Risveglio

“Hajan” si chiama il richiamo alla preghiera che cinque volte al giorno viene lanciato dal minareto di ogni moschea, in orario rigidamente fissato giorno per giorno, regolato secondo il sorgere e il tramonto del sole. Le parole sono sempre uguali. Soltanto nel primo richiamo della giornata, quando ancora è buio, si canta un’aggiunta che incoraggia a scuotersi e alzarsi: “La preghiera è meglio del sonno”. Ci sono “muezzin” (annunciatori della preghiera) che cantano bene, altri ovviamente non sono così bravi, o sono decisamente stonati. Però il “problema” non è questo, è piuttosto quando tante moschee vicine lanciano il richiamo allo stesso tempo da altoparlanti ad altissimo volume, provocando una cacofonia incomprensibile che disturba.

Tuttavia, pian piano mi sono abituato a non badare al disturbo, e ad accogliere questo canto come la proclamazione di un aspetto della condizione umana: milioni di persone, donne e uomini, si svegliano per ricominciare una giornata, e il risveglio è accompagnato da un richiamo a non fermarsi all’orizzonte di un quotidiano ben noto, forse monotono, forse doloroso e chiuso, forse sereno e tranquillo – ma comunque ristretto e insufficiente. Il primo pensiero della giornata va a Dio onnipotente, grande, misericordioso e compassionevole, che “sovrasta” ogni realtà creata e a cui ogni essere umano – volente o nolente – è sottomesso. Il richiamo invita a entrare nella giornata non con occhi miopi, ma consapevoli che non siamo i padroni del mondo, e neppure di noi stessi; siamo invitati ad accogliere un’obbedienza a cui comunque non sfuggiamo anche se la ignoriamo o tentiamo di rifiutarla.

Mentre in decine di migliaia di moschee grandi e piccole si accende la luce, e i più fedeli si radunano purificandosi mani e piedi prima di entrare, faccio la doccia e prendo il caffè, poi scendo nella nostra cappella.

Qualche volta è vuota. Allora gusto il piccolo piacere infantile di essere il primo, con una Presenza che è “tutta per me”. È facile ricordare che Gesù raccomanda di pregare “chiudendo la porta” per incontrare nella propria intimità il Padre “che sta nel segreto”. Tutta la grandezza del Creatore proclamata dai muezzin si esprime in qualche modo in quella “stanza” che è la mia esistenza. È lì che incontro l’universo intero. È lì che mi raccolgo rappacificandomi con me stesso e con i miei turbamenti.

Altre volte, due o tre paia di sandali sulla porta della cappella m’informano che qualcuno mi ha preceduto, e questo mi apre ad un’altra dimensione. Anche se solo più tardi questo si esprimerà in una liturgia comune, siamo insieme alla ricerca dell’invisibile che nel mistero dell’Uomo Gesù si esprime in parole, gesti, comportamenti che ce lo rivelano. Il Pane che è dato come vita per tutti ci fa uno in Cristo. Siamo insieme a chiedergli di insegnarci a pregare, non ripetendo tante parole, ma lasciandoci avvolgere dall’amore che fa esistere. È la comunione dei discepoli di Gesù; in tante famiglie, tanti conventi, tante chiese. Di Gesù, perciò per tutti: una comunione che non si chiude su se stessa, ma è comunione già nel fatto stesso di essere umani, e nella ricerca anche con gli uomini nelle moschee e con le loro donne che pregano nelle case, con le cantilene dei monasteri buddisti, con la solitudine di chi non ha nessuno a cui pensa di potersi rivolgere.

Inizia un’altra giornata, “completamente nuova, che nessuno mai ha vissuto finora” diceva p. Davide Maria Turoldo, contento di vivere quella giornata nuova mentre si preparava ad accogliere la morte.

Nebbia

Questa scheggia è un intervallo: una pausa nel racconto del mio storico viaggio con p. Gian Paolo, che riprenderà fra non molto.

