Il 7 febbraio scorso, 60 studenti e 4 “formatori” (più il sottoscritto) del Seminario Teologico Internazionale del PIME, con sede a Monza, sono andati con mezzi vari a Crema per partecipare, nella cattedrale, ad una veglia di preghiera per il Myanmar. È seguita la celebrazione eucaristica, nel ricordo del Beato Alfredo Cremonesi, missionario del PIME ucciso in Birmania settanta anni fa, il 7 febbraio 1953.
La Birmania (oggi Myanmar) non è il Bangladesh, ma spero che se qualcuno entrerà nel “blog” accetterà questo “sconfinamento” dal Bangladesh. La scheggia ha due parti: un profilo biografico del mio confratello beato, seguito dal testo dell’omelia che ho pronunciato la sera del 7 febbraio, a Crema.
Cenni biografici da: Piero Gheddo: Alfredo Cremonesi, un martire per il nostro tempo. EMI, Bologna, 2003
1902 – 16 maggio, Alfredo nasce a Ripalta Guerina (Crema), primo di 6 figli maschi e una femmina – A 11 anni entra nel Seminario diocesano di Crema. Durante gli anni di seminario attraversa un lungo periodo di malattia e grave deperimento. Nel 1921, contro ogni previsione, si riprende bene, e decide di farsi missionario; “forse anche martire” scrive.
1922 – Alfredo è accolto a Milano nel Seminario Lombardo per le Missioni estere, che pochi anni dopo, fondendosi con il “gemello” Seminario Romano per le Missioni estere, prese il nome di PIME. È al terzo anno di teologia.
La famiglia era in condizioni economiche buone, ma fu rovinata e ridotta quasi alla fame dai fascisti, che compirono una “spedizione punitiva” (1927) contro il papà, attivo e generoso membro dell’Azione Cattolica e difensore della democrazia; uomo intelligente, molto affiatato con il figlio. Il giovane Alfredo scrive bene e pubblica: racconti, versi, libri, commedie a tematica missionaria. Esprime il suo amore alla missione scrivendo; solo in un secondo momento ha pensato a sé come missionario.
1924 – Alfredo viene ordinato presbitero nella chiesa S. Francesco Saverio (Milano); per un anno insegna al seminario minore dell’istituto, a Genova Nervi.
1925 – 5 ottobre, riceve il crocifisso di partenza; s’imbarca a Napoli e arriva in Birmania dopo 25 giorni di viaggio. Vi resterà ininterrottamente per 28 anni.
1953 – 7 febbraio – Viene ucciso da militari birmani a Donokù (diocesi di Toungoo) mentre cerca di proteggere un capovillaggio cristiano accusato di aver appoggiato i ribelli.
La vita missionaria
La decisione di farsi missionario era stata accompagnata dal proposito fermissimo di non tornare e non voltarsi indietro, per appartenere completamente alla missione, senza distrazioni e senza rimpianti, ma… poco dopo la partenza scrive: “Ho distrutto il mio passato… e allora perché oggi non sogno che il passato? (…) mi dà fastidio… ma non ne posso fare a meno. Cambiare rotta al mio pensiero ora è pretendere di deviare il Po, quando la piena lo rende turgido…
Arriva a Toungoo (centro-sud del Myanmar) il 10 novembre 1925. Molto dotato e convinto, in otto mesi impara un poco di varie lingue locali, mentre si guarda attorno e scrive i primi commenti: “Posti incantevoli… gente pulita e ben vestita”; apprezza pure le varie opere delle missioni. Scrive: “questi Cariani e questi Birmani esercitano su di me un fascino meraviglioso. Mi piacciono, mi piacciono, mi piacciono…”
Molta fantasia e progetti… chiede alla FIAT un aereo in regalo (senza ottenerlo…), ha passione per il teatro… “ho la testa che mi sembra un vulcano”. Rammaricato perché i Birmani non si convertono, avvia una “crociata di preghiere” per la conversione dei Birmani per mezzo dei Cariani. uno dei gruppi etnici del Paese…”. Pensando allo sviluppo sociale e al miglioramento delle loro condizioni di vita, avvia fra i Cariani una lega di mutuo soccorso; dà importanza all’istruzione, progetta una scuola tecnica, varie scuole…
Dopo pochi mesi inizia le visite sui monti, anche in luoghi mai raggiunti dai missionari. Viaggia molto: a piedi, su sentieri scoscesi, restando fuori casa ogni volta per un mese e più; montagne ripide, caldo, zanzare – e malaria, la “tortura” che lo prostra fisicamente… Forzatamente medico di se stesso, si cura con pesanti e dolorose iniezioni di chinino. Vive momenti di rischio sia per i malanni, sia per le difficoltà dei viaggi.
