Continuano a chiederci commenti, e perché mai qualcuno abbia attentato alla vita di p. Piero, uomo senza nemici, conosciuto da tutti come “doyalu”, di cuore buono, compassionevole e mite. Chi conosce la riposta? Siamo nel regno della menzogna e si può credere a tutto e al contrario di tutto. Per le possibili ragioni politiche rinvio ad una mia “scheggia” precedente, “Perché?”, scritta dopo l’assassinio del cooperante italiano Tavella e di un giapponese. Aggiungo che in questi mesi, e specialmente in questi giorni, c’è tensione per la condanna a morte di due politici dell’opposizione, accusati di crimini di guerra commessi nel 1971. Ma occorre andare anche più a fondo. Un amico buddista si emoziona quando gli dico che il nostro Guru Gesù ci ha preparati: “Hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi”. Un giornalista televisivo musulmano mi chiede perché colpiscono un uomo così buono, e ascolta con grande interesse il pensiero del nostro
Profeta Gesù: chi opera il male teme e odia la luce, perché non vuole che le sue opere vengano riconosciute.
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Piero daktar
Così lo chiama la gente, ma anche “Father Piero”, perché per tutti è prete ed è medico, con i medesimi tratti di disponibilità, attenzione personale, bontà e generosità “proverbiale”, spesso oggetto di scherzi dei confratelli. Da bravo ex dilettante di ciclismo, va sempre in giro in bicicletta, e di gran lena. Come ogni giorno, il 18 novembre era diretto in bici all’ospedale, quando alle 8,10 una moto l’ha affiancato e uno dei passeggeri gli ha sparato un colpo che l’ha fatto crollare a terra. Pensando di averlo ucciso sono scappati subito, ma la pallottola aveva trapassato il collo, sotto la nuca, senza toccare organi vitali. Mentre perdeva molto sangue, passanti lo hanno soccorso portandolo al “Medical College” di Dinajpur, un grande ospedale di recente apertura, incredibilmente sporco, assolutamente disorganizzato e caotico, con pazienti che giacciono a terra in ogni angolo. In poco tempo i corridoi del terzo piano si riempiono con centinaia di giornalisti,
cineoperatorei, curiosi, infermiere e medici sfaccendati, fotografi aggressivi, polizia, tutti a sgomitare per andare vicino, vedere, fotografare, commentare. Dopo sommarie medicazioni, una TAC mostra che la pallottola è uscita, e ci sono fratture alla mandibola, ma non è necessario operare con urgenza. Ore di paura, confusione e smarrimento, durante le quali p. Piero riprende a parlare e lamenta dolori al torace cui nessuno fa caso. Poi, i medici decidono di trasferirlo a Dhaka e l’aviazione militare mette a disposizione un elicottero che arriva alle 15.15 e mezz’ora dopo decolla con lui e due accompagnatori. Oltre alla mandibola, p.Piero ha tre costole rotte e parecchie altre ammaccature e ferite dovute alla caduta. La ferita dell’arma da fuoco non è grave. I medici del “Military Hospital” dicono che è fuori pericolo.
Ora riceviamo tanti attestati di simpatia, dolore, rabbia da parte di poveri e gente comune, colleghi, gente che lo conosce e lo stima, molti, di ogni religione, aiutati da lui.
Il dottore buono
Non lo conoscevo, ma di lui avevo sentito qualche vaga notizia. L’anno scorso aveva chiesto ospitalità a padre Michele Brambilla nella sua missione di Kodbir, e vi era rimasto un mese; un mese di silenzio, meditazione, lettura della Bibbia, preghiera, solo, ospite discreto e gentilissimo. Faceva spesso periodi di ritiro di questo tipo, ma forse quest’ultima volta era consapevole che stava preparandosi ad “andarsene”. Tempo prima aveva detto a un collaboratore: “So che cosa ho e so che non durerò a lungo. Quando mi aggravo, non voglio cure e metodi artificiali più complessi e costosi di quelli che sto usando qui per i miei pazienti. Voglio un funerale cristiano, e una tomba dietro casa.” E così è stato.