Voglio accennare ad alcuni episodi accaduti nel mese di marzo, che i giornali di lingua inglese hanno più volte descritto come “mayhem” (secondo il dizionario: “confusione e paura normalmente causate da comportamenti violenti, o da improvvisi avvenimenti sconvolgenti”). Ma scrivo come quando si viaggia nella nebbia, e faticosamente si individua la strada, ma non si capisce esattamente dove si è. Qui da noi non ci sono cartelli che informino sui nomi dei bazar o dei villaggi che si attraversano; se c’è nebbia, si procede sperando di aver indovinato… Dunque, niente nomi, luoghi, date.

Perché? Ci sono ben tre ragioni. Simili, ma distinte.

Ragione numero uno. Sembra che da qualche tempo sia in aumento il numero di persone malintenzionate, soprattutto giornalisti, insegnanti, persone che si dice abbiano una certa autorità morale, che approfittano della loro professione o posizione per calunniare, dare notizie piene di pregiudizi, distorcere la realtà, sviare persone semplici e persino – quel che è peggio – infangare il buon nome del paese in cui vivono e le sue autorità politiche. Un’apposita legge approvata di recente considera questi casi, e le autorità sono attente a farla osservare, naturalmente nel rispetto dei diritti di ciascuno: arrestato il colpevole, prendono tutto il tempo necessario per capire e descrivere bene perché proprio lui sia stato arrestato, quali siano i comportamenti illegali che ha avuto, quali i danni che potrebbe provocare se rilasciato. Anche per questo è impensabile concedere la libertà provvisoria, e se i tempi della detenzione senza denuncia, e senza decisione di un tribunale, vanno oltre quelli stabiliti dalla legge, qualunque persona di buona volontà, e onesta, capirà che questo è un dettaglio trascurabile, se messo in rapporto alla necessità di impedire la diffusione di menzogne, per di più “politicamente motivate”. A volte le persone coinvolte vogliono far credere di non capire queste ragioni, peraltro evidenti, per cui con la necessaria fermezza vanno calmate, e persuase che devono attendere e che non è il caso di badare a sottigliezze come otto o dieci mesi in più o in meno, quando la posta in gioco è tanto importante. A volte poi, risulta che le persone accusate erano state male consigliate o volontariamente male informate, e allora bisogna intervenire, cercando e arrestando anche coloro che le hanno spinte a commettere i reati di cui sono accusate, e perciò a mettere in circolazione falsità di ogni tipo. Insomma, voglio stare attento a non commettere – magari inavvertitamente – i loro stessi errori: scrivere qualche cosa che possa essere inteso male…

Ragione numero due. Altre volte (e di questo ho già scritto) persone preoccupate della morale della loro comunità, e della Verità, sotto il nome di una persona che non la pensa come loro mettono su Facebook idee erronee, offensive, malvage, irreligiose, blasfeme, ingiuriose e poi lo fanno sapere in giro, suscitando la giusta indignazione dei benpensanti. La notizia si propaga rapidamente, diffusa da potenti altoparlanti dall’alto di quelli che noi chiameremmo campanili, che denunciano i pericoli che corrono coloro che credono a queste menzogne, i danni per la loro fede, e chiedono con fermezza che il tizio in questione venga arrestato. Infatti, anche se non ha scritto il testo e forse neppure sa che si trova sotto suo nome su Facebook, certamente la pensa così; inoltre il tale è diventato un problema per l’ordine pubblico perché a questo punto molte centinaia o migliaia di persone, radunatesi per manifestare il loro disappunto, rumorosamente esigono che il colpevole o i colpevoli vengano immediatamente puniti. La pena di morte è il minimo, vista la mostruosità del reato; la persona titolare di Facebook dunque va immediatamente arrestata per il bene pubblico. Poi deve capire che – se volesse dimostrare che proprio non c’entra, occorre tempo. Un tempo che – per la sua sicurezza – è meglio che trascorra in prigione. Nel frattempo, i difensori della religione e della verità esprimeranno la loro indignazione assalendo la sua famiglia, bruciando la sua casa, devastando le proprietà di decine di famiglie che appartengono alla sua stessa religione. Premurandosi però (bisogna dirlo a onor del vero) di non procedere a distruzioni e incendi in maniera insensata: la prova che agiscono pacatamente, disinteressatamente e a fin di bene sta nel fatto che – pur nella fatica e nella concitazione, e persino nel rischio che corrono – non dimenticano di sottrarre alle fiamme denaro e oggetti di valore che rischierebbero di rovinarsi. La profanazione poi di qualche tempio è come un’invincibile pulsione che manifesta la profondità spirituale di queste persone, disgustate da questi edifici pieni di statue, che alimentano concezioni false, e idolatrie di ogni tipo.

