perciò testimoni – tanto in Bangladesh quanto nella tua stanza. E possiamo così anche sostenerci a vicenda, vivere la comunione dello Spirito che ci ha fatto sentire in sintonia già prima ancora di conoscerci.

Maria, a noi missionari ricorda anche che dobbiamo essere umili. NON siamo eroi. Sei più “eroica” tu (anche se per fortuna non ti interessa esserlo) che credi e preghi come sei capace di farlo, ogni giorno, nella tua “clausura” forzata. Una cara amica che ho conosciuto a Roma negli anni ’70 e ritrovato poi a Dhaka quando per alcuni anni è stata qui per lavoro, aveva una famiglia disastrosa, con diversi membri afflitti da malattie mentali gravi. Faceva tutto il possibile per loro, con fatica e sofferenze immense, sempre sotto tensione, e senza apparenti risultati. Ci ricordava qualche volta che i fortunati siamo noi perchè se abbiamo difficoltà e fatiche, tuttavia stiamo facendo qualche cosa che abbiamo scelto, che riteniamo abbia un valore. Ma chi si trova in condizioni simili alle sue, fatica e soffre per cose che non vorrebbe, che non ha scelto, per cui magari viene emarginata, non compresa… costoro hanno una vocazione “più alta”, se cercano di accettare con amore. Non lo diceva per vantarsi, ma in condivisione, e io le davo perfettamente ragione. Non so se conosci gli scritti di don Divo Barsotti, il quale insiste spesso che il momento di vicinanza più intima a Cristo è quello della sofferenza, non quello del bene che si fa (e che – potendo – ovviamente bisogna fare!).

Quindi sono io a chiederti: aiutaci. Con la tua pazienza e le tue impazienze, con i tuoi desideri inappagati, con il tuo rammarico di non poter fare, con la vivacità per cui ti interessi di tante cose e persone, ti appassioni, interroghi, tessi rapporti…

Non solo sulla croce, anche in altri momenti Gesù ha fatto capire di sentire la sproporzione fra ciò che poteva fare e ciò che lo circondava: “ebbe compassione delle folle” e chiese aiuto, l’aiuto della preghiera al “padrone della messe”, e l’aiuto degli amici che ha chiamato e che ha mandato. Ma ha, o hanno, messo a posto tutto? No. La storia continua uguale: si sente compassione della folla, ci si muove per quanto si può, e poi si intuisce che ti aspetta la croce e che proprio quella in qualche modo, purificherà l’amore e renderà autentico il servizio.

Mons Van Tuang, arcivescovo di Saigon, imprigionato per il tradimento di un suo prete, e tenuto 16 anni in carcere senza processo, ha salvato la sua salute fisica e mentale dicendo a sè stesso: non perderò tempo ed energie a pensare se e quando potrò uscire; mi impegnerò ad amare coloro che ho vicino. Cioè chi? I carcerieri, visto che non c’è altro… E cercando di farlo, ha amato il mondo intero. E’ morto qualche anno fa, ma anche ora, con le riflessioni che ha lasciato, particolarmente efficaci proprio perchè zampillano da un’esperienza così ingiusta, dolorosa e inutile, aiuta il mondo intero

Un abbraccio grande
p. Franco

3 febbraio 2019
Carissimo Franco,
ricordi il film ALIEN (è dei tuoi tempi, ambientato nello spazio) quando ad un certo punto, ad un malato disteso sul letto, schizzava fuori dalla pancia un mostro tipo polipo? Ecco, così mi sembra sia successo a quanto ti voglio dire: è schizzato fuori.

Spesso ti ho parlato di un mio carissimo amico salesiano che ora è a Chisnau, in Moldavia, come missionario. Prevengo la tua risposta e affermo che siamo tutti missionari e tutto il modo è terra di missione. Ogni luogo ha le sue difficoltà, ma lì è come essere nel deserto: finché eroghi servizi -doposcuola, pomeriggi estivi, merenda…- hai l’oratorio pieno, ma poi, il nulla. Conosco don Tiziano dal 1986 quando arrivò prete novello al nostro oratorio. Pensa che è anche focolarino, ma di quelli doc che non danno sui nervi per il loro ostentato sorriso (d’altra parte, io ho una cognata focus doc!). E’ davvero una persona esplosiva e piena di positività. Condividiamo la passione per Mafalda e quindi io spesso gli racconto vignette di Quino. L’ultima presentava Felipe (amico di Mafalda, quello coi dentoni) che andando a scuola passava per il parco dove c’era la statua di un personaggio famoso. Sul piedistallo c’era scritto: “all’indomito eroe, per le sue preclare imprese”. Felipe lo guarda e pensa: “Così sono capaci tutti”. La bravura sta NELL’ESSERE STANCHI E CONTINUARE A COMBATTERE.