Era neozelandese, nato nel 1941, con una buona carriera medica e specializzazioni varie. Dopo aver lavorato in Nuova Zelanda e poi, in due periodi, nel Vietnam in guerra, aveva servito in Papua e in Zambia, approdando infine in Bangladesh nel 1979. Il suo ultimo luogo di lavoro e della sua vita dedicata e solitaria è stato Kailakuri, zona ancora forestale del nord, abitata per lo più da aborigeni Mandi e Bormon, dove ha gradualmente creato un centro di assistenza medica. Ha lavorato tanto, con metodo e competenza, ma soprattutto si è fatto voler bene. Diceva: “Sono venuto qui perché ho trovato gente buona”. “Lo ha mandato Dio” sostiene la gente, e molti ricordano la sua “filosofia”: “L’uomo può fare qualsiasi cosa se ha dedizione. E la dedizione viene dalla fede. Abbiamo fede in Dio, nella gente, in noi stessi”.
Si chiamava Edrik Baker, era conosciuto come “Fratello dottore”.
Dito
Una testimonianza missionaria insolita – almeno per la maggioranza di noi – si può trovare in un libro recentemente pubblicato da un missionario del PIME vissuto per qualche anno in Bangladesh, poi in India, ora in Italia. Parla della sua ricerca interiore e di come si è sviluppata soprattutto in “ashram” indiani, con la guida di “guru” cristiani – specialmente p. Bede Griffiths – in dialogo con la tradizione religiosa indù.
Giovanni Belloni, Grazie al dito che mi indicò la luna, ed. Tracce per la Meta, Sesto Calende, 2015, pp. 237.
P. Dominic
Purtroppo non ero a Rajshahi il 7 agosto scorso, ma ho saputo che la festa per l’ordinazione di P. Dominic Hasda – il primo aborigeno santal che entra nel PIME – è stata bella e intensa. La diocesi ha solo 25 anni, celebrati (e anche in quest’occasione non c’ero) l’11 settembre, ma oltre a p. Dominic ha già mandato in missione attraverso il PIME un fratello, Joseph Aind, ora missionario in Cameroun. Dominic racconta di aver sempre avuto il desiderio di diventar prete, e da piccolo costringeva i compagni di giochi a partecipare alla “Messa” celebrata da lui indossando un asciugamano e distribuendo biscotti per la “comunione”. Ma non tutto è stato facile per arrivare all’ordinazione, e ha dovuto aprirsi la strada diplomandosi infermiere e lavorando, poi lottando contro varie difficoltà familiari. Per “consolarlo”, gli diciamo che queste prime difficoltà saranno seguite da altre, certamente più dure: è stato “destinato” alla Papua Nuova Guinea. Dominic sorride, e risponde che ne è convinto, ma ha fiducia. Il Signore ti accompagnerà, e noi siamo ben contenti di averti come confratello.
Utholi
Utholi
Non lontano dalla riva sinistra, là dove l’immenso Jamuna (Brahmaputra) si unisce alle acque del Padma (Gange), appena fuori dalla strada verso i traghetti che portano al sud ovest del Paese, potete trovare una piccola missione cattolica con ostelli per ragazzi e ragazze, casa della suore e del padre, piccola scuola e chiesa – tutto nel villaggio di Utholi. Ma ha anche cappelle e scuolette in villaggi più o meno vicini, piccoli agglomerati di case costruite per i più poveri, catechisti, maestri, gruppi di preghiera che girano di casa in casa e tante iniziative. Tutte su scala ridotta, ma sono veri miracoli inattesi, in quella zona e in quelle condizioni. La comunità cristiana è decisamente varia: pescatori senza neppure un pezzo di terra dove seppellire i loro morti, lavoratori a giornata, intrecciatori di ceste, impiegati venuti da altre zone per lavorare nelle imprese dei traghetti, ex membri delle comunità battiste, ex conciatori di pelli fuori casta, aborigeni, bengalesi… Un amalgama difficile da creare e da tenere insieme, con gente semplice e buona e altra gente rissosa e profittatrice. Aveva messo un piccolo seme un prete diocesano, p. Dominic, poi ha innaffiato, sarchiato, diserbato, concimato con immensa pazienza e tenacia p. Arturo Speziale, conosciuto ora da tutti nella zona per il suo cuore tenero (qualcuno dice: troppo) e per il suo ostinato impegno nell’evangelizzazione dei più poveri, quelli che nessuno considera degni di fiducia. Il 7 giugno scorso P. Arturo ha salutato questa gente per andare a servire in un’altra missione. Fatica del distacco da parte di tutti, ma anche soddisfazione per una realtà nata praticamente dal nulla e che ora ha messo radici, per i molti ragazzi e giovani che hanno potuto studiare, per i poveri aiutati, i malati curati, la Parola diffusa in ogni occasione, la preghiera che è diventata parte della vita quotidiana di non pochi. Ad accompagnare questo “piccolo gregge” è ora il primissimo seminatore, p. Dominic Rozario. Fino a pochi anni fa, nessuno avrebbe mai scommesso che in quella zona potesse esserci una comunità cristiana e cattolica. Ora c’è.