Ragione numero tre. Può succedere che avvengano cose pubbliche, permesse o addirittura incoraggiate dalle autorità, che sono insopportabili. Per esempio, celebrare il giubileo (50 anni) dell’indipendenza del Bangladesh, evento riprovevole perché ha spezzato l’unità di un paese che era nato in nome della religione, o il centenario della nascita del “padre della Patria”, che ha fomentato e guidato il deprecabile processo di divisione. Lui, quelli che lo seguirono, e quelli che oggi inneggiano a lui si dicono religiosi e praticanti, ma nei fatti mostrano di non rispettare e di non far rispettare gli elementi fondamentali della religione. Non ne seguono scrupolosamente le direttive, ne dimenticano gli obiettivi, avvelenati da interessi inconfessabili o sviati da teorie diaboliche come il secolarismo o addirittura l’ateismo. Bisogna correggerli assalendo con energia i loro uffici, le sedi dei loro partiti, le case delle loro famiglie, i simboli dell’indipendenza, i segni di un modo di pensare e di governare inaccettabili, e trattando come merita la polizia che cerca di fermare questi interventi correttivi.

Interventi di chiara matrice religiosa e di patriottismo autentico, che vengono effettuati da centinaia di migliaia di persone per lo più giovani, educate in scuole serie, finanziate da paesi esteri amici, che sanno dare la dovuta importanza alla tradizione e alla religione, che non hanno paura di menar le mani quando necessario, che non hanno interessi politici: basta che il governo faccia quello che dicono loro, ritirando leggi che non gradiscono e inserendo norme che loro sanno essere giuste, e obbediranno pacificamente e lealmente.

Queste persone, disponibili e coraggiose, fanno parte di una organizzazione che ha un nome ma, come ho spiegato sopra, nella nebbia non sono riuscito a leggerlo; e come me anche altri. Si erano già fatte sentire negli anni passati, occasionalmente, in modo energico. Avevano provocato vari “mayhem”, fra cui uno aveva messo a ferro e a fuoco tutto il centro di Dhaka. La politica, dopo le prime reazioni, aveva deciso di calmarle accogliendo parecchie loro richieste: le loro scuole furono riconosciute, i libri di testo vennero corretti secondo le loro direttive, le leggi sul matrimonio dei minori vennero ritoccate abbassando – “in casi speciali”- l’età minima della sposa, le proposte di legge sulla parità delle donne vennero archiviate… Ci fu un periodo di ottimi rapporti, di sorridente intesa. Purtroppo però, l’intesa sembra ora in pericolo. Il mondo politico è preoccupato, ma capisce che è meglio non fare nomi, non insistere nel dare la colpa a qualcuno, a rischio di calunniare: loro picchiano ma sono amanti della pace, esigono ma sono nella giustizia. E poi – diciamocelo chiaro – se qualcuno volesse lo scontro frontale, non è affatto garantito che loro sarebbero i perdenti. Dunque un po’ di prudenza non guasta.

Insomma, ci risiamo. Spero comunque di non essere frainteso: nessuno pensi che io sto pensando a lui o a lei o a loro. Si tratta certamente di altri, dispersi nella nebbia…

Non è chiaro che cosa io voglia dire in questa insolita scheggia? Bene, benissimo, è proprio ciò che desideravo.

