Tripura

Non saprei trovare il suo villaggio di origine; Michael è un Tripura, popolazione aborigena che vive sparsa sulle colline sud orientali del Bangladesh e oltre il confine con l’India, nello stato indiano che prende il nome da loro, il “Tripura State”. Terzo di 6 fratelli e sorelle, era entrato in seminario dai religiosi della Santa Croce, uscendone dopo il liceo ma ben deciso a continuare gli studi. Con quali risorse? Lavoretti, qualche aiuto sporadico, molti sacrifici; stava arrancando per frequentare l’università quando qualcuno ha “fatto la spia” segnalandogli il nome di p. Franco che “aiuta molto gli studenti”. P. Franco, fatte le indagini del caso, gli ha trovato una piccola borsa di studio sperando di liberarsi così dall’assedio. Si illudeva. Michael continuava a chiedere e io continuavo ad arrabbiarmi con lui, cercando di capire che cosa stesse combinando. Tentavo, come faccio con tutti, di “agganciarlo” perchè si aprisse a condividere la sofferenza che era evidente nel suo volto teso e nei suoi occhi smarriti. Ascoltava le mie domande, i miei consigli, le mie sfuriate che cercavano di scuoterlo, restando semplicemente zitto. Non capivo il perchè: alcool? droga? ricatti? O era un po’ stupido? Scoprii che si era messo in testa di far studiare anche le due sorelle e il fratello minori. Fu il carissimo amico Annibale Salvi a persuadermi: “Non lasciarlo, un ragazzo così nella bolgia di Dhaka si perde per davvero, se rimane solo”. Non lo “scaricai”, ma dopo quattro anni di aiuti, incontri, tentativi di colloqui, era ancora una sfinge.

L’altro giorno è arrivato sorridendo, mi ha salutato con calore e subito mi ha detto che “Trisha (la prima delle due sorelle minori} aveva passato l’esame Intermediate, e Trisna (la più piccola) era promossa al secondo anno”. Momento magico: il muro è crollato, e Michael mi ha detto tante cose che per anni si era tenuto dentro. Del papà che beve e picchia la mamma, della sorella maggiore disabile, sposata e poi abbandonata con due figli, della mamma che lavora a giornata e non ce la fa più, della sua solitudine in università. “Noi Tripura siamo quasi tutti cristiani. All’inizio forse le conversioni erano motivate anche dalla prospettiva di avere aiuti, ma ora gli aiuti sono pochi eppure nessuno parla di tornare indietro. Ma la generazione di mio padre è una generazione perduta, annegata nell’alcool. Avevamo terre, mio padre le ha vendute tutte per quattro soldi che ha sprecato in pochi giorni. Il mese scorso, al consiglio di villaggio qualcuno ha proposto di proibire l’alcool, ma è stato pesantemente minacciato dal grosso gruppo dei bevitori. Ci stiamo vendendo ai Bengalesi. Altri gruppi aborigeni – i Mandi ad esempio, o i Marma – sono più compatti, più solidali e attenti alla loro cultura. Per questo riescono a usufruire delle poche facilitazioni offerte dal governo agli aborigeni, hanno alcuni in posizioni significative nella società; noi restiamo con le briciole. E’ un’angoscia, che vivo pure in università. Ora abbiamo formato un gruppo di studenti che vorrebbe “rifondare” il nostro modo di essere Tripura, immersi nel mondo moderno. Abbiamo anche lavorato a scoprire e recuperare ragazzi e ragazze che alcuni musulmani avevano ricevuto in affido da famiglie poverissime, con la promessa di farli studiare. Li avevano messi in varie madrasse, cancellando ogni loro identità tripura, facendoli musulmani all’insaputa dei genitori, insegnando l’arabo… erano irriconoscibili”. Ora abbiamo paura che saranno i Rohingya a dare il colpo di grazia. Padre, capisci perchè ti ho perseguitato per portare qui le mie sorelle, e mio fratello?”
Ci siamo abbracciati.