A un benefattore scrive: “quasi un mese fra i villaggi, e devo ripartire domani… Però il Signore sembra benedire queste mie fatiche, perché anche in questo ultimo giro ho avuto l’immensa fortuna di assicurare tre nuovi villaggi alla fede. Ma Gesù è grande, Gesù è buono!”.
Stima e simpatia per la gente. “Guarda a questi meravigliosi cristiani. Battezzati da solo due o tre anni ma molto più ferventi dei nostri cattolici… Anche i catechisti… vita esemplare che mostra la bellezza della nostra fede, tengono il popolo unito, risolvono i loro problemi, conquistano nuovi pagani alla fede…”
Alfredo viene trasferito più volte, anche in posti dove deve iniziare da zero, e spesso esprime il desiderio di avere qualcuno che risieda e lavori con lui, per condividere idee, fatiche, responsabilità, ecc. Ma due anni di esperienza con un missionario di carattere e comportamenti molto difficili e imprevedibili, con cui nessuno riusciva a stare, lo induce scrivere al Vescovo e chiedere di essere trasferito; Alfredo conclude però che, se ciò significa che il Vescovo manderà un altro, il quale a sua volta “soffrirà come me o anche più di me” è disposto a restare e fare del suo meglio.
Nella tragedia della Birmania
1937 – inizia un lungo e tormentatissimo processo di autonomia e indipendenza della Birmania, con ricerca dell’identità nazionale di un paese che è colonia della Gran Bretagna, formato da vari gruppi etnici spesso in lotta, e da varie religioni, con la presenza influente dei britannici, e di immigrati cinesi e indiani.
1939 – Seconda guerra mondiale: dal 1940 gli Inglesi mandano in campo di concentramento molti missionari italiani, in quanto cittadini di una nazione nemica… poi distruggono ciò che può servire al nemico e lasciano la Birmania ai Giapponesi che conquistano tutto. Alla fine del 1943, l’Italia cambia alleanze e diventa nemica dei Giapponesi, che di conseguenza se la prendono con i missionari italiani; poi a loro volta distruggono tutto e si ritirano in Thailandia, per tornare in Giappone. Si formano in Birmania due partiti comunisti rivali, mentre truppe del partito nazionalista cinese, sconfitto dai comunisti di Mao, si rifugiano in Birmania occupandone alcune regioni del nord – dove si trovano ancora oggi in situazione non ufficiale di semi autonomia.
1948-1952 – Rivolta dei Cariani, il gruppo etnico più sviluppato e coinvolto in politica, contro il governo nazionale che si sta formando. La ribellione è appoggiata da molti cristiani battisti, perciò comunemente si pensa che tutti i cristiani siano ribelli, anche i cattolici che in realtà da tempo sono in conflitto con i battisti, e per lo più non appoggiano la ribellione. I missionari fanno quello che possono per portare pace, soccorrere le vittime della violenza, calmare gli animi, salvare le opere delle missioni.