Viaggio – 6

Il PUNTO. Se qualcuno ha perso il filo, niente paura: p. Gian Paolo e io, al secondo giorno di viaggio, stiamo percorrendo la lunga circonvallazione est della città di Bogra, tortuosa e malconcia, ma meno affollata della circonvallazione ovest, più breve, più vecchia, e ormai quasi inghiottita dall’urbanizzazione.

Nel lasciare la città, è d’obbligo una tappa per rifornirsi di CNG (Compressed Natural Gas), perché la distribuzione del gas non raggiunge le aree più a nord. Poi, lungo la strada diretta a Rangpur, a tratti orribile causa lavori in corso, attraversiamo Mohasthan, un grosso bazar affiancato da un collinetta decisamente improbabile, visto che per centinaia di chilometri intorno tutto è pianura. Sulla collina c’è un centro di pellegrinaggi che ha l’aria di essere molto frequentato; ritengo sia di musulmani sufi, ma non lo so con certezza. Ho visto fotografie e letto informazioni su analoghe collinette in Bangladesh: erano centri monastici, abbandonati quando il buddismo è quasi scomparso dal Bengala; in questi ultimi anni ne hanno scoperti alcuni e gli archeologi se ne stanno interessando. A proposito di Mohasthan, molti anni fa un anziano maestro cristiano mi disse che sulla collina c’era un pozzo miracoloso: se un defunto veniva calato nel pozzo, ritornava in vita. Così facevano i primi monaci, così continuarono a fare gli hindu che subentrarono. “E ora, con i musulmani?” chiesi io. Non sapeva, ma secondo lui e altri, anche loro usavano il pozzo allo stesso modo, senza dirlo in giro…Voci di popolo…

Arriviamo poi a Gobindogonj, affollato bazar, che pare essere centro di un’area turbolenta, teatro di soprusi e occupazioni di terre di gruppi aborigeni in parte cristiani, e anche di conflitti politico-economici, con numerosi omicidi.

Noi tiriamo dritto, mentre per andare a Dinajpur dovremmo piegare a sinistra, e passare accanto alla missione di Mariampur, una delle più grandi nella diocesi. Per me è legata al ricordo di un caro amico, p. Carlo Menapace. Ricordarlo è sempre un piacere, direi un incoraggiamento, anche se venato di nostalgia. Era nato nel 1942, un anno prima di me, a Tassullo (Trento), e mi aveva preceduto di un anno nel diventare membro del PIME (1967), nell’essere ordinato prete (1968), nel partire per il Bangladesh (1978). Mariampur è stata la sua prima e unica missione, all’inizio come assistente, e poi come parroco. Negli anni in cui cercavamo “vie nuove” e guardavamo con sospetto la “struttura” della parrocchia, sospettata di essere chiusa su se stessa e di sottrarre energie alla prima evangelizzazione, lui si era tuffato senza distrazioni proprio in quella “struttura”, ma fu capace di non lasciarsene paralizzare. Anzi…

Ci vedevamo in occasione di incontri o ritiri spirituali del PIME, arricchendo di chiacchierate tutti gli spazi di tempo possibili. Sapeva cogliere nella gente gli aspetti buoni e positivi che molti non vedono o cui non danno valore. “Ingenuità”, diceva qualcuno, ma si trattava dello sguardo di un uomo dal cuore puro, appassionato del Vangelo, e perciò degli altri… tutti.