So che è frustrante darti tutto – senza risparmio – e non avere niente. Però mi chiedo quale sia il successo che ci aspettiamo. Sono la prima ad ammettere che mi piacerebbe che tanti venissero ad omaggiarmi (non a elogiarmi), mi sembrerebbe così di avere la garanzia di vivere una solitudine meno anonima. Ma anonima a chi? Quando ero in clan ci domandavamo spesso che differenza ci fosse fra noi e il CAI (club alpino italiano). Entrambi camminiamo in montagna con lo zaino, dormiamo in tenda, mangiamo sul fuoco o buste knorr… e anche tu in fondo cosa fai di diverso da un ragioniere o da un infermiere o da uno psicologo? Sono convinta che la spinta propulsiva sia la differenza. Nel salmo si dice che invano si costruisce la città se non lo fa il Signore. Allora credo non sia tanto spaventoso essere una trottola impazzita, ma impazzire e basta. So che non è facile tararsi continuamente per far rimanere al centro Gesù. Riconosco che io sono molto più fortunata di te, perchè i miei limiti mi mettono sempre al tappeto. Non sono così virtuosa da rinunciare a priori alle scelte più facili, sono loro che decidono per me. Lo so che tu mi capisci se ti dico che Dio sapeva quanto fossi debole e nella mia grande debolezza mi ha resa invincibile, ma non perchè io ne abbia le forze. Le mie forze umane si esaurirebbero in un paio di ore, e il resto del giorno? Io possiedo la testa di una libellula, ma in un fisico da bradipo.
Maria

28 febbraio 2019
Carissima,
Allora, d’accordo: i tuoi amici missionari e io cercheremo di essere le tue mani e i tuoi piedi che non puoi usare come vorresti; tu cercherai di essere il nostro cuore, sempre sollecitato ad amare, anche la gente con cui noi siamo e lavoriamo, ma spesso irritato, deluso, incapace di capire e di accogliere. Quanto al cervello, ognuno usi il suo meglio che può, magari facendosi aiutare da Felipe e da Mafalda.
E Alien? Per i film io sono schizzinosissimo, è raro che mi organizzi per guardarne uno, e il più delle volte me ne vado dopo i primi 10 minuti. Alien non l’ho visto e non lo vedrò… ma ci capiamo lo stesso.
Un abbraccio grande
p. Franco

Inutilità – 1

29 gennaio 2019

Carissimo Franco,
ho potuto guardare in tivù diversi momenti della GMG a Panama. Ieri ho seguito parte della conferenza stampa del papa con i giornalisti, sul volo di ritorno. Una delle domande era sul perchè i giovani, ma in generale molte persone, sono lontane e indifferenti alla chiesa. Mancano i testimoni, ha detto il papa. Non gli eroi, ma chi vive quello che pensa e dice. Io aggiungo che spesso non mi chiedono cosa ne penso, ma solo se continuo a vivere come dicevo e come dico. Ti confesso che è davvero tanto difficile. Sai, per grazia di Dio conosco diverse persone impegnate a dimostrare con la vita la loro fede, ma io no. Io sono dentro queste mura e confido che le mani di chi opera nel mondo siano anche le mie. Dopo i fatidici tre anni tornerà a casa un mio amico missionario comboniano che fa il medico in Sud Sudan. Gli dico sempre che deve farlo anche a nome mio, perchè lì non ho potuto arrivarci. Perciò ti ripeto quanto anche tu sia prezioso. Mi vergogno quasi a dirti che sono con te, perchè io in fondo sto nella mia casa riscaldata con la luce, l’acqua corrente, il cibo sicuro… Scusami lo sfogo, ma mi sento così inutile e mi pare di non avere proprio una vita tanto semplice.
Maria

Aveva circa vent’anni Maria, frequentava l’università con buoni risultati, era appassionata di scoutismo, vivace e comunicativa. Pensava di andare in missione e dedicarsi a chi soffre. Poi… dopo una lunga giornata di mal di testa insopportabile piomba nel buio. Due mesi di incoscienza da cui riemerge per una vita assolutamente nuova ed impensata, con le capacità intellettive intatte, ma paralizzata, incapace anche di inghiottire. Cure interminabili e complesse la conducono a una condizione in cui parla, ma con una certa fatica, può lentamente scrivere al computer, si nutre con un sondino. Il cervello pieno di idee, domande, sogni, il cuore pieno di affetti e sofferenza, un caparbio aggrapparsi alla fede, anche se arida, la tenacia di ricominciare ogni giorno l’indispensabile “prendersi cura di sè” ma anche il comunicare con il mondo, riflettere, tenere aperto un dialogo con Dio senza “devozionismi” e smancerie, a volte conflittuale, mentre cerca di trovare il Vangelo nella sua esistenza, che rimane chiusa fra quattro mura, eppure ostinatamente aperta al mondo che la appassiona, indigna, la scandalizza e la fa fremere per ciò che vorrebbe dire e fare in mezzo a tante stupidità e a ottusi egoismi.