Le guerriglie dei gruppi etnici contro il governo, e a volte fra loro, continuano, con momenti più o meno intensi, fino alla vittoria elettorale di Aung San Suu Kyhi, pochi anni fa. Riprendono con grande intensità coinvolgendo sia i birmani sia i tribali, con il colpo di stato militare del febbraio 2022.
OMELIA
Letture per la celebrazione Eucaristica: Is 52,7-10 – Gv 10, 1-16
“Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annunzia la pace, del messaggero di buone notizie che annunzia la salvezza…” (Is. 52, 7). Con queste parole inizia la prima lettura che abbiamo ascoltato questa sera, tratta dal profeta Isaia. È un’immagine poetica simpatica, ma a dire il vero i piedi del nostro missionario certamente non erano belli. P. Alfredo non si lamentava mai delle difficoltà, però le raccontava nelle numerose lettere e negli articoli che scriveva ai suoi famigliari, agli amici, a pubblicazioni missionarie. Descriveva, tra l’altro, la sua vita di viaggiatore ed esploratore su e giù per montagne ripide, coperte da foreste, senza strade e spesso nemmeno sentieri… sempre a piedi, perché il cavallo costava troppo, e senza mai trovare un paio di scarpe adatte, costretto ad usare solo scarpe di pezza che non proteggevano da sassi e spine, e si laceravano subito lasciandolo a piedi nudi, quindi doloranti, pieni di escoriazioni e di ferite. Quando finalmente la famiglia riesce a mandargli un paio di scarpe da montagna di buona qualità, è soddisfatto e grato… ma gli durano meno di un anno.
I suoi viaggi, spesso in luoghi del tutto inesplorati, erano a volte rischiosi… Alfredo narra che una volta lui e la guida persero l’orientamento e, dopo affannosi tentativi, si resero conto di essersi del tutto smarriti: il buio sarebbe presto calato trovandoli soli in una foresta montagnosa, impervia e piena di pericoli. Li salvò… il canto di un gallo lontano. “Se c’è un gallo, ci sarà pure qualche essere umano” pensarono, dirigendosi subito nella direzione da cui era venuto il “chicchirichì”; e arrivarono a un piccolo villaggio che li ospitò.
Eppure è giusto dire che i piedi di Alfredo erano belli, perché lo portavano ad annunciare “la buona notizia” e “la salvezza” a tante, tantissime persone. Molti lo accoglievano con gioia, lo ascoltavano volentieri, si disponevano a conoscere Gesù e il Vangelo. Per questo non smetteva di viaggiare, e non si lamentava, anzi sognava sempre di fare di più… Già prima di partire per la missione aveva scritto: “Io desidero un apostolato pieno di sangue e di sacrifici, colmo di fiele e di delusione, senza l’egoistica soddisfazione personale: e laggiù è il mio campo”. Diceva con entusiasmo che voleva affrontare qualunque tipo di sacrificio e fatica per arrivare ai più lontani. E davvero è stato così.
I sacrifici non erano causati soltanto dai viaggi. Era sempre a corto di soldi, con debiti, scuole, cappelle da costruire, stipendi ai catechisti, che stimava molto. Viveva una grande povertà personale: abiti, cibo spesso scarso e poco nutriente (riso bollito, con erba della foresta, scriveva), insieme a malattie che doveva curare da solo, come la malaria che lo perseguitava, e ad esaurimenti di forze che più volte lo portarono vicino alla morte, se non lo avessero salvato le suore… più con le preghiere che con le medicine – diceva.
A tutto questo si aggiunsero la guerra mondiale, che in Birmania fece tantissimi danni, e poi la guerra civile, che fece soffrire tantissimi poveri, e costrinse lui a lasciare la sede della sua missione provocandogli grande dolore e smarrimento.
Nel 1950 infatti, la sua missione venne occupata dai ribelli; due missionari, Mario Vergara e Pietro Galastri, erano già stati uccisi; Alfredo era nella lista… Molti decisero di rifugiarsi a Toungoo, e p. Alfredo andò con loro… ma fu una decisione di cui non si diede pace.