Andai a trovarlo in parrocchia in un periodo in cui era solo, penso poco dopo il 1981. La prima sera, a cena, ero affamato, e gustai moltissimo una rarità: una minestra di verdure varie, proprio buona. Ero stupito: “Sei tu che gli hai insegnato a cucinare?” “No – rispose – una suora. Lui ha imparato bene, gli ho detto che mi piaceva molto, e ormai sono più di due anni che ogni sera mangio questa minestra, sempre rigorosamente identica. È un menu un po’ monotono – aggiunse ridendo – ma il cuoco ne è fierissimo, come deluderlo?” Trascorsi con lui tre giorni, aiutandolo a tenere un incontro con i catechisti, ascoltandolo molto. Era appassionato di ciò che faceva, soprattutto del “suo” popolo, che erano i membri della parrocchia, certo, ma non soltanto loro. Mentre passeggiavamo fra la casa e la chiesa (costruita anni prima, sul modello di non ricordo quale chiesa lombarda) passò accanto a noi un ragazzo; Carlo lo chiamò, e scambiammo quattro parole; era un po’ imbarazzato ma contento della nostra attenzione. Mentre se ne andava, p. Carlo mi chiese: “Secondo te, quanti anni ha?”. “Difficile dirlo – risposi – 12 o 13?”. “Ne ha certamente più di 20, ma è come un… bonsai: la denutrizione gli ha impedito di svilupparsi. Sono parecchi i giovani nelle sue condizioni. Che lavoro può fare? Certo non il manovale, ma a scuola non è potuto andare, e anche lo sviluppo dell’intelligenza è stato rallentato. Vorrei inventare qualche cosa per questi “figli della fame”… Ancora oggi, a Mariampur, c’è una piccola scuola tecnica, che dopo qualche anno di chiusura il Vescovo mons. Sebastian ha voluto riaprire. Insegna a ragazzi che non hanno altre possibilità i rudimenti di qualche attività utile: riparare una bicicletta o un riksciò, per i più bravi magari dare un’occhiata ad una pompa idraulica difettosa. P. Carlo aveva idee, era capace di organizzare e avviare iniziative: non fece grandi progetti, ma “piccole” cose che erano ritagliate apposta per i bisogni del momento; fra l’altro anche un impianto di biogas, forse il primo della zona.

Non è raro trovare persone di Marianpur che dicono con fierezza di essere stati suoi “discepoli” (e fra loro anche mons. Sebastian), o di aver sentito parlare di lui dai genitori, e io mi sono chiesto quale fosse il centro del suo interesse, e quale il motivo della sua popolarità. Il suo obiettivo fondamentale era accompagnare la sua gente alla preghiera, a un rapporto vivo con Gesù scoperto nei Vangeli. Anche a Mariampur, come in ogni altra missione, c’erano un ostello maschile e uno femminile. Di solito gli ostelli vengono affidati a un “boarding master” o a una “didi moni” (un laico o una laica responsabili) i quali devono organizzarli, farli studiare, tenere la disciplina, e anche “farli pregare”, vigilando perché tutti siano presenti alla Messa quotidiana, guidando le preghiere del mattino, della sera, ai pasti, attenti a far pronunciare bene le parole, sostenuti da una cantilena che aiuta la memoria. P. Carlo preparava personalmente questi momenti, e non li “faceva pregare”, ma pregava con loro. Ogni giorno una frase del Vangelo, una parola di commento, una breve preghiera ripetuta perché “entrasse” nella mente e nel cuore, o una ripresa della liturgia domenicale, o una riflessione su qualcosa che era accaduto. Era contento di pregare con loro: la preghiera non era un dovere, o qualcosa da insegnare, era un momento di incontro con Gesù insieme a loro. P. Carlo, senza ostentazione, sapeva trasmettere la fede con cui lui stesso cercava il Maestro. Vedeva e valorizzava i progressi anche minimi della sua gente: una riconciliazione, una collaborazione, un aiuto, un consiglio…

Stava anche preparando un sottocentro della vastissima parrocchia che era affidata a lui, per sistemarvi un gruppetto di laiche animate a dedicarsi all’evangelizzazione; già collaborava bene con le Suore di Maria Bambina, e vedeva in questa iniziativa una possibilità in più di valorizzare le donne nella missione della Chiesa.

