Ritorno

Eccomi qui, di nuovo con una “scheggia” certamente inattesa: la precedente, numero 239, risale a più di un anno fa: non mi sentivo di scrivere sulla vita in Bengala risiedendo e lavorando nel “Seminario Teologico Internazionale” del PIME… a Monza; per questo la produzione di schegge si è bloccata.

Qui ho vissuto una “full immersion” (vedete che pure io so cacciare l’inglese dove se ne potrebbe fare a meno?), in questa comunità con oltre 50 giovani di 10 diversi paesi. Con loro non mi sono “sentito giovane”; mi sono sentito come sono, cioè vecchio, ma un vecchio contento di vivere fra giovani. Non per far finta di essere come loro, ma per condividere ciò che siamo, e che vogliamo essere, alla scuola del Vangelo e di una comune vocazione missionaria, che ci chiede di accoglierlo sempre meglio, facendone dono a tutti, per quanto possibile.

Il tempo che il superiore generale del PIME mi aveva indicato per questo inatteso servizio era di due anni scolastici 2022-23 e 2023-24; dunque è terminato. Non mi rammarico di aver fatto il “tappabuchi”; anzi!

Il Bangladesh però, neppure volendo sarei riuscito a dimenticarlo, se non altro perché “WhatsApp” ha permesso agli amici bengalesi di fare tutte le telefonate che volevano. In due anni, hanno capito che bisogna tener conto dei fusi orari; se ne ricordano… con qualche perdonabile distrazione: ogni tanto il telefono squilla in piena notte; ma succede sempre più raramente…

Una sensazione strana, quella di essere allo stesso tempo qui e là, e in buona parte lo ero – emotivamente.

E adesso?

P. Giovanni, che mi succede nel ruolo di “direttore spirituale” dei seminaristi, è già arrivato, dopo parecchi anni di missione non facile in Papua Nuova Guinea. Si sta ambientando, penso proprio che farà bene, e gli auguro di essere contento pure lui.

Quanto a me, sono alle prese con la richiesta del visto per entrare e rimanere in Bangladesh; con la scelta su che cosa portare con me e che cosa lasciare; e con l’impresa di organizzarmi per salutare tutti gli amici… no, tutti non sarà possibile, ma quasi tutti forse sì…

Insomma, mi preparo al RITORNO. Spero che il mio santo patrono mi dia una mano a partire proprio nel giorno della sua memoria: infatti ho prenotato il volo per il prossimo 4 ottobre. Chiedo a Francesco d’Assisi di accompagnarmi per vivere in “perfetta letizia” questo gradito tramonto missionario.

… chissà, tornando vivere in Bangladesh forse le “schegge di Bengala” di nuovo mi sorprenderanno, facendosi sentire, e invitandomi a comunicarle…

Franco Cagnasso
Monza, luglio/agosto 2024

Cinquant’anni di… (2)

“Cinquant’anni di amicizia con Gesù”, “cinquant’anni di servizio come Gesù”, e “cinquant’anni di frutti e di potature.”

Queste riflessioni e condivisioni in occasione del cinquantesimo ci hanno aiutato a far emergere pure un aspetto legato non solo alle parole di Gesù ma anche alle circostanze in cui le ha dette. Per Gesù era arrivato il momento di “consegnarsi”, e di affrontare il passaggio della morte. Abbiamo ricordato i compagni che ci hanno preceduto su questa strada, e abbiamo preso coscienza di un’importante “ovvietà”: se non possiamo conoscere il momento e l’ora – siamo comunque sicuri che per noi “il tempo si è fatto breve”. Che significa? Significa prendere sul serio la promessa di Gesù: “Vado a prepararvi un posto” (Gv 14, 2). Vorremmo pensare alla morte non, come rispose Piero Angela a chi gli chiedeva come la vedesse, una inevitabile “grande scocciatura” da posporre il più possibile, nè semplicemente come una caduta nel nulla, che cancellerebbe il nostro io, spentosi come una scintilla fugacissima. Non dovrebbe bastarci neppure soltanto la consolazione di un’incerta e rassegnata speranza che “di là ci sia qualcosa”. Vorremmo piuttosto vederla come una completa assimilazione al Signore Gesù, un diventare partecipi della sua morte per partecipare in pieno a quella vita che già ci ha dato e già abbiamo gustato nella missione cui ci ha inviati. Frutti e potature sperimentati lungo il nostro cammino ci stanno preparando alla consegna totale di noi stessi al Padre, insieme all’Amico che ci ha chiamato per condividere tutto con noi, anche l’ultimo passo terreno: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”(Lc 23, 46).

Certo, il modo di guardare alla morte e il credere la resurrezione sono una sfida alla nostra fede, e rileggendo nei Vangeli i racconti delle primissime esperienze di fede nella resurrezione, ci siamo anche detti che dubbi, equivoci, resistenze di quei primi discepoli ci aiutano a non stupirci dei nostri dubbi e dei nostri passaggi nel “deserto”.

Come ho accennato, sono le donne le prime a intravvedere l’incredibile, l’indicibile, e senza dubbio la loro testimonianza ha aperto la strada, anche se alcuni non vi hanno dato peso. Ci siamo chiesti: nei nostri 50 anni di vita celibe, quale spazio hanno avuto le donne? Siamo semplicemente scapoli a vita, tenuti lontani da un amore che Dio ha donato fin dall’inizio all’essere umano perché uomo e donna insieme siano immagine sua? O persone che sanno amare, accogliere, camminare insieme come ha fatto il Maestro?

Infine, a darci forza per accogliere dalla mano del Padre il tempo che ancora ci resta, abbiamo ricordato un capolavoro della delicatezza di Gesù, le tre domande che ha rivolto a Pietro dopo che si era tuffato in acqua per raggiungerlo sulla riva del lago, dove li attendeva. Dopo aver gustato insieme il pane e il pesce, arriva la sua domanda, che sfonda un muro di sofferenza: “Mi vuoi bene?”. Gesù aiuta Pietro a non rimanere invischiato nella vergogna del suo fallimento, e nella sfiducia in se stesso; lo mette alle strette costringendolo a ripetere per tre volte: “Sì, ti amo, anche se ti ho rinnegato tre volte; la mia debolezza non cancella l’amore, lo rende più umile, più indispensabile, più consapevole. Il mio amore è tuo dono!”

Così il Signore ha detto anche a ciascuno di noi: non fare troppi bilanci, fidati di nuovo: “Vieni e seguimi… Sì, proprio adesso, dopo cinquant’anni…”
Infine, ci siamo chiesti se nella nostra posizione di “veterani” abbiamo qualche raccomandazione da offrire all’Istituto di cui siamo parte da tanti anni e che è la nostra “famiglia”.

Ci proponiamo di non essere brontoloni elogiatori del passato, e di ricordare piuttosto chi erano e come erano gli anziani che durante la nostra giovinezza ci hanno aiutato. Sono stati per noi modelli non perché idealizzavano il passato, ma perché erano criticamente aperti a vivere in pieno il presente… come Paolo Noè, Cesare Colombo, Angelo Gianola, Luigi Pinos, Enzo Corba… – tanto per ricordare qualche nome fra i molti.

Onestamente, abbiamo riconosciuto che ci sembrano poco chiari i recenti cambiamenti strutturali nell’Istituto, e ci chiediamo come possano aiutare efficacemente a realizzare le buone intenzioni di chi le ha volute. Ma non ha senso criticare ora: per quanto sta in noi, faremo il possibile perché tutto funzioni bene – anzi meglio.

Per concludere, però, ci permettiamo due raccomandazioni fraterne.

La prima è presto detta: proponiamoci e pratichiamo una sobrietà che qualche volta sembra un po’ dimenticata.

La seconda è nata da una nostra chiacchierata “a ruota libera”: considerando che il processo di internazionalizzazione dell’Istituto sta avvenendo in modo molto rapido e investe tutte le nostre presenze missionarie, attività, ecc. quasi senza accorgercene abbiamo avviato un paragone fra stili, metodi, idee e orientamenti “degli italiani” e “dei non italiani”. Per fortuna ci siamo fermati subito, riconoscendo che si trattava di una “scivolata” in categorizzazioni che non hanno senso. Ma proprio la nostra “scivolata” in analisi superficiali e generalizzazioni infondate ci ha suggerito di presentare una benevola raccomandazione a tutti i confratelli: stiamo attenti a non ragionare a base di paragoni generici e superficiali. Non esistono i “non italiani”, neppure esistono i “non africani” o i “non asiatici, “non americani”, ecc. come categorie. Certo ci sono culture diverse, ma le diversità si colgono, capiscono, e gestiscono fruttuosamente solo se non prendiamo la scorciatoia dei luoghi comuni, delle osservazioni superficiali, delle classificazioni…

Mi trovo a Monza da un anno, e ancora mi sento attirato dal Bangladesh come da una calamita, eppure mi riempie di gioia essere qui, nella nostra comunità “multiculturale”, dove almeno un poco partecipo al cammino di tanti giovani diversi, tenuti insieme da quell’amicizia che Gesù ha offerto a noi tanti anni fa, facendocela gustare fino ad oggi, e che ora offre anche a loro. E se qualcuno di noi fa notare con rammarico che: “Questi giovani sono in buon numero, ma… non c’è neppure un italiano…”, non è perché gli italiani facevano o farebbero meglio, ma perché la chiesa italiana che ci ha dato vita e ci ha sostenuto con generosità per oltre un secolo e mezzo sembra ora diventata sterile; e questo certo è motivo di rammarico. Ma non di scoraggiamento. Un PIME come è quello di oggi, cent’anni fa (e anche molto più recentemente, quindici anni fa) nessuno lo avrebbe immaginato. Ma c’è, e di questo ringraziamo il Signore, che ci chiama “amici”.