Scrive al suo Vescovo: “Lei non può davvero immaginare come sia aumentata in me l’ansia, la brama, l’agonia di ritornare presto al mio villaggio per raccogliere la mia povera gente dispersa (…). È una tale ansia che toglie tutto il gusto delle altre cose. Mi pare di sentire fisicamente il dolore della mia povera gente e il loro cruccio e mi rimprovero per averla abbandonata. Quindi mi può perdonare se magari penso di fare delle imprudenze…”
E alla zia suora: “Io sono qui, profugo senza più nulla, alla mercè della carità di tutti; e i miei (cioè coloro che erano rifugiati come lui) sono là nell’accampamento che guardano e sperano in me come al loro unico aiuto. Come faremo? Come vivremo oggi, domani e poi? Come potremo ricominciare la nostra vita? Penso ai molti della mia povera gente che sono ancora nelle mani dei ribelli. Ho bisogno di tante preghiere perché possa perseverare nella mia vocazione, perché il pensiero di dover ricominciare tutto daccapo, il pensiero di quel che mi aspetta nel prossimo avvenire, del come si troveranno i miei poveri cristiani, di come farò a far fronte a una situazione così disperata mi dà le vertigini. E se non fosse la fiducia nella provvidenza e nella bontà di Dio, si cederebbe subito alla tentazione che si fa ogni giorno più forte, di piantar qui tutto e di andare dove queste prove e preoccupazioni non ci sono più. È difficile la vita eroica… Mi affido alle tue preghiere e a quelle dei bambini. Il Signore ascolta tanto volentieri le preghiere dei bambini.”
Difficoltà, privazioni, sofferenze, eppure Alfredo è conosciuto come un uomo sorridente, sereno, di buona compagnia. Dove trovava la forza, le motivazioni per proseguire, e la serenità che lo accompagnava?
Come P. Paolo Manna, Alfredo pensa che il successo della missione sia in proporzione ai sacrifici che si fanno. Se c’è da soffrire, ci saranno risultati, e quindi dobbiamo andare avanti con fiducia, senza tirarci indietro. Gli è familiare anche il pensiero della morte, in un orizzonte di fede. Nel 1938 scrive alla zia suor Gemma: “Adesso che ho visto il viso della morte tante volte durante l’invasione giapponese e durante questi tre mesi di malattia, non ho più nessun attaccamento alla terra e sento una gran voglia di consumarmi tutto e presto, perché venga presto il Regno del S. Cuore in queste terre. (…) Quando il Signore ispira questi sentimenti, non c’è più nulla che faccia paura. Tutto è bello, anche il dolore che ci prepara una corona più bella in paradiso” (…) Il peggio che mi possa capitare è di morire, e questo non è il peggio. Se anche avessi a morire sul campo è una cosa alla quale mi preparo da un pezzo…”
La sua forza perseverante veniva senza dubbio dall’amore a Gesù, che è per lui veramente “la porta” di cui parla il Vangelo secondo Giovanni, ascoltato poco fa. Alfredo passa attraverso quella porta per raccogliere le pecore, come fa il pastore buono (e non il mercenario!) – e come il pastore buono, giunge a dare la vita per le sue pecore. Proprio così: entra con Gesù, per Gesù, attraverso Gesù; e come Gesù dà la vita per il popolo a cui è stato mandato.
Il suo rapporto con Gesù e il suo amore per la gente, intrecciandosi e crescendo insieme, sostengono e motivano la sua preghiera e il suo servizio instancabile; allo stesso tempo, pregando e servendo il suo prossimo Alfredo cresce nell’intimità con Gesù e nella sua dedizione appassionata.
