Disabilità 2 – Madri, figli, padri

Rina dava l’impressione di non sorridere mai. Suo marito – un uomo istruito e serio – sapeva che avrebbe avuto diritto ad un sussidio governativo, ma si rifiutava ostinatamente di farne richiesta, perché ciò avrebbe significato dichiarare la disabilità di sua figlia Myriam, e lui non riusciva ad ammetterla. Tutte le spese relative a questa situazione ricadevano sulla famiglia, ma lui non voleva saperne di contribuire. La moglie aveva avuto in precedenza ben sette aborti spontanei e quando diede alla luce la figlia disabile, lui era caduto in depressione grave, e cercava disperatamente di cancellare questa realtà.

Rina per un certo tempo portò regolarmente Myriam ai programmi di Joyjoy, avvisando quando non poteva; poi, qualche mese fa, improvvisamente smise di accompagnarla, e non rispose alle nostre chiamate telefoniche; a volte rispondeva il marito, con modi bruschi e ostili, finché un giorno tagliò corto dicendo che Myriam non sarebbe mai più andata. Intuivamo come potesse essere l’atmosfera di famiglia, e decidemmo di non andare a trovarli.

Dopo parecchio tempo, finalmente fu Rina a farsi viva di nuovo. Telefonava, ansiosa e timorosa, dalla casa di una vicina: il marito le aveva sottratto il cellulare, la controllava e sospettava di lei qualunque cosa facesse. “Per favore – ci chiese – venite voi a parlargli”.

Lo trovammo in pessime condizioni, evidentemente avrebbe avuto bisogno di cure e sostegno, e la situazione ora stava diventando insopportabile anche per la moglie.

Ma ora Rina lavora con noi come aiutante, ed è proprio il marito che ogni mattina, puntualmente, con la sua motocicletta porta lei e la figlia al nostro Centro. Raramente dice una parola, una sola, ma per noi questo è un grande miglioramento, e anche Rina si sta rivelando una donna con buone risorse, e degna di fiducia: ci aiuta molto bene, parla, sorride…

Rehana fu la prima aiutante assunta da Joyjoy; fino ad allora, lavorando come domestica con uno stipendio miserabile, era sopravvissuta solo grazie all’aiuto di sua madre. Con noi lavorava sodo; inoltre si fece notare come la più fedele nel far praticare alla figlia Moni, sia a casa sia a Joyjoy, gli esercizi di cui aveva bisogno. E poiché Moni ha una paralisi cerebrale, questo produsse notevoli miglioramenti, e fu di incoraggiamento anche alle altre mamme. Solo parecchio più tardi venimmo a sapere che suo marito si drogava pesantemente e spesso la violentava. Gli proibimmo di venire alla nostra sede, ma disturbava con chiamate telefoniche o con irruzioni chiassose. Ne parlammo con lei e sua madre, poi tutte insieme. Le altre mamme dissero di non capire perché Rehana non si separasse da quell’uomo, visto che erano lei e la mamma a mandare avanti economicamente la famiglia. La ragione venne ad un certo punto espressa: Rehana e mamma avevano paura di essere giudicate come donne poco serie… Sarebbe facile liberarsi del disturbo dicendo a Rehana di non venire più, ma in questo modo i problemi per lei certo non si risolverebbero. Stiamo cercando qualche organizzazione che possa intervenire sul marito e aiutare lui a cambiare; speriamo di trovarlo…

Futuro. Nello scorso mese di agosto abbiamo avuto il primo incontro con le mamme, e qualche nonna, e da allora ci si vede regolarmente tutti i mesi, con la partecipazione media di venti persone. Si prende il tè insieme, si condivide, ci si diverte. Alle mamme piace giocare a bocce (gioco sconosciuto in Bangladesh). Il campo è stato preparato da alcuni volontari italiani venuti in visita qualche mese fa, mentre dal Giappone sono arrivate bocce soffici e di misura piccola, che vanno proprio bene per loro. Si appassionano al gioco fino a dimenticarsi dell’agenda dell’incontro…

Tre mamme sono state scelte per incontri di collaborazione con gli operatori di Joyjoy, subito prima di ogni incontro mensile. Noi speriamo che questo stia mettendo le basi per una futura autogestione dell’iniziativa, aumentando le loro responsabilità e facendoci noi gradualmente da parte. Le mamme si interrogano spesso del futuro dei loro figli, sono consapevoli della fragilità del progetto Joyjoy, e ne parlano. Speriamo che si sviluppino fra tutte senso di appartenenza e di solidarietà, per riuscire a superare le differenze che esistono fra noi.