E chissà, forse c’è un vantaggio anche nella crisi: se gli italiani sono pochi, saremo più disposti ad accogliere chi proviene da altre terre, e il nostro doveroso e necessario appello alle tradizioni dell’Istituto sarà libero da atteggiamenti saccenti e da spirito di superiorità.

P. Franco Cagnasso – Monza, 7 luglio 2023

Cinquant’anni di… (1)

Come ricordare cinquant’anni di vita da prete missionario? Qualcuno non fa attenzione agli anniversari, qualcun altro organizza feste e festicciole qua e là rivisitando luoghi e persone dove è stato e con cui ha vissuto. Altri organizzano un pellegrinaggio… Tutti ricordano i “coscritti” che, ordinati preti insieme a loro, prima di loro sono partiti per l’ultimo viaggio, e quelli che, cammin facendo, hanno scelto altre strade.

Quest’anno Alberto, missionario in Guinea Bissau, Carlo, Gianantonio e Quirico, missionari in Bangladesh, per celebrare il loro giubileo di preti del PIME hanno scelto di trascorrere quattro giorni insieme, nella casa natale di Papa Giovanni XXIII a Sotto il Monte; e hanno chiesto a me – cinquantenne consolidato, che sta per arrivare al cinquantaquattresimo anno di ordinazione – di organizzare in queste giornate un poco di condivisione, e di preghiera.

Poiché i festeggiati sono “evangelizzatori” per vocazione, il punto di riferimento non poteva essere che il Vangelo, perciò ho proposto di “scorrazzare” insieme attorno ad alcune sue pagine: Giovanni capitoli 13-17 e poi i racconti sulla risurrezione.

Sì, proprio “scorrazzare”: non una lettura ordinata e sistematica, aiutati da un’accurata esegesi e con la preoccupazione di aderire rigorosamente al testo, ma una lettura “libera”, con riferimenti alla nostra vita, variazioni “fuori tema”, intuizioni… lasciando spazio alla memoria, e anche alla fantasia…

Ci siamo ritrovati all’Ultima Cena, quando Gesù lava i piedi ai suoi, lasciando un esempio perché lo facciano anche loro, l’uno all’altro, in sua memoria. Seguono le confidenze di Gesù, particolarmente intense e significative perché sono le ultime, prima della morte ormai vicinissima. Poi abbiamo dato uno sguardo alle pagine che, dopo la passione, descrivono lo spuntare della fede nella risurrezione, con i primi “deliranti” messaggi delle donne e poi le incertezze dei discepoli sconvolti.

Abbiamo identificato alcuni temi per chiederci come li abbiamo sentiti, capiti, vissuti nei nostri 254 anni di vita missionaria. Sì, duecento cinquanta quattro: cinquanta ciascuno i “giubilanti” e cinquantaquattro io. Abbiamo “sorvolato” con la memoria questo tempo che credevamo sarebbe stato molto lungo, e invece è trascorso senza che ce ne accorgessimo…

Ci siamo chiesti come abbiamo vissuto alcune delle cose che Gesù ha comunicato come testamento spirituale ai suoi discepoli. Era consapevole che il momento di “passare da questo mondo al Padre” era arrivato, e – guardando avanti – era affettuosamente preoccupato per loro. Era realisticamente convinto che entro pochissimo tempo il “tornado” dell’angoscia avrebbe attanagliato lui stesso, il Maestro, e la spaventosa valanga del suo arresto, della condanna a morte e dell’immediata, feroce esecuzione avrebbe disperso e distrutto ogni coraggio e ogni speranza del suo piccolo gruppo di discepoli. La loro fiducia nel Maestro era stata assoluta e lo era ancora – anche se venata da preoccupazioni oscure, dovute agli avvenimenti più recenti e alla sua ostinata volontà di andare a Gerusalemme con tutti i rischi che ciò comportava; la loro fiducia aveva sognato un regno ormai vicino, e magari una posizione di favore al fianco di questo “Rabbi” così straordinario. Ma nelle poche, tragiche ore finali ci fu per loro il crollo totale di ogni speranza, in lui e in se stessi (cfr. Lc 24, 19-35).

E poi… la scossa elettrica di una notizia incredibile. Il buon senso che suggeriva di non ascoltare qualche donnetta troppo addolorata per capire quello che diceva; dopo quanto era successo, nessuno se la sentiva di prendere sul serio l’inimmaginabile… come prestare attenzione al desiderio assurdo che potesse essere vera la risurrezione di tutto ciò che – sfasciato sull’agonia della croce – era finito nel sepolcro?

Abbiamo organizzato il nostro “scorrazzare” tra vangeli e vita cercando di porre le parole di Gesù accanto agli eventi che hanno originato e sostenuto la nostra fede e la nostra vocazione e tutto ciò che ne è seguito – appunto – nei nostri 50 anni di preti missionari.

Il primo passo è stato una condivisione “a ruota libera”, ovviamente molto sintetica, di ciò che abbiamo vissuto: dove, con quali incarichi, quali difficoltà e quali soddisfazioni principali.

Poi abbiamo scelto un pensiero che ci ha toccato, suscitando il desiderio di sentirlo indirizzare direttamente a noi: Gesù esprime la sua vicinanza ai discepoli, il suo amore e la sua cura, in vari modi e con varie espressioni; ci siamo soffermati su questa: “Vi ho chiamato amici” (Gv 15, 15).

L’amicizia è una realtà viva, che va alimentata, e che ha come caratteristiche la scelta e la condivisione fiduciosa. Gesù lo dice, sottolineando che è stato proprio lui a scegliere questi amici, e che a loro ha confidato il meglio di sé: la sua conoscenza e la sua intimità con il Padre. Non manda i suoi futuri missionari “fino ai confini del mondo” con un bagaglio di idee e teorie da diffondere, o con un progetto di “conquista” ma con una comunione di pensieri e sentimenti maturati insieme in quegli anni straordinari; pensieri e sentimenti che probabilmente i discepoli non avevano nemmeno immaginato, quando avevano accolto il suo invito a seguirlo. Gesù non era un legislatore, un politico, un organizzatore, ma un animatore; ha animato i suoi partecipando al loro desiderio di incontrare il Regno di Dio, e facendoli partecipi del suo sentire: la pena per le folle sbandate, per la vedova che piange il figlio morto, la sua attenzione ai “lazzaro” di cui nessuno si accorge, il suo tocco sui lebbrosi tenuti a distanza da tutti, la sua gioia per le scelte del Padre che privilegia i piccoli, la sorpresa di trovare fede anche fuori dal “popolo eletto”; ma anche la sua reazione dura, tagliente contro l’ipocrisia che deforma ciò che c’è di più bello nella fede, che si prende gioco dei semplici e li opprime, che fa del Padre un despota… Gesù era appassionato per ciò che faceva e che insegnava, per le persone cui si rivolgeva, e come accadde ai discepoli di allora, la nostra esperienza di missione è stata indubbiamente un appassionarci per la gente diventata “nostra”, sapendo che questo ci rendeva intimi di Gesù, ed era anche una risposta a lui, che ci aveva scelti per essere suoi amici. La sua passione per loro passava, in un certo modo, attraverso di noi, e la nostra passione per loro si alimentava e aveva come modello la sua.

Altri passi ci hanno poi orientato. Fra tutti, l’identità che Gesù dichiara di se stesso, sottolineando che sta in mezzo a noi “come uno che serve”; e anche la descrizione di se stesso come una vite a cui i tralci devono rimanere uniti per avere vita e per portare frutti. Dunque, amicizia come scelta di Gesù che ci chiama e condivide con noi, e amicizia come fedeltà nostra a Lui, ricevendo pienezza di vita e di frutti. Questa immagine, evoca anche la potatura, e pure questo è stato uno spunto per riflettere sulla nostra esperienza di missionari ormai “stagionati”.

Per farla breve, abbiamo dato tempo di riflessione e poi di condivisione, a ciascuno di questi temi: “cinquant’anni di amicizia con Gesù”, “cinquant’anni di servizio come Gesù”, e “cinquant’anni di frutti e di potature.”
(continua)

P. Franco Cagnasso

Risveglio?

Caro Gigi,
chissà se, dopo i numerosi tentativi di vedere se finalmente è arrivata una “scheggia” nuova, proverai ancora una volta a entrare nel blog “Schegge di Bengala” e troverai – con tua grande sorpresa – questa mia lettera per te? La sto preparando proprio perché mi hai chiesto: perché non scrivi più? Eccomi qua, e chissà se ci sarà un risveglio del sottoscritto, e una ripresa della produzione di schegge? Non lo so neppure io…

Anzitutto, voglio confermarti che la tua visita a Sotto il Monte, il 19 giugno scorso, insieme a tua moglie e a tuo cugino, ha riempito di gioia me, come pure i missionari “cinquantenni” con i quali mi ero trovato là per un appuntamento speciale. Ero stato invitato a organizzare tre giorni di preghiera, meditazione, condivisione per quattro missionari del PIME arrivati al “giubileo” della loro ordinazione sacerdotale: Carlo, Gianantonio e Quirico hanno vissuto la loro missione in Bangladesh, Alberto in Guinea Bissau. Per me, gli anni trascorsi dall’ordinazione sono ormai cinquanta quattro, e il giubileo è ormai alle spalle; per questo mi avevano coinvolto con il ruolo di “esperto” nella stagionatura del servizio presbiterale missionario…

Non ricordo esattamente le date, ma tu sei più o meno loro coetaneo, e la tua missione è stata nelle Filippine, da dove il dittatore Marcos ti cacciò poi come un pericoloso sovversivo. Vidi la tua sofferenza e in qualche modo ne fui partecipe. In seguito, ho avuto l’occasione di farti una lunga intervista, pubblicata da Mondo e Missione, in cui mi hai raccontato come avevi vissuto – insieme ad altri – il tuo impegno di prete in una vastissima parrocchia della grande Manila. Ne è nato un articolo di cui sono fiero ancora oggi. No, non eri un sovversivo, eri una persona che cercava con tenacia di essere – con intelligenza e coraggio – accanto a tante persone dimenticate, sfruttate, disprezzate.