Agli inizi della sua missione, parroco a Yedashè e procuratore delle missioni affidate al PIME, mentre si ambienta scrive a p. Manna: “Una cosa sola ho visto chiaramente, cioè l’impossibilità di fare qualcosa senza una pioggia straordinaria di grazie.” Si mette d’accordo con un’associazione di Torino che impegna 25 persone a pregare per lui; appena ne viene informato…si sente meglio: “Subito ne ho provato in me stesso effetti prodigiosi. Un ardore di fede, di confidenza, di amore mai provato finora, un desiderio di mortificazione nuovo, un desiderio insaziabile di trovarmi davanti a Gesù in preghiera.”
Corrisponde frequentemente con Agnese, suora di clausura, alla quale nel 1937 scrive: “Ho sempre avuto un desiderio immenso di vita solitaria e claustrale. Mi è sempre sembrato bello e sublime vivere una vita di preghiera, di meditazione, di silenzio e di ritiro (…) Mi ottenga da Gesù la grazia di una intensa vita interiore, in modo che anche in mezzo ad una vita necessariamente dissipata, io mi abitui a trovare nel mio cuore la mia cella serena e segreta dove solo Gesù è ammesso (…) È un aiuto necessario ed efficace per realizzare la mia santificazione.”
Da un certo momento, inizia a pregare anche di notte: riposa dalle 9 di sera fino a mezzanotte, poi va in chiesa a pregare per un’ora, per ritornare poi a dormire un’altra ora e mezza; e mezz’ora nel pomeriggio. Dice che non gli costa fatica, che in famiglia anche suo papà dormiva poco… ma sarà stata proprio una cosa facile e leggera?
Dunque tanta preghiera, tanta fiducia, tantissimi sacrifici, e tantissima ansia di raggiungere sempre più persone, raccogliendole nel “gregge” di Gesù.
Lessi per la prima volta la vita di p. Alfredo più di 10 anni fa. In questi giorni, mentre la rileggevo, sentivo che… stavamo diventando amici, ma allo stesso tempo si rinnovavano in me alcune perplessità: non sono forse cose belle, ma di altri tempi? Noi oggi non pensiamo alla missione in questo modo; quanto ai sacrifici, ci sembra proprio che nessuno li cerchi. Perciò ho deciso di fargli qualche domanda, per risolvere le mie perplessità che forse sono anche le vostre. Permettetemi di presentarvi questa immaginaria intervista.
P. Alfredo, tu parli sovente, anzi, tu desideri vita molto dura, prove, sofferenze e sacrifici… quasi quasi ci prendi gusto. È così? Non ti pare di esagerare al punto di sembrare masochista? Noi parliamo della fede cristiana come gioia… In questi ultimi decenni, ben due papi (Paolo VI e Francesco) hanno scritto encicliche sulla gioia!
Risposta. So che faticate ad accettare il nostro linguaggio e il nostro pensiero su queste cose. Anche oggi, quando vi viene consegnato il crocifisso per la partenza, leggete la preghiera di P. Mazzucconi in cui tra l’altro si dice: “beato il giorno in cui dovrò soffrire molto… più beato ancora quello del martirio.” Lascia che ti comunichi un mio dubbio: sì, lo dite, ma… ci credete?
Nel vangelo secondo Giovanni, Gesù ha detto che ci unisce a sé “perché la vostra gioia sia piena”: questo non lo dimentico! Dunque avete ragione voi, Gesù è venuto per salvarci dalla sofferenza, non per farci soffrire. Ma ha anche detto che il Figlio dell’uomo sarebbe stato insultato, umiliato, crocifisso e ucciso, suscitando le proteste di Pietro – e le nostre… Non solo, ma ha insegnato che per seguirlo bisogna prendere la croce e portarla, che bisogna perdere la propria vita per salvarla; e ci ha avvisato: “vi mando come pecore in mezzo a lupi…”. Vi sembra facile?