E’ per “colpa” sua, che continuo a scrivere queste “schegge di Bengala”. Qualche anno fa, demotivato e stanco di dibattermi fra troppi impegni, avevo deciso di smettere. Stavo scrivendo l’ultima scheggia, di congedo, quando mi arrivò una sua lettera. Non ci conoscevamo, nè mai avevo sentito parlare di lei. Mi raccontò qualche cosa di sè, mi disse di aver letto vari miei articoli con cui si trovava in sintonia, che le piacevano. Decisi che valeva la pena di continuare: se non per altri, per lei.

Ora le ho chiesto il permesso di far diventare “scheggia” quanto lei mi ha scritto due mesi fa, la mia risposta, la sua replica. Ha accettato volentieri; la ringrazio, anche a nome di chi ci legge.

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Dhaka, 30 gennaio 2019

Carissima Maria,
credo di intuire la tua frustrazione, il “sentirti inutile” perchè – davanti a tante cose che senti giuste e che vorresti fare – ti trovi impotente e “reclusa”.
Per chi, come me, è chiamato a tante attività, e ha tanti rapporti, questa sensazione è meno evidente e frequente, ma ogni tanto affiora – anche con forza: “tutto questo correre, fare, parlare, animare… dove arriva? a che serve?” Si dice che è una goccia in un oceano. E’ meno ancora; ne vale la pena? Non sono forse una trottola impazzita che gira vorticosamente… su sè stessa?

La risposta che trovo non è che la “goccia” tutto sommato è abbastanza grossa (!), o che la trottola – gira gira – arriverà da qualche parte, ma che dobbiamo accettare la nostra condizione di povertà e piccolezza, essere ciò che siamo stati chiamati ad essere e fare ciò che possiamo fare senza far conti e pretendere risultati, ma affidando tutto all’amore di Dio. Ciò che davvero ci sta a cuore (amore, pace, rispetto, fraternità…) non è misurabile, e nemmeno si trasmette su vie chiare e precise come i treni sulle rotaie o le onde radio, ciascuna sulla sua lunghezza. Sono microscopici frammenti di infinito il cui valore sta non nell’essere un po’ meno microscopici, ma nell’essere davvero frammenti di INFINITO, di Dio, di AMORE. Ecco perchè s. Teresa (se non sbaglio) dice che un atto d’amore vale più di tutto, e Paolo dice che qualunque cosa uno faccia, anche la più eroica, vale nulla senza amore. Papa Benedetto ha scritto che la beatitudine di “coloro che piangono” si riferisce a chi piange per i mali del mondo e per non poterli eliminare, ridurre, abolire; è beato perchè piange il pianto di Cristo; è unito a lui che ha percorso instancabilmente tanti villaggi per portare l’annuncio del Regno ed è finito in croce – la tortura più significativa dell’inutilità, quando Gesù è assolutamente impedito di fare qualsiasi cosa perchè tutto ciò che ha fatto è da buttare, e quindi si inchioda e poi si butta via anche Lui. Finisce in croce grazie al tradimento di un discepolo. Si può immaginare un fallimento più grande?

La croce, momento della massima inutilità di Dio.

Non so se circola ancora nelle parrocchie una preghiera diffusa anni fa, che dice che Cristo non ha più mani, ha le tue. Tu dirai che le tue non le ha, perchè non le puoi usare per svolgere le attività che sarebbero di Gesù. Forse la risposta è che le tue sono così unite alle sue che sono insieme, crocifisse, inutili dell’inutilità di Cristo stesso.

Che però ha mosso e muove milioni di persone, perchè sulla croce ama. Quando tu ti dispiaci della tua inattività, lo fai perche ami il bene, le persone povere, sofferenti, ignoranti, e vorresti aiutarle. Nella fede, e sulla pista che Gesù ci ha tracciato, noi diciamo che questo è un “frammento di infinito” del massimo valore, senza il quale tutto il resto non vale, e che invece vale anche se non c’è null’altro.

Qualche piccolo, piccolissimo segno che questo mistero di fede non è assurdo, ci viene donato.
(continua)

p. Franco