L’espulsione dalle Filippine era stata per te un’esperienza lacerante, aggravata anche dall’incomprensione di qualcuno che affrettatamente attribuiva l’accaduto alle tue “imprudenze”, a ingenuità, a radicalismo giovanile: “Te la sei cercata, non potevi stare attento?”

Non conosco i singoli passaggi degli avvenimenti che ne sono seguiti. So che hai ancora “lavorato” con e per i Filippini anche fuori da quel Paese che amavi, approdando poi nelle Haway, dove hai dato tutto te stesso per il riscatto e per la formazione di giovani costretti ad affrontare tante difficoltà di diverso genere. Tu e tua moglie li avete accompagnati ad amare lo stare insieme, il seguire i ritmi della natura coltivando campi e orti, l’avere fiducia nella vita… L’impresa è cresciuta, e bene, ma recentemente tu l’hai lasciata per trasferirti negli Stati Uniti, da pensionato. Perché? Perché non hai voluto mettere radici nella “tua” opera, appropriartene. Sapersi ritirare al momento giusto è un’arte che pochi hanno.

Ci eravamo tenuti in contatto sporadicamente, e avevi pure commentato qualche mia “scheggia” che trovavi interessante. L’altro giorno, a Sotto il Monte, abbiamo avuto la gioia di vederci, tornare sul passato, farci risate cristalline, sentire che dopo tanto tempo sembrava di esserci lasciati soltanto ieri: il discorso riprendeva senza difficoltà ed era profonda l’emozione di sentirsi vicini nella fede, nell’impegno, nella serenità dell’età ormai avanzata – nonostante i percorsi differenti che abbiamo seguito. Differenti sì, ma con un’anima comune, con speranze e punti di riferimento condivisi.

Caro Gigi, non ti arrabbiare: iniziando non volevo scrivere di te, ma a te; poi le due cose si sono intrecciate e questo non mi dispiace perché anche la prossima scheggia, se ci sarà, possa essere capita da eventuali lettori.

Forse questa non è una “scheggia di Bengala”, ma certamente è una “scheggia di amicizia”.

Grazie Gigi, e un abbraccio!

P. Franco Cagnasso

Monza, 26 giugno 2023

Sconfinamento

Il 7 febbraio scorso, 60 studenti e 4 “formatori” (più il sottoscritto) del Seminario Teologico Internazionale del PIME, con sede a Monza, sono andati con mezzi vari a Crema per partecipare, nella cattedrale, ad una veglia di preghiera per il Myanmar. È seguita la celebrazione eucaristica, nel ricordo del Beato Alfredo Cremonesi, missionario del PIME ucciso in Birmania settanta anni fa, il 7 febbraio 1953.

La Birmania (oggi Myanmar) non è il Bangladesh, ma spero che se qualcuno entrerà nel “blog” accetterà questo “sconfinamento” dal Bangladesh. La scheggia ha due parti: un profilo biografico del mio confratello beato, seguito dal testo dell’omelia che ho pronunciato la sera del 7 febbraio, a Crema.

Cenni biografici da: Piero Gheddo: Alfredo Cremonesi, un martire per il nostro tempo. EMI, Bologna, 2003

1902 – 16 maggio, Alfredo nasce a Ripalta Guerina (Crema), primo di 6 figli maschi e una femmina – A 11 anni entra nel Seminario diocesano di Crema. Durante gli anni di seminario attraversa un lungo periodo di malattia e grave deperimento. Nel 1921, contro ogni previsione, si riprende bene, e decide di farsi missionario; “forse anche martire” scrive.

1922 – Alfredo è accolto a Milano nel Seminario Lombardo per le Missioni estere, che pochi anni dopo, fondendosi con il “gemello” Seminario Romano per le Missioni estere, prese il nome di PIME. È al terzo anno di teologia.

La famiglia era in condizioni economiche buone, ma fu rovinata e ridotta quasi alla fame dai fascisti, che compirono una “spedizione punitiva” (1927) contro il papà, attivo e generoso membro dell’Azione Cattolica e difensore della democrazia; uomo intelligente, molto affiatato con il figlio. Il giovane Alfredo scrive bene e pubblica: racconti, versi, libri, commedie a tematica missionaria. Esprime il suo amore alla missione scrivendo; solo in un secondo momento ha pensato a sé come missionario.

1924 – Alfredo viene ordinato presbitero nella chiesa S. Francesco Saverio (Milano); per un anno insegna al seminario minore dell’istituto, a Genova Nervi.

1925 – 5 ottobre, riceve il crocifisso di partenza; s’imbarca a Napoli e arriva in Birmania dopo 25 giorni di viaggio. Vi resterà ininterrottamente per 28 anni.

1953 – 7 febbraio – Viene ucciso da militari birmani a Donokù (diocesi di Toungoo) mentre cerca di proteggere un capovillaggio cristiano accusato di aver appoggiato i ribelli.

La vita missionaria

La decisione di farsi missionario era stata accompagnata dal proposito fermissimo di non tornare e non voltarsi indietro, per appartenere completamente alla missione, senza distrazioni e senza rimpianti, ma… poco dopo la partenza scrive: “Ho distrutto il mio passato… e allora perché oggi non sogno che il passato? (…) mi dà fastidio… ma non ne posso fare a meno. Cambiare rotta al mio pensiero ora è pretendere di deviare il Po, quando la piena lo rende turgido…

Arriva a Toungoo (centro-sud del Myanmar) il 10 novembre 1925. Molto dotato e convinto, in otto mesi impara un poco di varie lingue locali, mentre si guarda attorno e scrive i primi commenti: “Posti incantevoli… gente pulita e ben vestita”; apprezza pure le varie opere delle missioni. Scrive: “questi Cariani e questi Birmani esercitano su di me un fascino meraviglioso. Mi piacciono, mi piacciono, mi piacciono…”

Molta fantasia e progetti… chiede alla FIAT un aereo in regalo (senza ottenerlo…), ha passione per il teatro… “ho la testa che mi sembra un vulcano”. Rammaricato perché i Birmani non si convertono, avvia una “crociata di preghiere” per la conversione dei Birmani per mezzo dei Cariani. uno dei gruppi etnici del Paese…”. Pensando allo sviluppo sociale e al miglioramento delle loro condizioni di vita, avvia fra i Cariani una lega di mutuo soccorso; dà importanza all’istruzione, progetta una scuola tecnica, varie scuole…

Dopo pochi mesi inizia le visite sui monti, anche in luoghi mai raggiunti dai missionari. Viaggia molto: a piedi, su sentieri scoscesi, restando fuori casa ogni volta per un mese e più; montagne ripide, caldo, zanzare – e malaria, la “tortura” che lo prostra fisicamente… Forzatamente medico di se stesso, si cura con pesanti e dolorose iniezioni di chinino. Vive momenti di rischio sia per i malanni, sia per le difficoltà dei viaggi.

A un benefattore scrive: “quasi un mese fra i villaggi, e devo ripartire domani… Però il Signore sembra benedire queste mie fatiche, perché anche in questo ultimo giro ho avuto l’immensa fortuna di assicurare tre nuovi villaggi alla fede. Ma Gesù è grande, Gesù è buono!”.

Stima e simpatia per la gente. “Guarda a questi meravigliosi cristiani. Battezzati da solo due o tre anni ma molto più ferventi dei nostri cattolici… Anche i catechisti… vita esemplare che mostra la bellezza della nostra fede, tengono il popolo unito, risolvono i loro problemi, conquistano nuovi pagani alla fede…”

Alfredo viene trasferito più volte, anche in posti dove deve iniziare da zero, e spesso esprime il desiderio di avere qualcuno che risieda e lavori con lui, per condividere idee, fatiche, responsabilità, ecc. Ma due anni di esperienza con un missionario di carattere e comportamenti molto difficili e imprevedibili, con cui nessuno riusciva a stare, lo induce scrivere al Vescovo e chiedere di essere trasferito; Alfredo conclude però che, se ciò significa che il Vescovo manderà un altro, il quale a sua volta “soffrirà come me o anche più di me” è disposto a restare e fare del suo meglio.

Nella tragedia della Birmania

1937 – inizia un lungo e tormentatissimo processo di autonomia e indipendenza della Birmania, con ricerca dell’identità nazionale di un paese che è colonia della Gran Bretagna, formato da vari gruppi etnici spesso in lotta, e da varie religioni, con la presenza influente dei britannici, e di immigrati cinesi e indiani.

1939 – Seconda guerra mondiale: dal 1940 gli Inglesi mandano in campo di concentramento molti missionari italiani, in quanto cittadini di una nazione nemica… poi distruggono ciò che può servire al nemico e lasciano la Birmania ai Giapponesi che conquistano tutto. Alla fine del 1943, l’Italia cambia alleanze e diventa nemica dei Giapponesi, che di conseguenza se la prendono con i missionari italiani; poi a loro volta distruggono tutto e si ritirano in Thailandia, per tornare in Giappone. Si formano in Birmania due partiti comunisti rivali, mentre truppe del partito nazionalista cinese, sconfitto dai comunisti di Mao, si rifugiano in Birmania occupandone alcune regioni del nord – dove si trovano ancora oggi in situazione non ufficiale di semi autonomia.