Competizione

Si chiama “Shopna”, cioè “sogno”: giovane, carina e sfortunata. Attacca bottoni, a mano, in una fabbrica di abiti, guadagnando ogni mese i 52 euro con cui deve mandare avanti la baracca; baracca in senso proprio, visto che non si può dare altro nome al luogo dove abita, e in senso figurato, visto che vive con genitori, suocera, due figli piccoli, e deve mantenere tutti. Il marito, oberato da debiti e spaventato dai creditori, è scappato tre anni fa senza lasciar traccia. Questa volta “Sogno” viene da me afflitta perchè la figlia, che frequenta la prima elementare “ha avuto un brutto risultato”. “Bocciata?” chiedo. “No, però la maestra dice che devo mandarla a lezioni private, e io non posso…” Piange. Insisto per saperne di più e finalmente spiega che nella sua classe è soltanto sedicesima – su trentadue. I miei tentativi di consolarla minimizzando la gravità della faccenda non hanno successo… Si sente sventurata e scoraggiata. La scuola in Bangladesh vive di competizione, i genitori ne sono ossessionati, gli insegnanti ci guadagnano, i figli sono oppressi, nevrotizzati, resi antipatici dallo stupido orgoglio di chi ottiene un punto in più del vicino di banco e dall’invidia di chi è “solo” secondo. Cosa insolita per me, ho persino “tuonato dal pulpito” contro questa mentalità devastante. “Gesù non dice ‘Beati quelli che arrivano primi’. Che i vostri figli facciano il loro dovere, che vengano promossi, e lasciate perdere se sono primi, secondi o decimi” Tutto inutile, naturalmente. L’ansia del primo posto e la sottile inimicizia con chi compete non si placano. Quest’anno, in tutto il Bangladesh, un numero insolitamente alto di studenti sono stati bocciati all’esame di maturità, e il numero dei suicidi o tentati suicidi è impressionante; insieme a questi, anche casi di giovani che erano stati promossi, ma non con il punteggio desiderato. Dai quattro, cinque anni di età i bambini si affannano da una ripetizione all’altra. Costretti negli spazi ridottissimi degli appartamenti di Dhaka, senza giochi e senza spensieratezza, passano dalla sedia dove si studia in casa a quella accanto a chi dà “ripetizioni”, a quella davanti alla TV (breve premio concesso a chi ha studiato assiduamente). A rendere il quadro più desolante, si aggiunga che il tutto è puro esercizio di memoria, e che il vero problema non è imparare, ma prevedere le possibili domande per memorizzare le risposte. Bisogna pagare le ripetizioni, e bisogna sapere che i testi scolastici distribuiti gratuitamente (quasi) dallo stato non bastano: bisogna assolutamente comprare i “bigini” di appoggio, con le sintesi da memorizzare, e istupidirsi su quelli. Le poche scuole che fanno diversamente sono scuole “di prestigio” che certo un povero non può permettersi. – Le scuole cattoliche o di varie denominazioni cristiane? Sono anch’esse afflitte da questa frenesia competitiva; ma di solito si preoccupano che gli insegnanti insegnino, e molte offrono ripetizioni gratuite; per questo vengono apprezzate.

Antonietta e Martin

“Pronto, sono Martin. Ti ricordi di me?” “Sì, certo che ti ricordo. Come stai?” “Ho avuto un po’ di malanni nelle scorse settimane, ma ora sto meglio. D’altra parte, tu sai come sono conciato… Insomma, è così e va bene così. Ascolta: da tanto non ci vediamo, continuo il mio lavoro di contabile al Centro Assistenza Ammalati, e ho avviato una piccola scuola per chi vuole imparare ad usare il computer. Gli amici non mi mancano, con i soldi me la cavo… Ora però devo dirti una cosa importante, la vuoi sentire?” “Sì, certo. Dimmi”. “Antonietta, mi vuoi sposare?” – “Sì”.

Ovviamente non ho stenografato nè registrato esattamente le parole che si sono scambiati Antonietta e Martin, entrambi di etnia Santal, da ragazzi compagni di giochi al villaggio. Però è certo che, subito dopo la conversazione, Antonietta ha parlato con la mamma e con il fratello maggiore (il papà non c’è più), richiamando poi per confermare il suo consenso. E io, il 10 luglio, ho avuto la gioia di benedire il loro matrimonio, celebrato a Rajshahi nella cappella di Snehonir. E’ la “Casa della tenerezza”, dove vive la comunità di disabili in cui Martin e’ stato accolto e che lo ha accompagnato a terminare il college, imparare l’uso del computer, dell’harmonium, della tobla, affrontare momenti difficilissimi, avere fiducia in se stesso, farsi tanti amici. Poi ha “preso il largo” organizzando la sua vita in autonomia, pur continuando a considerare “Snehonir” come la sua famiglia e a partecipare ai momenti importanti della sua vita e alle sue iniziative.

Martin, che ha 35 anni, era un ragazzo sano e pieno di energie quando – giocando al pallone – ebbe una brutta caduta seguita da dolori che si aggravavano giorno per giorno. Operato più volte, ha le gambe orribilmente contorte e paralizzate, e a causa della spina dorsale offesa, non può neppure sedersi. Vive sdraiato su una barella che ha le ruote, su cui lo portano al posto di lavoro, alle attività che lui stesso organizza o a cui lo invitano, esercitando la sua “leadership” naturale nonostante la grave invalidità. Non so molto di Antonietta, ma mi ha dato l’impressione di essere una donna semplice, di grande maturità, e di avere acconsentito con una gioia pacata, profonda e solida. Forse l’invito di Martin ha risvegliato un amore rimasto inespresso per tanti anni?

La loro decisione ha suscitato in tutti stupore, in alcuni scandalo, persino rabbia; papà e mamma di Martin, che vivevano con lui, se ne sono andati e nel giorno delle nozze erano assenti. Diverse persone mi hanno invitato a persuadere Martin a non sposarsi, dando per scontato che pure io considerassi assurdo quel matrimonio. Ma dialogando con pazienza, ho visto che molti progressivamente hanno dato spazio ad una riflessione salutare e positiva; hanno incominciato a guardare a questa insolita coppia come ad un uomo e una donna che si sentono creati l’uno per l’altra, più che ad un “handicappato” e una “normale”. Un prete mi ha detto: “Mi hanno aperto gli occhi, e capisco che una persona disabile ha diritto non solo alla carrozzella e alla compassione, ma alla mia attenzione umana e pastorale, e anche il diritto di esprimere in pieno i suoi doni e le sue capacità”.

I ragazzi e le ragazze di Snehonir, nel giorno del loro “sì”, erano raggianti. Anche i piccoli, non ancora in grado di fare una riflessione precisa su ciò che vedevano, percepivano che qualcosa di bello e di importante stava accadendo.

Antonietta, Martin, tanti auguri. Il Signore vi benedica!