P. Franco Cagnasso 1.1.23

Disabilità 1

Joyjoy ha già avuto l’onore di entrare in più di una scheggia. È un piccolo progetto che, a Dinajpur, si occupa di bambini con disabilità mentali di vario genere, e delle loro famiglie, a partire dalle mamme. Più volte ho accennato al fatto che, spesso, la presenza in famiglia di una persona con disabilità è motivo di emarginazione, pregiudizi negativi, vergogna, tentativi di nascondere questa realtà agli occhi degli estranei. Le eccezioni ci sono, e ho scritto anche di quelle, raccontando qualcosa della famiglia di Mim, e dell’affetto di cui questa bimba è circondata da parte di genitori e fratelli.

Ora prendo qualche spunto dal rapporto semestrale di Joyjoy, che Naomi, missionaria laica giapponese e perno di questo progetto, ha mandato in copia anche a me. Presento qualche breve profilo di bambini, e di mamme; i nomi sono di fantasia, persone ed eventi sono reali.

Figli, madri, nonne. La prima volta che andammo a trovare Rakhib, lo trovammo legato per una gamba ad un palo di sostegno della casa. I vicini lo chiamavano “pagol” – “pazzo”. Quando gli si metteva davanti il piatto, non prendeva il cibo con la mano, ma si tuffava con la bocca sul mucchio di riso; non sapeva usare il bagno, si sporcava continuando a camminare…

La mamma, non sopportando le violenze del marito drogato, si era rifugiata, con lui e un’altra figlia più piccola, presso un fratello maggiore, e guadagnava qualcosa facendo la domestica. Dava l’impressione di essere come indurita dalle difficoltà della vita, indifferente ai figli; quando le proponemmo di occuparci un poco di Rakhib ci disse: “Fate quello che volete, e come volete: io non posso fare altro che tenerlo legato.”

I primi tempi non furono facili per chi se ne occupava, ma pian piano gli insegnammo a portare il cibo alla bocca. È con noi da oltre cinque mesi e ha imparato a chiamarci con una singola parola, “ushai”, quando ha bisogno di andare in bagno.

La mamma non dice molto. Spesso lo lega al palo quando lo accompagniamo a casa. Ma recentemente ha comprato per lui camicie e calzoni nuovi, e ci ha fatto felici.

Bonna è stata accolta come una “eccezione” perché Joyjoy è per i bambini, ma Bonna è una giovane di 22 anni. Sette o otto anni fa, dopo uno stupro subito da un vicino, entrò in depressione; non parla e non sorride mai. Di famiglia indù povera, i suoi riuscirono a far condannare il suo aggressore, che è in prigione, e tornerà libero fra qualche anno.

L’abbiamo invitata a venire a Joyjoy per giocare con i bambini. Suo padre, molto anziano, le vuole bene, e nonostante abbia difficoltà a camminare, l’ha accompagnata personalmente. Con i bambini, Bonna riuscì a sorridere, e la invitammo a venire una volta la settimana a mangiare con noi. Ma non si fermava a lungo, e anche questo piccolo diversivo non basta certo a farla migliorare. Avrebbe bisogno di cure, anche mediche, appropriate. Rifiuta ogni medicina, ma mostra di accogliere volentieri le nostre visite, e noi continuiamo ad andarla a trovare regolarmente…

Ridoy è un ragazzo di 14 anni, affetto da paralisi cerebrale. Aveva 5 o 6 anni di età quando la mamma lo abbandonò e se ne andò di casa. Dopo due anni il padre si risposò, ma dopo un mese anche lui se ne andò, con la seconda moglie, facendo perdere le tracce. La nonna si prese cura di Ridoy, ma non poteva prestargli molta attenzione perché doveva lavorare presso due famiglie da mattino a sera. Ridoy rimaneva solo tutto il giorno; si distraeva sbirciando attraverso una fessura nel cancello di ferro…

La madre non si rifece viva, ma con qualche trucco riuscì a fare assegnare a sé il sussidio governativo dovuto a Ridoy per la disabilità, andando avanti a riscuoterlo e tenerlo per sé, per otto anni. Solo recentemente la nonna è riuscita ad ottenere che il sussidio venga mandato a lei. La nonna si era anche interessata di una vecchia sedia a rotelle che apparteneva a un bambino disabile morto qualche tempo prima, ed era riuscita a farsela dare. La sedia è l’unico attrezzo che in qualche modo risponde alle necessità di Ridoy.

Bisogna dire che è stata la mamma ad avvisarci della situazione di Ridoy, mentre la nonna ha accolto volentieri la nostra proposta di assistenza. Continua a prendersene cura, e speriamo che il nostro aiuto possa migliorare la situazione del ragazzo, e anche la sua.

Franco Cagnasso 31.12.22