Il 10 giugno scorso, con una “cerimonia virtuale”, la Primo Ministro del Bangladesh ha inaugurato 50 “moschee modello”, le prime di 560 progettate per celebrare i 50 anni di indipendenza del Bangladesh, nonché dei 100 anni dalla nascita di Sheikh Mujibur Rahman, “Padre della Patria” (e padre della Primo Ministro). Le moschee sono interamente finanziate dal governo, che ha ricevuto rilevanti contributi di vari paesi islamici, e hanno tutte una struttura architettonica e decorativa uguale. Sono belle, eleganti, danno un’impressione di luminosità. La pandemia ha costretto a contenere l’entusiasmo della celebrazione, ma progetti come questo, o come la donazione di una casetta di due stanze a un milione di famiglie povere, vengono mantenuti, nonostante gli “immancabili” episodi di corruzione.
Di solito, una moschea consiste in un’aula di preghiera, vuota e senza decorazioni, con una nicchia interna orientata verso La Mecca, nella cui direzione bisogna pregare. Su questo non si fanno eccezioni. Ci sono inoltre spazi per le abluzioni da compiere prima della preghiera, qualche aula per la scuola coranica ai bambini, servizi igienici. Spesso, nello stesso edificio si vedono anche negozi di vario tipo che, presumo, con gli affitti contribuiscono al mantenimento della struttura e di chi vi opera.
In Bangladesh, salvo rare eccezioni, le moschee sono per gli uomini; le donne non vi entrano neppure per le preghiere del venerdì o in occasione delle feste: pregano a casa. Le nuove moschee si propongono come “modello” anche perché progettate con un’aula di preghiera per le donne e una per gli uomini, con i rispettivi spazi per le abluzioni. Inoltre, saranno provviste di biblioteca, vendita libri, aule per insegnamento (specie per la memorizzazione del Corano in arabo) conferenze e riunioni, prenotazioni per i pellegrinaggi alla Mecca, alloggio per l’Imam e per il Muezzin, spazi per autistici, sale d’aspetto per turisti (anche stranieri – si precisa), servizi igienici per “diversamente abili”. Ognuna avrà pure un ufficio della “Islamic Foundation”, distribuendo così su tutto il territorio una struttura para-governativa che si propone come autorevole punto di riferimento per la vita religiosa del Paese. Fu la Islamic Foundation che nel 2016, dopo il tragico attentato dell’Holey Artisan Bakery a Dhaka, nel corso del quale furono uccisi anche nove italiani, distribuì a tutti gli Iman il testo dell’omelia da tenere al venerdì, stigmatizzando il terrorismo.
La Primo Ministro ha commentato l’evento dicendo che “attraverso queste moschee la cultura e i messaggi dell’Islam attireranno l’attenzione di tutti; nel nostro Paese tutti, di qualunque religione o casta, comprenderanno l’essenza dell’Islam”.
Grandi applausi sono arrivati da più parti, ma anche qualche reazione critica, fra cui quella di un organismo che si propone di rappresentare in modo unitario le minoranze religiose in Bangladesh: Hindu, Buddisti, Cristiani e, se non erro, anche le religioni tradizionali. Hanno chiesto che il governo – se vuole dimostrare di essere come dice, cioé tollerante e aperto a ogni religione, e proporsi al mondo come esempio di armonia – faccia altrettanto per le minoranze: templi, pagode e chiese anche per loro.
Il discorso però non è così semplice.
Il testo costituzionale del Bangladesh, al suo nascere nel 1971 affermava la natura laica della repubblica, ma pochi anni dopo, nel 1978, veniva modificato, attribuendo all’Islam – praticato dalla stragrande maggioranza dei bengalesi -una posizione qualificabile come “religione di stato”. È quanto la Primo Ministro Sheikh Hasina ha affermato – pur senza citare la Costituzione: il Bangladesh è un paese a maggioranza islamica, “per questo è essenziale che i riti e i valori dell’Islam siano praticati qui in modo appropriato, promuovendo anche la cultura islamica” ha detto.
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