1948-1952 – Rivolta dei Cariani, il gruppo etnico più sviluppato e coinvolto in politica, contro il governo nazionale che si sta formando. La ribellione è appoggiata da molti cristiani battisti, perciò comunemente si pensa che tutti i cristiani siano ribelli, anche i cattolici che in realtà da tempo sono in conflitto con i battisti, e per lo più non appoggiano la ribellione. I missionari fanno quello che possono per portare pace, soccorrere le vittime della violenza, calmare gli animi, salvare le opere delle missioni.

Le guerriglie dei gruppi etnici contro il governo, e a volte fra loro, continuano, con momenti più o meno intensi, fino alla vittoria elettorale di Aung San Suu Kyhi, pochi anni fa. Riprendono con grande intensità coinvolgendo sia i birmani sia i tribali, con il colpo di stato militare del febbraio 2022.

OMELIA

Letture per la celebrazione Eucaristica: Is 52,7-10 – Gv 10, 1-16

“Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annunzia la pace, del messaggero di buone notizie che annunzia la salvezza…” (Is. 52, 7). Con queste parole inizia la prima lettura che abbiamo ascoltato questa sera, tratta dal profeta Isaia. È un’immagine poetica simpatica, ma a dire il vero i piedi del nostro missionario certamente non erano belli. P. Alfredo non si lamentava mai delle difficoltà, però le raccontava nelle numerose lettere e negli articoli che scriveva ai suoi famigliari, agli amici, a pubblicazioni missionarie. Descriveva, tra l’altro, la sua vita di viaggiatore ed esploratore su e giù per montagne ripide, coperte da foreste, senza strade e spesso nemmeno sentieri… sempre a piedi, perché il cavallo costava troppo, e senza mai trovare un paio di scarpe adatte, costretto ad usare solo scarpe di pezza che non proteggevano da sassi e spine, e si laceravano subito lasciandolo a piedi nudi, quindi doloranti, pieni di escoriazioni e di ferite. Quando finalmente la famiglia riesce a mandargli un paio di scarpe da montagna di buona qualità, è soddisfatto e grato… ma gli durano meno di un anno.

I suoi viaggi, spesso in luoghi del tutto inesplorati, erano a volte rischiosi… Alfredo narra che una volta lui e la guida persero l’orientamento e, dopo affannosi tentativi, si resero conto di essersi del tutto smarriti: il buio sarebbe presto calato trovandoli soli in una foresta montagnosa, impervia e piena di pericoli. Li salvò… il canto di un gallo lontano. “Se c’è un gallo, ci sarà pure qualche essere umano” pensarono, dirigendosi subito nella direzione da cui era venuto il “chicchirichì”; e arrivarono a un piccolo villaggio che li ospitò.

Eppure è giusto dire che i piedi di Alfredo erano belli, perché lo portavano ad annunciare “la buona notizia” e “la salvezza” a tante, tantissime persone. Molti lo accoglievano con gioia, lo ascoltavano volentieri, si disponevano a conoscere Gesù e il Vangelo. Per questo non smetteva di viaggiare, e non si lamentava, anzi sognava sempre di fare di più… Già prima di partire per la missione aveva scritto: “Io desidero un apostolato pieno di sangue e di sacrifici, colmo di fiele e di delusione, senza l’egoistica soddisfazione personale: e laggiù è il mio campo”. Diceva con entusiasmo che voleva affrontare qualunque tipo di sacrificio e fatica per arrivare ai più lontani. E davvero è stato così.

I sacrifici non erano causati soltanto dai viaggi. Era sempre a corto di soldi, con debiti, scuole, cappelle da costruire, stipendi ai catechisti, che stimava molto. Viveva una grande povertà personale: abiti, cibo spesso scarso e poco nutriente (riso bollito, con erba della foresta, scriveva), insieme a malattie che doveva curare da solo, come la malaria che lo perseguitava, e ad esaurimenti di forze che più volte lo portarono vicino alla morte, se non lo avessero salvato le suore… più con le preghiere che con le medicine – diceva.

A tutto questo si aggiunsero la guerra mondiale, che in Birmania fece tantissimi danni, e poi la guerra civile, che fece soffrire tantissimi poveri, e costrinse lui a lasciare la sede della sua missione provocandogli grande dolore e smarrimento.

Nel 1950 infatti, la sua missione venne occupata dai ribelli; due missionari, Mario Vergara e Pietro Galastri, erano già stati uccisi; Alfredo era nella lista… Molti decisero di rifugiarsi a Toungoo, e p. Alfredo andò con loro… ma fu una decisione di cui non si diede pace.

Scrive al suo Vescovo: “Lei non può davvero immaginare come sia aumentata in me l’ansia, la brama, l’agonia di ritornare presto al mio villaggio per raccogliere la mia povera gente dispersa (…). È una tale ansia che toglie tutto il gusto delle altre cose. Mi pare di sentire fisicamente il dolore della mia povera gente e il loro cruccio e mi rimprovero per averla abbandonata. Quindi mi può perdonare se magari penso di fare delle imprudenze…”

E alla zia suora: “Io sono qui, profugo senza più nulla, alla mercè della carità di tutti; e i miei (cioè coloro che erano rifugiati come lui) sono là nell’accampamento che guardano e sperano in me come al loro unico aiuto. Come faremo? Come vivremo oggi, domani e poi? Come potremo ricominciare la nostra vita? Penso ai molti della mia povera gente che sono ancora nelle mani dei ribelli. Ho bisogno di tante preghiere perché possa perseverare nella mia vocazione, perché il pensiero di dover ricominciare tutto daccapo, il pensiero di quel che mi aspetta nel prossimo avvenire, del come si troveranno i miei poveri cristiani, di come farò a far fronte a una situazione così disperata mi dà le vertigini. E se non fosse la fiducia nella provvidenza e nella bontà di Dio, si cederebbe subito alla tentazione che si fa ogni giorno più forte, di piantar qui tutto e di andare dove queste prove e preoccupazioni non ci sono più. È difficile la vita eroica… Mi affido alle tue preghiere e a quelle dei bambini. Il Signore ascolta tanto volentieri le preghiere dei bambini.”

Difficoltà, privazioni, sofferenze, eppure Alfredo è conosciuto come un uomo sorridente, sereno, di buona compagnia. Dove trovava la forza, le motivazioni per proseguire, e la serenità che lo accompagnava?

Come P. Paolo Manna, Alfredo pensa che il successo della missione sia in proporzione ai sacrifici che si fanno. Se c’è da soffrire, ci saranno risultati, e quindi dobbiamo andare avanti con fiducia, senza tirarci indietro. Gli è familiare anche il pensiero della morte, in un orizzonte di fede. Nel 1938 scrive alla zia suor Gemma: “Adesso che ho visto il viso della morte tante volte durante l’invasione giapponese e durante questi tre mesi di malattia, non ho più nessun attaccamento alla terra e sento una gran voglia di consumarmi tutto e presto, perché venga presto il Regno del S. Cuore in queste terre. (…) Quando il Signore ispira questi sentimenti, non c’è più nulla che faccia paura. Tutto è bello, anche il dolore che ci prepara una corona più bella in paradiso” (…) Il peggio che mi possa capitare è di morire, e questo non è il peggio. Se anche avessi a morire sul campo è una cosa alla quale mi preparo da un pezzo…”

La sua forza perseverante veniva senza dubbio dall’amore a Gesù, che è per lui veramente “la porta” di cui parla il Vangelo secondo Giovanni, ascoltato poco fa. Alfredo passa attraverso quella porta per raccogliere le pecore, come fa il pastore buono (e non il mercenario!) – e come il pastore buono, giunge a dare la vita per le sue pecore. Proprio così: entra con Gesù, per Gesù, attraverso Gesù; e come Gesù dà la vita per il popolo a cui è stato mandato.

Il suo rapporto con Gesù e il suo amore per la gente, intrecciandosi e crescendo insieme, sostengono e motivano la sua preghiera e il suo servizio instancabile; allo stesso tempo, pregando e servendo il suo prossimo Alfredo cresce nell’intimità con Gesù e nella sua dedizione appassionata.

Agli inizi della sua missione, parroco a Yedashè e procuratore delle missioni affidate al PIME, mentre si ambienta scrive a p. Manna: “Una cosa sola ho visto chiaramente, cioè l’impossibilità di fare qualcosa senza una pioggia straordinaria di grazie.” Si mette d’accordo con un’associazione di Torino che impegna 25 persone a pregare per lui; appena ne viene informato…si sente meglio: “Subito ne ho provato in me stesso effetti prodigiosi. Un ardore di fede, di confidenza, di amore mai provato finora, un desiderio di mortificazione nuovo, un desiderio insaziabile di trovarmi davanti a Gesù in preghiera.”

Corrisponde frequentemente con Agnese, suora di clausura, alla quale nel 1937 scrive: “Ho sempre avuto un desiderio immenso di vita solitaria e claustrale. Mi è sempre sembrato bello e sublime vivere una vita di preghiera, di meditazione, di silenzio e di ritiro (…) Mi ottenga da Gesù la grazia di una intensa vita interiore, in modo che anche in mezzo ad una vita necessariamente dissipata, io mi abitui a trovare nel mio cuore la mia cella serena e segreta dove solo Gesù è ammesso (…) È un aiuto necessario ed efficace per realizzare la mia santificazione.”