Poi… gli diagnosticarono un tumore maligno, e dovette ritornare in Italia. Con fatica volle rivedere uno per uno tutti i “suoi villaggi”, spiegando perché se ne andava. Prima che partisse ci trovammo, e mi disse: “Tu sai che mons. Michael è un uomo spiccio, concreto, e non ha tanto l’aria “spirituale”… eppure proprio lui mi ha detto la cosa più semplice e più utile, che porto con me come un messaggio prezioso.” Michael Rozario era stato il primo vescovo bengalese della diocesi di Dinajpur, diventando poi arcivescovo a Dhaka. “Gli ho detto quale è la mia condizione. Ha taciuto un momento, poi mi ha stretto la mano dicendomi: “P. Carlo, tieni cara la fede che hai. Lotta con tutte le tue forze per vivere, e noi ti aiutiamo con la preghiera. Ma se la malattia prevale, affrontala da uomo e da credente, non lasciare che sconfigga il tuo spirito”.

Fu proprio così. Rividi P. Carlo in Italia, molto provato, ma sereno. Mi raccontò dell’angoscia delle sale di attesa dove diversi ammalati di tumore aspettano “risultati” spesso pesanti come il piombo; e mi parlò anche con ammirazione di un’infermiera che si impegnava a strappare un sorriso a chi era nelle condizioni peggiori. “La gente di Mariampur mi ricorda – aggiunse – e questa è una medicina potente. Tanti mi scrivono, così passo tanto tempo a leggere le lettere in bengalese, spesso con grafia incerta. Traduco e scrivo tutto qui, in questo quaderno che è solo per me. Leggo e rileggo, e ogni volta arriva un ricordo nuovo, nasce in me una preghiera nuova…” Strappò ai medici il permesso di ritornare per qualche settimana, e fu un pellegrinaggio di saluto, abbreviato dall’aggravarsi delle sue condizioni. Qualcuno gli scattò una fotografia che lo riprese di spalle, mentre pedalava faticosamente su un sentiero fangoso, tenendo sul portabagagli della bici una grossa croce di legno da consegnare alla gente in attesa della sua visita. Una fotografia che dice tanto, tantissimo della sua vita, e che circola ancora adesso fra noi. Morì poco dopo il suo ritorno in Italia, a Cles, nel 1991. Dopo tanto tempo, a Marianpur e in vari “sotto-centri”, ancora organizzano ogni anno una giornata di ricordo e preghiera per lui, animata da un torneo di calcio: il “Menapace Football Tournament”.

Pochi chilometri prima di raggiungere Rangpur, il centro urbano più grande del nord, chiedendo a destra e a sinistra riusciamo a imboccare una stradetta, a sinistra, che con qualche giravolta e molte informazioni raccolte da passanti, ci permette di arrivare a Khalisha verso la una, accolti dalle Suore dell’Immacolata (PIME) che hanno qui una comunità con tre suore bengalesi e due indiane. Accoglienza come sempre piena di cordialità, e pranzo arricchito da una conversazione interessante, che ci aggiorna reciprocamente di tanti avvenimenti grandi e piccoli. Poi, senza sentir ragioni, spediscono il vecchietto (che sarei io) a riposare, mentre p. Gian Paolo viene accompagnato a compiere il suo rapido ma intenso “pellegrinaggio” tra famiglie che conosce o che vuole conoscere. Khalisha, era un sottocentro di Boldipukur, dal quale si staccò quando p. Giovanni Vanzetti – che si era sempre dedicato alla popolazione Orao – si stabilì là e ne fece nascere una nuova parrocchia, nel 1980. Non era alla prima esperienza. Era tenace, convinto, molto sensibile schivo, affezionato alla sua terra e diocesi di origine, Saluzzo (Cuneo), con cui teneva molti rapporti e da cui si sentiva “mandato”. Proprio non aveva l’aria del leader energico e indaffarato, al contrario, a tratti sembrava addirittura impacciato; ma una dopo l’altra fondò tre missioni nuove, tutte in area a prevalenza Orao – il popolo a cui era più affezionato nonostante i numerosi contrasti e grattacapi che dovette affrontare: prima a Pathorghata (1962), zona archeologica su terreni contesi; poi Khalisha (1980), e alla fine Lohanipara (2007). Delle strutture che mise in piedi, tutte di modeste dimensioni e costruite in economia, a Khalishanon rimane praticamente nulla, ma il lavoro di evangelizzazione e pastorale non è stato cancellato.
(continua)