Allora, cerchiamo la gioia o i sacrifici? Non ci sono dubbi: la meta è la gioia, e la gioia piena. Sacrifici e sofferenze non sono lo scopo. Però, attenzione: non cercate le scorciatoie che non ci sono! Guardate a Gesù: è lui che dobbiamo seguire, e quanto più si ama, tanto più si è pronti al sacrificio per la persona amata. Nella fede, sappiamo che la morte non è la fine, ma l’inevitabile passaggio verso la vita piena, di felicità eterna. Questa fede ci fa accettare i sacrifici vissuti per gli altri, per amore, sicuri che questo amore ci dà gioia oggi, e ci riempirà di “gioia piena” domani. Io, pure in mezzo a tanti guai e sofferenze, ero un uomo – come dite voi – “realizzato”. Ho accettato e vissuto sacrifici molto grandi, non lo nego, a volte li ho anche desiderati, ma perché volevo raggiungere tanti, tantissimi, per presentare a queste persone, spesso cariche di sofferenze di ogni tipo, Gesù e la sua gioia, e per donare loro a Gesù che le ama!
Nei villaggi dove avevo predicato si diceva: “Eravamo sempre in guerra fra noi, i missionari ci hanno portato la pace”. Questo sì mi colmava di energie, e il fatto di aver sofferto per arrivare a questa pace, rendeva la gioia ancora più viva!!
È vero, p. Alfredo, pur facendo moltissimi sacrifici, a coloro che incontravi non davi l’impressione di essere una persona corrucciata e dura… Ma devo farti ancora una domanda.
Tu parli a volte dell’evangelizzazione come “conquista”, o scrivi che avevi “preso nella rete” quelli che accettavano l’invito ad ascoltare il vangelo. Sinceramente, queste parole ci disturbano, ci fanno venire in mente la Russia che conquista l’Ucraina, o una religione che ci prende in una rete e toglie la libertà, e tu sai che noi oggi vogliamo soprattutto la libertà. Come la mettiamo?
Risposta. Io ho accompagnato alla fede cristiana tanti, ma non facevo il “proselitismo” che Papa Francesco giustamente non vuole. Ricordi? Mons. Gobbato, ultimo vescovo del PIME a Taunggyi – che nella sua vita aveva battezzato tantissime persone – ha confidato una volta proprio a te che tutte le mattine pregava il Signore di tenerlo lontano dal proselitismo. Io non annunciavo il vangelo per sentirmi forte, per attirare ad ogni costo, per aumentare di numero le “truppe” della chiesa, per mio interesse… Io pregavo e prego perché molte persone si aprano ad accogliere il dono dell’amore di Gesù, il dono più prezioso che un essere umano possa ricevere. Avevo l’ansia di annunciare perché il vangelo è la cosa più bella che avevo, e giorno dopo giorno vedevo che – nonostante la debolezza umana – il Vangelo migliora molto la vita delle persone, dei villaggi, dei popoli. Quanto ad “essere presi nella rete”, è un paragone che usa Gesù, per spiegare che il Regno dei Cieli è come una rete piena di pesci, buoni e cattivi, e non bisogna scandalizzarsi, perché non ci sono realtà soltanto buone o soltanto cattive. D’altra parte, la libertà che ha come obiettivo soltanto se stessa (= fare quello che si vuole e piace, senza altre considerazioni) porta a forme di prigionia vere, ben peggio di una rete per pesci. È meglio entrare consapevolmente nella “rete” della fede in Gesù che ci ama, oppure entrare senza accorgercene nelle reti del consumismo, dell’idolatria, delle mode, dei nazionalismi e delle ideologie, della droga, o semplicemente dell’egoismo, e del vuoto?
Vorrei concludere raccomandandovi: lasciatevi amare da Gesù, cercate di voler bene, fate bene, imparate a sacrificarvi per ciò che è bello e buono, e non abbiate paura: sarà il Signore a darvi la gioia.
Crema, 7 febbraio 2023 – Settantesimo anniversario della morte di P. Alfredo Cremonesi
p. Franco Cagnasso