Da un certo momento, inizia a pregare anche di notte: riposa dalle 9 di sera fino a mezzanotte, poi va in chiesa a pregare per un’ora, per ritornare poi a dormire un’altra ora e mezza; e mezz’ora nel pomeriggio. Dice che non gli costa fatica, che in famiglia anche suo papà dormiva poco… ma sarà stata proprio una cosa facile e leggera?

Dunque tanta preghiera, tanta fiducia, tantissimi sacrifici, e tantissima ansia di raggiungere sempre più persone, raccogliendole nel “gregge” di Gesù.

Lessi per la prima volta la vita di p. Alfredo più di 10 anni fa. In questi giorni, mentre la rileggevo, sentivo che… stavamo diventando amici, ma allo stesso tempo si rinnovavano in me alcune perplessità: non sono forse cose belle, ma di altri tempi? Noi oggi non pensiamo alla missione in questo modo; quanto ai sacrifici, ci sembra proprio che nessuno li cerchi. Perciò ho deciso di fargli qualche domanda, per risolvere le mie perplessità che forse sono anche le vostre. Permettetemi di presentarvi questa immaginaria intervista.

P. Alfredo, tu parli sovente, anzi, tu desideri vita molto dura, prove, sofferenze e sacrifici… quasi quasi ci prendi gusto. È così? Non ti pare di esagerare al punto di sembrare masochista? Noi parliamo della fede cristiana come gioia… In questi ultimi decenni, ben due papi (Paolo VI e Francesco) hanno scritto encicliche sulla gioia!

Risposta. So che faticate ad accettare il nostro linguaggio e il nostro pensiero su queste cose. Anche oggi, quando vi viene consegnato il crocifisso per la partenza, leggete la preghiera di P. Mazzucconi in cui tra l’altro si dice: “beato il giorno in cui dovrò soffrire molto… più beato ancora quello del martirio.” Lascia che ti comunichi un mio dubbio: sì, lo dite, ma… ci credete?

Nel vangelo secondo Giovanni, Gesù ha detto che ci unisce a sé “perché la vostra gioia sia piena”: questo non lo dimentico! Dunque avete ragione voi, Gesù è venuto per salvarci dalla sofferenza, non per farci soffrire. Ma ha anche detto che il Figlio dell’uomo sarebbe stato insultato, umiliato, crocifisso e ucciso, suscitando le proteste di Pietro – e le nostre… Non solo, ma ha insegnato che per seguirlo bisogna prendere la croce e portarla, che bisogna perdere la propria vita per salvarla; e ci ha avvisato: “vi mando come pecore in mezzo a lupi…”. Vi sembra facile?

Allora, cerchiamo la gioia o i sacrifici? Non ci sono dubbi: la meta è la gioia, e la gioia piena. Sacrifici e sofferenze non sono lo scopo. Però, attenzione: non cercate le scorciatoie che non ci sono! Guardate a Gesù: è lui che dobbiamo seguire, e quanto più si ama, tanto più si è pronti al sacrificio per la persona amata. Nella fede, sappiamo che la morte non è la fine, ma l’inevitabile passaggio verso la vita piena, di felicità eterna. Questa fede ci fa accettare i sacrifici vissuti per gli altri, per amore, sicuri che questo amore ci dà gioia oggi, e ci riempirà di “gioia piena” domani. Io, pure in mezzo a tanti guai e sofferenze, ero un uomo – come dite voi – “realizzato”. Ho accettato e vissuto sacrifici molto grandi, non lo nego, a volte li ho anche desiderati, ma perché volevo raggiungere tanti, tantissimi, per presentare a queste persone, spesso cariche di sofferenze di ogni tipo, Gesù e la sua gioia, e per donare loro a Gesù che le ama!

Nei villaggi dove avevo predicato si diceva: “Eravamo sempre in guerra fra noi, i missionari ci hanno portato la pace”. Questo sì mi colmava di energie, e il fatto di aver sofferto per arrivare a questa pace, rendeva la gioia ancora più viva!!

È vero, p. Alfredo, pur facendo moltissimi sacrifici, a coloro che incontravi non davi l’impressione di essere una persona corrucciata e dura… Ma devo farti ancora una domanda.
Tu parli a volte dell’evangelizzazione come “conquista”, o scrivi che avevi “preso nella rete” quelli che accettavano l’invito ad ascoltare il vangelo. Sinceramente, queste parole ci disturbano, ci fanno venire in mente la Russia che conquista l’Ucraina, o una religione che ci prende in una rete e toglie la libertà, e tu sai che noi oggi vogliamo soprattutto la libertà. Come la mettiamo?

Risposta. Io ho accompagnato alla fede cristiana tanti, ma non facevo il “proselitismo” che Papa Francesco giustamente non vuole. Ricordi? Mons. Gobbato, ultimo vescovo del PIME a Taunggyi – che nella sua vita aveva battezzato tantissime persone – ha confidato una volta proprio a te che tutte le mattine pregava il Signore di tenerlo lontano dal proselitismo. Io non annunciavo il vangelo per sentirmi forte, per attirare ad ogni costo, per aumentare di numero le “truppe” della chiesa, per mio interesse… Io pregavo e prego perché molte persone si aprano ad accogliere il dono dell’amore di Gesù, il dono più prezioso che un essere umano possa ricevere. Avevo l’ansia di annunciare perché il vangelo è la cosa più bella che avevo, e giorno dopo giorno vedevo che – nonostante la debolezza umana – il Vangelo migliora molto la vita delle persone, dei villaggi, dei popoli. Quanto ad “essere presi nella rete”, è un paragone che usa Gesù, per spiegare che il Regno dei Cieli è come una rete piena di pesci, buoni e cattivi, e non bisogna scandalizzarsi, perché non ci sono realtà soltanto buone o soltanto cattive. D’altra parte, la libertà che ha come obiettivo soltanto se stessa (= fare quello che si vuole e piace, senza altre considerazioni) porta a forme di prigionia vere, ben peggio di una rete per pesci. È meglio entrare consapevolmente nella “rete” della fede in Gesù che ci ama, oppure entrare senza accorgercene nelle reti del consumismo, dell’idolatria, delle mode, dei nazionalismi e delle ideologie, della droga, o semplicemente dell’egoismo, e del vuoto?

Vorrei concludere raccomandandovi: lasciatevi amare da Gesù, cercate di voler bene, fate bene, imparate a sacrificarvi per ciò che è bello e buono, e non abbiate paura: sarà il Signore a darvi la gioia.

Crema, 7 febbraio 2023 – Settantesimo anniversario della morte di P. Alfredo Cremonesi

p. Franco Cagnasso

Disabilità 2 – Madri, figli, padri

Rina dava l’impressione di non sorridere mai. Suo marito – un uomo istruito e serio – sapeva che avrebbe avuto diritto ad un sussidio governativo, ma si rifiutava ostinatamente di farne richiesta, perché ciò avrebbe significato dichiarare la disabilità di sua figlia Myriam, e lui non riusciva ad ammetterla. Tutte le spese relative a questa situazione ricadevano sulla famiglia, ma lui non voleva saperne di contribuire. La moglie aveva avuto in precedenza ben sette aborti spontanei e quando diede alla luce la figlia disabile, lui era caduto in depressione grave, e cercava disperatamente di cancellare questa realtà.

Rina per un certo tempo portò regolarmente Myriam ai programmi di Joyjoy, avvisando quando non poteva; poi, qualche mese fa, improvvisamente smise di accompagnarla, e non rispose alle nostre chiamate telefoniche; a volte rispondeva il marito, con modi bruschi e ostili, finché un giorno tagliò corto dicendo che Myriam non sarebbe mai più andata. Intuivamo come potesse essere l’atmosfera di famiglia, e decidemmo di non andare a trovarli.

Dopo parecchio tempo, finalmente fu Rina a farsi viva di nuovo. Telefonava, ansiosa e timorosa, dalla casa di una vicina: il marito le aveva sottratto il cellulare, la controllava e sospettava di lei qualunque cosa facesse. “Per favore – ci chiese – venite voi a parlargli”.

Lo trovammo in pessime condizioni, evidentemente avrebbe avuto bisogno di cure e sostegno, e la situazione ora stava diventando insopportabile anche per la moglie.

Ma ora Rina lavora con noi come aiutante, ed è proprio il marito che ogni mattina, puntualmente, con la sua motocicletta porta lei e la figlia al nostro Centro. Raramente dice una parola, una sola, ma per noi questo è un grande miglioramento, e anche Rina si sta rivelando una donna con buone risorse, e degna di fiducia: ci aiuta molto bene, parla, sorride…

Rehana fu la prima aiutante assunta da Joyjoy; fino ad allora, lavorando come domestica con uno stipendio miserabile, era sopravvissuta solo grazie all’aiuto di sua madre. Con noi lavorava sodo; inoltre si fece notare come la più fedele nel far praticare alla figlia Moni, sia a casa sia a Joyjoy, gli esercizi di cui aveva bisogno. E poiché Moni ha una paralisi cerebrale, questo produsse notevoli miglioramenti, e fu di incoraggiamento anche alle altre mamme. Solo parecchio più tardi venimmo a sapere che suo marito si drogava pesantemente e spesso la violentava. Gli proibimmo di venire alla nostra sede, ma disturbava con chiamate telefoniche o con irruzioni chiassose. Ne parlammo con lei e sua madre, poi tutte insieme. Le altre mamme dissero di non capire perché Rehana non si separasse da quell’uomo, visto che erano lei e la mamma a mandare avanti economicamente la famiglia. La ragione venne ad un certo punto espressa: Rehana e mamma avevano paura di essere giudicate come donne poco serie… Sarebbe facile liberarsi del disturbo dicendo a Rehana di non venire più, ma in questo modo i problemi per lei certo non si risolverebbero. Stiamo cercando qualche organizzazione che possa intervenire sul marito e aiutare lui a cambiare; speriamo di trovarlo…

Futuro. Nello scorso mese di agosto abbiamo avuto il primo incontro con le mamme, e qualche nonna, e da allora ci si vede regolarmente tutti i mesi, con la partecipazione media di venti persone. Si prende il tè insieme, si condivide, ci si diverte. Alle mamme piace giocare a bocce (gioco sconosciuto in Bangladesh). Il campo è stato preparato da alcuni volontari italiani venuti in visita qualche mese fa, mentre dal Giappone sono arrivate bocce soffici e di misura piccola, che vanno proprio bene per loro. Si appassionano al gioco fino a dimenticarsi dell’agenda dell’incontro…

Tre mamme sono state scelte per incontri di collaborazione con gli operatori di Joyjoy, subito prima di ogni incontro mensile. Noi speriamo che questo stia mettendo le basi per una futura autogestione dell’iniziativa, aumentando le loro responsabilità e facendoci noi gradualmente da parte. Le mamme si interrogano spesso del futuro dei loro figli, sono consapevoli della fragilità del progetto Joyjoy, e ne parlano. Speriamo che si sviluppino fra tutte senso di appartenenza e di solidarietà, per riuscire a superare le differenze che esistono fra noi.

P. Franco Cagnasso 1.1.23

Disabilità 1

Joyjoy ha già avuto l’onore di entrare in più di una scheggia. È un piccolo progetto che, a Dinajpur, si occupa di bambini con disabilità mentali di vario genere, e delle loro famiglie, a partire dalle mamme. Più volte ho accennato al fatto che, spesso, la presenza in famiglia di una persona con disabilità è motivo di emarginazione, pregiudizi negativi, vergogna, tentativi di nascondere questa realtà agli occhi degli estranei. Le eccezioni ci sono, e ho scritto anche di quelle, raccontando qualcosa della famiglia di Mim, e dell’affetto di cui questa bimba è circondata da parte di genitori e fratelli.

Ora prendo qualche spunto dal rapporto semestrale di Joyjoy, che Naomi, missionaria laica giapponese e perno di questo progetto, ha mandato in copia anche a me. Presento qualche breve profilo di bambini, e di mamme; i nomi sono di fantasia, persone ed eventi sono reali.

Figli, madri, nonne. La prima volta che andammo a trovare Rakhib, lo trovammo legato per una gamba ad un palo di sostegno della casa. I vicini lo chiamavano “pagol” – “pazzo”. Quando gli si metteva davanti il piatto, non prendeva il cibo con la mano, ma si tuffava con la bocca sul mucchio di riso; non sapeva usare il bagno, si sporcava continuando a camminare…

La mamma, non sopportando le violenze del marito drogato, si era rifugiata, con lui e un’altra figlia più piccola, presso un fratello maggiore, e guadagnava qualcosa facendo la domestica. Dava l’impressione di essere come indurita dalle difficoltà della vita, indifferente ai figli; quando le proponemmo di occuparci un poco di Rakhib ci disse: “Fate quello che volete, e come volete: io non posso fare altro che tenerlo legato.”

I primi tempi non furono facili per chi se ne occupava, ma pian piano gli insegnammo a portare il cibo alla bocca. È con noi da oltre cinque mesi e ha imparato a chiamarci con una singola parola, “ushai”, quando ha bisogno di andare in bagno.

La mamma non dice molto. Spesso lo lega al palo quando lo accompagniamo a casa. Ma recentemente ha comprato per lui camicie e calzoni nuovi, e ci ha fatto felici.

Bonna è stata accolta come una “eccezione” perché Joyjoy è per i bambini, ma Bonna è una giovane di 22 anni. Sette o otto anni fa, dopo uno stupro subito da un vicino, entrò in depressione; non parla e non sorride mai. Di famiglia indù povera, i suoi riuscirono a far condannare il suo aggressore, che è in prigione, e tornerà libero fra qualche anno.

L’abbiamo invitata a venire a Joyjoy per giocare con i bambini. Suo padre, molto anziano, le vuole bene, e nonostante abbia difficoltà a camminare, l’ha accompagnata personalmente. Con i bambini, Bonna riuscì a sorridere, e la invitammo a venire una volta la settimana a mangiare con noi. Ma non si fermava a lungo, e anche questo piccolo diversivo non basta certo a farla migliorare. Avrebbe bisogno di cure, anche mediche, appropriate. Rifiuta ogni medicina, ma mostra di accogliere volentieri le nostre visite, e noi continuiamo ad andarla a trovare regolarmente…

Ridoy è un ragazzo di 14 anni, affetto da paralisi cerebrale. Aveva 5 o 6 anni di età quando la mamma lo abbandonò e se ne andò di casa. Dopo due anni il padre si risposò, ma dopo un mese anche lui se ne andò, con la seconda moglie, facendo perdere le tracce. La nonna si prese cura di Ridoy, ma non poteva prestargli molta attenzione perché doveva lavorare presso due famiglie da mattino a sera. Ridoy rimaneva solo tutto il giorno; si distraeva sbirciando attraverso una fessura nel cancello di ferro…

La madre non si rifece viva, ma con qualche trucco riuscì a fare assegnare a sé il sussidio governativo dovuto a Ridoy per la disabilità, andando avanti a riscuoterlo e tenerlo per sé, per otto anni. Solo recentemente la nonna è riuscita ad ottenere che il sussidio venga mandato a lei. La nonna si era anche interessata di una vecchia sedia a rotelle che apparteneva a un bambino disabile morto qualche tempo prima, ed era riuscita a farsela dare. La sedia è l’unico attrezzo che in qualche modo risponde alle necessità di Ridoy.

Bisogna dire che è stata la mamma ad avvisarci della situazione di Ridoy, mentre la nonna ha accolto volentieri la nostra proposta di assistenza. Continua a prendersene cura, e speriamo che il nostro aiuto possa migliorare la situazione del ragazzo, e anche la sua.

Franco Cagnasso 31.12.22

Frastornato

Questa volta la “scheggia” che vi mando è la consueta lettera natalizia agli amici. Gli anni scorsi avevo preferito spedire personalmente a tutti queste lettere, e solo in seguito metterle “in pasto” ai lettori di internet… ma quest’anno penso proprio di non farcela a spedire una lettera per ciascuno a tutti o quasi, e quindi… mi arrendo e ricorro alla diffusione collettiva, confidando nella comprensione dei lettori.

Il titolo della scheggia esprime al meglio un aspetto della mia personale situazione in questo momento: “frastornato”.

Ma “Un aspetto” non significa “tutto”: se avete voglia, leggete, e fatevi un’opinione personale. Ho un grande “magone” per la lontananza di tanti che sono diventati lontani perché si trovano in Bangladesh, e allo stesso tempo mi sento gioiosamente sorpreso di trovarmi in questo mondo di giovani che mi entusiasmano, mi incuriosiscono, mi stimolano, mi commuovono… non solo, ma mi sopportano e mi preparano anche la minestra in brodo alla sera, perché sanno che per me è meglio…

Un capitolo inatteso, entusiasmante, eppure pieno di nostalgia. E il bello è che ringrazio Dio di questa sovrabbondanza di interessi, sentimenti, desideri, timori, facce e storie lontane cui penso spesso, e facce nuove che imparo ad amare. Curioso, vero?
Ed ecco la lettera.

Natale 2022

Carissimi Amici,
a tutti un cordiale saluto dal Seminario Teologico Internazionale del PIME, a Monza!

Qualche sera fa abbiamo concluso la giornata con un’ora di adorazione, che includeva un canto in italiano, uno in latino, uno in telegu (lingua dell’Andhra Pradesh, in India) e un altro in un idioma che non avevo mai sentito… la varietà parla da sé a proposito della comunità in cui ora risiedo, che conta 61 seminaristi africani, latino americani, asiatici; fra questi ultimi, dieci provenienti dal Bangladesh.

Anche il gruppo “direttivo” è nutrito e vario; siamo sei Padri e un Fratello: camerunesi, indiani, italiani, con esperienze di servizio missionario in Hong Kong, Bangladesh, Brasile, Cambogia.

Una Babele? No, piuttosto un ambiente decisamente stimolante per me, invitato qui per sostituire uno dei due missionari incaricati dell’accompagnamento spirituale, che si era ammalato. Sono approdato in un mondo pieno di vita, progetti, speranze, che – dopo il faticoso periodo di reclusione a causa del Covid – ha ripreso a pieno ritmo: studio, preghiera, vita comune e tante esperienze impegnative. Tutti, ogni settimana, escono per servizi di appoggio in parrocchie, oratori, centri di assistenza caritativa; frequentano le carceri, giovani con disabilità, anziani, e nel prossimo futuro – forse – un “Hospice”.

I nostri seminaristi si sono inseriti bene sul territorio di Monza e Milano, si fanno conoscere e stimare. Recentemente abbiamo invitato per una giornata fra noi i preti con i quali sono coinvolti. Erano una cinquantina, contenti di aiutare nella formazione, e grati per l’aiuto efficace che ricevono.

Certamente per me non tutto è facile, a partire dal problema di ricordare i nomi; mi incoraggiano la simpatia e la pazienza di chi mi sta attorno, e la soddisfazione di vedere che il fascino del Vangelo e l’appello ad annunciarlo – con precedenza ai poveri e ai sofferenti – rendono questi giovani i protagonisti della missione, mentre fino a pochi anni fa sembravano esserne soltanto “obiettivo”.

Dunque, il Bangladesh è ormai alle spalle? No: spero di ritornarvi, allo scadere del biennio di servizio che mi è stato chiesto; né io, né le persone che conosco in Bangladesh intendiamo “tagliare i ponti”.

I contatti sono tantissimi (troppi?) e le attività a cui mi dedicavo continuano bene, grazie a chi ha cordialmente accettato di sostituirmi: p. Francesco Rapacioli, per l’Ostello dei Marma a Bandarban e per il Centro Assistenza Ammalati di Rajshahi; p. Gian Paolo Gualzetti a Snehonir, nella “Casa della tenerezza” di Rajshahi; p. Brice Tambo per le borse di studio assegnate ad alcuni studenti, e nei rapporti diretti con persone che vivono in difficoltà a causa di malattie, vedovanza, disoccupazione… Ho promesso di appoggiarli in tutti i modi possibili, a partire dalla preghiera, e di mantenere i contatti con chi aiuta dall’Italia.

Penso vi faccia piacere ricevere anche qualche notizia sulle singole attività che conoscete. A Bandarban, MongYeo e il suo Consiglio hanno prolungato dalla classe ottava fino alla decima gli anni d’insegnamento nella scuola, così gli alunni possono rimanere alla “Hill Child Home” fino al livello del College senza dover andare in città, dove è difficile per le ragazze trovare un posto adeguato. E la piantagione di gomma? Oltre metà ha iniziato a produrre, e presto il raccolto aumenterà ancora.

A Snehonir sono entrati parecchi bambini e bambine nuovi, in parte conosciuti grazie al progetto realizzato con la Caritas e ora concluso. Sono per lo più non udenti, o non vedenti; con loro, l’età media degli oltre 40 membri della comunità si è abbassata, mentre la vivacità è aumentata! Amily, una delle ragazze grandi, ha iniziato un corso speciale per divenire insegnante alle scuole per infermiere, mentre Robi ha avviato una piccola attività commerciale per mantenersi.

Il Centro Assistenza Ammalati, con la sezione generale e quella per i pazienti di tubercolosi, da gennaio a giugno ha aiutato 782 ammalati – meno di alcuni anni fa, ma in crescita rispetto al periodo del Covid. È affiancato, a distanza, dal Centro Assistenza Ammalati collocato nella casa del PIME a Dhaka: piccolo, ma prezioso specialmente per i pazienti in situazioni più complesse.

E JoyJoy, l’iniziativa più recente? Ha preso il via a Dinajpur mentre stavo per trasferirmi in Italia, e procede molto bene. Segue oltre 30 bambini e bambine fra i cinque e gli undici anni con grave disabilità mentale, portando serenità e sollievo anche alle loro mamme, attivamente coinvolte. Perno di tutto è la missionaria laica giapponese Naomi Iwamoto, competente, entusiasta, instancabile, affiancata dal missionario laico dell’ALP Alberto Malinverno e da alcuni missionari del PIME.

Non nego che ho vissuto con fatica l’imprevisto “salto” dal Bangladesh all’Italia, e che mi sento ancora frastornato. Ma sono convinto di aver fatto la scelta che dovevo fare. La missione non ci appartiene, e il Maestro, che ci ha chiamati a collaborare con Lui, ha percorso prima di noi la strada del dono di sé senza troppi calcoli.

Lo ricordiamo specialmente nella festa del Natale che si avvicina e ci annuncia che la potenza di Dio si esprime e si manifesta nell’amore che fa spazio agli altri, con gioia e fiducia.

A tutti i miei auguri più sinceri

P. Franco Cagnasso

Paolo

P. Paolo Ciceri era nato in Brianza, e avrebbe compiuto 80 anni il 25 di questo mese di novembre 2022. Ordinato presbitero a Milano nel 1967, dopo 4 anni di servizio nell’arcidiocesi ( a cui rimase sempre vicino per amicizie e per il suo “stile ambrosiano” nella pastorale), era entrato nel PIME, che lo assegnò al Bangladesh. Vi rimase 46 anni, operando in diverse parrocchie che contribuì a fondare. Rientrato in Italia per motivi di salute, nel 2019 fu accolto a Lecco nella casa per missionari del PIME ammalati e anziani. È morto quasi improvvisamente il 9 novembre 2022 per emorragia epatica.

1978: ero ai miei primi passi in Bangladesh, alle prese con lo studio della lingua bengalese in una scuola a Barisal, nel sud, quando P. Giulio Schiavi mi invitò a trascorrere il periodo natalizio alla missione di cui era parroco, Beneedwar. La parrocchia copriva un’area molto estesa, con tanti villaggi; ad aiutarlo, c’erano p. Emanuele Meli, che conoscevo bene, e p. Paolo Ciceri, che incontrai per la prima volta. Fu un Natale ricco di cose nuove per me, cose che vidi con i miei occhi, che ascoltai da loro, che la gente tentò di dirmi – anche se capivo ancora poco.

Appena ho ricevuto la notizia della morte di P. Paolo mi è venuto alla mente un fatterello accaduto allora, che in seguito sentii raccontare più volte fra noi del PIME, spesso arricchito di particolari più o meno “storici”, sempre scherzosi. Eccolo: P. Paolo aveva un appuntamento in un villaggio piuttosto lontano e al di là del fiume, per amministrare alcuni battesimi. Ma nel giorno fissato una pioggia fittissima rese impraticabili le strade e gonfiò il fiume. “Paolo, non andare! – gli disse p. Giulio – con questa pioggia non si farà nulla”. Ma Paolo non poteva pensare di deludere quelli che lo aspettavano, e andò. Il fiume era davvero ingrossato, ma in qualche modo riuscì ad attraversarlo e a raggiungere il luogo dell’appuntamento, dove non trovò nessuno… Sicuri che con un tempo del genere il Padre non sarebbe venuto, tutti erano rimasti a casa loro. Al ritorno, inzuppato e stanco, Paolo vide p. Giulio che lo aspettava sulla soglia di casa; gli passò accanto per arrivare alla sua stanza, mormorando soltanto: “Niente commenti, per favore!”.

La storiella nella sua semplicità comunica una caratteristica nota a tutti quelli che conoscono P. Paolo: davanti a un suo compito, a un impegno preso, a qualcuno che aveva bisogno di lui, non era tipo da pensarci due volte, tanto meno da tirarsi indietro per evitare di bagnarsi, infangarsi, stancarsi.

Per preparare l’omelia durante la Messa celebrata per lui il giorno dopo la sua morte mi sono chiesto: c’è una parola che possa esprimere bene la sua personalità? Credo di averla trovata: era un uomo, “appassionato”. Poi ho pensato: verrà proclamato il vangelo delle Beatitudini; quale di esse lo descrive meglio? Ne ho scelte due: “Beati i misericordiosi” e “Beati i puri di cuore” (Mt 5, 7-8).

Era impulsivo, non per sventatezza, ma perché lasciava parlare il cuore, e metteva tutto sé stesso in ciò che decideva di fare, ritenendolo giusto e buono.

“Appassionato” certo, ma… di che cosa?

Della missione, che per lui aveva due punti fondamentali.

Il primo era la “compassione” (Beati i misericordiosi). Le persone che soffrono per povertà, malattia, ingiustizie, disagi lo attiravano come una calamita, e lui sentiva che comunque doveva fare qualcosa al più presto. Non aveva strategie complesse, non era un calcolatore, uno che prendesse tempo per vagliare con calma i pro e i contro e non sbagliare, o per risparmiarsi, o che si inoltrasse in discussioni teoriche.

L’altra grande passione, a cui dedicava anima e corpo, era la formazione, perché il Vangelo entrasse nella vita delle persone che gli erano affidate, per vivere con loro la preghiera e la comunione. Scherzando diceva: “Qualcuno pensa che io faccio missione con i soldi, ma non sa che io faccio… tonnellate di catechesi!”. Un giovane prete che lo sostituì quando Paolo, trasferito, lasciò la parrocchia di Rajshahi, mi confidò: “Sentivo dire che p. Paolo era popolare perché usava molti soldi; ma ora che sono al suo posto ho capito quanto lavoro pastorale facesse, quante corse per celebrare in diversi villaggi ogni domenica, per farsi presente negli ostelli, per visitare gli ammalati, per organizzare e partecipare a momenti formativi, di ritiro, di preghiera… Io non riesco proprio a fare altrettanto…” Spesso i preti nelle parrocchie affidano alle suore e ai catechisti l’insegnamento religioso, la guida delle preghiere quotidiane; P. Paolo agiva in prima persona, appena gli era possibile.

Non gli mancarono delusioni, fallimenti, e anche imbrogli, tradimenti di chi approfittava di lui e della sua generosità troppo fiduciosa. Non l’ho mai sentito scoraggiato per questo, o amaro e aggressivo contro chi si era comportato male. Dava quasi l’impressione di ignorare o dimenticare questi incidenti di percorso. In un certo senso era proprio così; anche nei momenti difficili sapeva subito guardare a ciò che andava bene, che dava qualche risultato anche piccolo. Era il suo modo di praticare ciò che Paolo di Tarso, il suo patrono, raccomanda ai Galati: “Non stanchiamoci di fare il bene” (6,9), o ai Tessalonicesi: “non lasciatevi scoraggiare nel fare il bene” (2 Ts 3,13).

Paolo non si stancava del bene e non si scoraggiava del male; aveva il pregio di saper gustare i buoni risultati e questo gli dava coraggio e forza per non arrendersi. Non parlava molto di ciò che faceva, ma parlava moltissimo delle persone che mettevano a buon frutto il suo servizio: un ragazzo o una ragazza che mai avrebbero potuto studiare, e che con il suo aiuto terminavano le superiori, diventavano infermiere, medici, insegnanti, formavano famiglie, si consacravano come suore, o preti, si impegnavano nella comunità cristiana, aiutavano altri negli studi… Mia sorella Anna e mio cognato Aldo nel 2003 visitarono il Bangladesh e trascorsero qualche ora con lui. Anni dopo non ne ricordavano il nome, ma lo identificavano come “quel missionario che parlava con tanto entusiasmo della sua gente…”. Un seminarista bengalese che studia al seminario del PIME a Monza mi ha confidato: ho visitato tante volte p. Paolo nella casa di riposo, sempre mi parlava del Bangladesh, e mi mostrava fotografie: non di edifici costruiti, di riunioni organizzate, ma di persone che erano fiorite grazie al suo aiuto. Parlava di ciascuno di loro, raccontava, e raccontando piangeva… di nostalgia, penso, ma anche di commozione e gioia.

Si può dire senza paura di esagerare che Paolo ha fondato la Chiesa a Rajshahi, una grande città sulla riva del Gange. Dopo lunga esperienza in zone rurali e tribali, era approdato là su richiesta del Vescovo, con fatica. Negli anni ’70 la presenza visibile della chiesa cattolica in quella città si limitava ad un modesto ufficio della Caritas, frutto dell’iniziativa di p. Faustino Cescato, anche lui del PIME. Ma i cristiani presenti avrebbero dovuto far capo alla parrocchia rurale di Andarkhota, a 14 chilometri di distanza, cosa praticamente impossibile. Ad Andarkhota viveva e operava un’altra persona “appassionata”, suor Silvia Gallina – delle Suore di Carità di Maria Bambina, responsabile del dispensario medico della missione. Fu la sua “complice” in tante iniziative, a cominciare dagli ammalati, per allargarsi poi a bambini e giovani che non avevano possibilità di studiare, a famiglie che vivevano in ambienti malsani, e per sviluppare una serie di iniziative che in pochi anni diedero un’identità, un volto alla chiesa cattolica nella città.

Stava infatti crescendo il processo di urbanizzazione, che coinvolgeva numerosi tribali, tra cui molti cristiani, i quali erano vittime, nei loro villaggi, di soprusi e imbrogli per sottrarre loro le terre. Per questo, o semplicemente con la speranza di migliorare la loro vita, migravano a Rajshahi, dove erano costretti a vivere senza i riferimenti sociali e religiosi, e le tradizioni a cui erano abituati; perdevano perciò l’aiuto, il controllo, l’identità di cui potevano godere nei villaggi di origine. Molti dormivano in verande o sgabuzzini, sottopagati e sfruttati, alcuni si rovinavano con l’alcool… P. Paolo mi spiegò che il suo intento era di raccoglierli e formare comunità dove potessero ritrovare la loro dignità e identità, e anche accettare le novità e i vantaggi che la vita cittadina comporta. Per questo – mi disse – si ispirava a Mosè il quale, per dare consistenza al Popolo di Dio, lo aveva guidato attraverso il deserto, fra mille difficoltà e paure, fino a che ebbero una terra dove ebbero la possibilità di essere se stessi. Con questo sogno sullo sfondo, P. Paolo comprava terreni in varie zone ancora libere del territorio urbano di Rajshahi, e vi stabiliva gruppi di immigrati tribali: assegnava ad ogni famiglia una casetta molto semplice, con un palmo di terra per allevare galline e capre, con il compito di prenderne cura, e in ognuno di questi piccoli nuovi “quartieri” o – se si vuole – villaggi urbani, apriva una scuola elementare, una sede per le riunioni di comunità, una cappella. Nacquero – se non sbaglio – nove di queste piccole “terre promesse”, che diedero a p. Paolo tantissimo lavoro, tanti grattacapi e delusioni, ma anche tante soddisfazioni. Ora Rajshahi è sede di una diocesi; è dotata di una grande cattedrale, di un’ampia sede episcopale e un centro di pastorale e di comunicazioni sociali, tre parrocchie, diverse comunità religiose femminili, scuole, ostelli, un seminario a livello di college, un centro di assistenza malati… No, non ha fatto tutto p. Paolo! Ma è lui che ha dato il via ed è stato il motore che ha animato e sostenuto questa rapida crescita per tanti anni.

Arrivò poi il momento di staccarsi anche da questa sua creatura, dalla parrocchia di Rajshahi. Ci furono proteste e anche turbolenze da parte di molti parrocchiani, che volevano tenerlo per sé; p. Paolo ci soffriva, ma in occasione di una mia visita come superiore regionale fu lui a spiegare in assemblea che doveva andare, era bene, e voleva farlo. Partì alla chetichella, senza cerimonie, per evitare problemi!

Nella sua nuova destinazione, a Moeshpur, fu assistente del parroco p. Pier Francesco Corti, che aveva trascorso a Rajshahi i primi cinque anni del suo impegno missionario proprio con lui, come suo assistente. L’amicizia e la stima che avevano l’uno per l’altro resero possibile questo scambio di ruoli, di solito molto difficile. Anche là, però, Paolo non si risparmiava e non riusciva a riguardarsi come avrebbe dovuto; la salute continuò a deteriorarsi, finché fu coinvolto in un incidente automobilistico che provocò ad una gamba gravi fratture, mal ricomposte con un’operazione. Sperando di migliorare per poi ritornare, accettò di venire a Lecco, nella comunità PIME per missionari anziani e ammalati. Chi lo conosceva pensava con pena che non si sarebbe adattato alla vita comune, e a un ritmo opposto a quello iperattivo cui era abituato. Ci stupì tutti, accettando la nuova condizione non solo con pazienza, ma senza perdere entusiasmo e buon umore, e sottolineando gli aspetti positivi della nuova situazione.

Tanti, ma proprio tanti lo piangono in Bangladesh, riconoscendo che ha cambiato la loro vita perché ha aperto per loro e con loro, strade che mai avrebbero potuto percorrere senza di lui. Anche a chi è stato opportunista e ha approfittato della sua generosità, il suo “cuore puro” ha dato testimonianza di un amore appassionato, e della misericordia che il suo Maestro, Gesù, ha raccomandato ai suoi discepoli.

Franco Cagnasso

Monza, 13 novembre 2022

Congedo

Rieccomi a Monza, da dove ero partito il 19 settembre per il Bangladesh, con l’obiettivo di rinnovare il famoso “visa M” (cioè missionario) di cui ho parlato in una “scheggia” circa un mese fa. La data di scadenza del mio “visa” era il 12 ottobre. Ho consegnato la domanda di rinnovo pressappoco 15 giorni prima – come da regolamento – poi non ho saputo più nulla di certo. Partendo dall’Italia, avevo promesso di non assentarmi per più di un mese dal mio nuovo servizio, cioè l’accompagnamento spirituale dei seminaristi a Monza. Quindi il 19 ottobre alle 3.15 di notte (ora del Bangladesh), ho preso il volo di ritorno, arrivando nella stessa data alle 14 in punto (ora dell’Italia). Senza “visa”.

Se e quando sarò libero di ritornare in Bangladesh, dovrò ricominciare daccapo tutta la trafila per un nuovo “visa”, che nel 1977-78 ottenni in 9 mesi, e nel 2001-02 in altri 9 mesi.

La vigilia della mia partenza da Dhaka, sono andato ad un piccolo negozio di artigianato locale per comprare biglietti augurali e angioletti di canapa. Una passeggiata di poco più di mezz’ora, per masticare in santa pace la sofferenza di lasciare, la nostalgia, passando davanti al grande palazzo del parlamento, con ampi spazi e prati ben tenuti, e poi immergermi nell’ininterrotto caos di mezzi, pedoni, chiasso, sporcizia, odori, piccolo commercio di ogni tipo che brulica nel quartiere di Tejgaon. Anche là è in corso la costruzione della metropolitana sopraelevata. Un altissimo ponte che percorre tutta la città da nord a sud, pilastri e muraglioni giganteschi, macchinari modernissimi, operai al lavoro giorno e notte per completare un lavoro che – si spera – renderà il traffico meno faticoso, e la città più moderna.

Arrivando ad un punto di svolta di questo gigante in costruzione, ho percorso un pezzo di “scorciatoia”, un sentiero fangoso che serpeggia sotto alcuni di questi pilastri, fra materiale edilizio, camion, tecnici, rifiuti, giovani storditi dalla droga, mendicanti parcheggiati a mostrare deformazioni fisiche varie… Seminascosta dietro un angolo di uno di questi pilastri, ho intravvisto un’improbabile macchina per cucire a pedali, scrostata e arrugginita, speranza di vita di un anziano, che aspetta il passaggio di qualcuno che voglia far rammendare uno strappo, attaccare un bottone, rifare un orlo… Gli sono passato accanto, e ho sentito che questo poteva essere un ricordo, come un’immagine simbolica della mia missione in Bangladesh con le sue grandezze e le sue meschinità. Mi è sembrato di vedere proprio lì uno dei tanti “confini del mondo” a cui Gesù ha mandato i suoi discepoli e apostoli: non sono i confini geografici che, essendo il mondo rotondo, non si raggiungeranno mai; sono piuttosto i confini dell’umanità, e si trovano dovunque ci sia qualcuno che c’è – ma è come se non ci fosse. Confini che tutti, e ovunque, possiamo trovare guardandoci intorno.

La passeggiata si è conclusa con una preghiera perché il Padre mandi qualcuno anche a quell’improbabile sarto, pure lui “messe per il Regno di Dio”.

Franco Cagnasso
Monza, 28 ottobre 2022