Perché?
Sono tre i “perché” di questa “scheggia”.
Numero uno: perché non si sono viste “schegge di bengala” per molte settimane?
Un’urgenza mi ha costretto a lasciare il Bangladesh a fine luglio, e come produrre “schegge di Bengala” in Italia? Controlli, esami, riposo, medici in gamba, un’acrobazia della tecnica medica moderna mi hanno rimesso in sesto e sono ritornato. Pausa per riprendere contatto, ed eccomi qui a scrivere. Un grazie a chi ha commentato l’ultima scheggia intitolata “Mantello” e a chi s’è chiesto come mai non scrivessi più.
Numero due: perché ti ostini a ritornare, non è imprudente? Non credi che ci sia molto da fare anche qui?
Ho le carte in regola: il permesso del medico, e questa è la pima parte della risposta. La seconda parte me l’ha suggerita p. Gianni, che due anni fa è tornato in Bangladesh – dove ora è incaricato di un’estesissima parrocchia qui nel nord – all’età di 72 anni e dopo 18 anni di servizio in Italia: “Ritorno perché da giovane missionario sono stato – come ci esprimiamo noi – “destinato” al Bangladesh, e questo “destino” ha fatto sì che io ora decida semplicemente di tornare “a casa mia”. Sì, quella è la mia casa”.
Numero tre: perché tra settembre e ottobre hanno ucciso un italiano e un giapponese, e l’ISIS ha rivendicato gli omicidi minacciando di commetterne altri e costringere i “crociati” ad andarsene? Risposta che brancola nel buio. Le ipotesi sono tante, tutte più o meno plausibili. Potrebbe essere davvero l’ISIS che apre un altro fronte. L’idea del califfato ha radici storiche in Medio Oriente e Nord Africa, ed è senza radici da queste parti; ma un poco di fascino potrebbe anche esercitarlo nella gran confusione di idee che ci circonda e nella rabbiosa frustrazione di molti. Potrebbe essere l’opposizione radicale locale per mettere in difficoltà il governo contro il quale diventa sempre più difficile opporsi con metodi aperti e legali. Qualcuno fa notare che gli omicidi sono stati commessi mentre la Primo Ministro Seikh Hasina era a New York a raccogliere premi per il suo impegno ecologico ed elogi per il suo discorso all’Assemblea. Coincidenza voluta? Potrebbe essere un gruppetto sbandato e senza forza che vuole darsi importanza usando nome che fa paura. Non è raro che terroristi di ogni paese e ideologia cerchino di dimostrarsi forti con i propri concorrenti facendo azioni che spaventano, pur senza avere la capacità di dare continuità alle loro pretese.
Mantello
Una giovane donna indù, madre di due figli, che lavora in una fabbrica di abiti, da qualche anno viene a Messa saltuariamente. Le piace tanto il Vangelo, e ascolta le omelie con grande attenzione. Due settimane fa l’ho rivista, stanca. Mi parla dei turni di lavoro sfiancanti che è costretta a seguire, e del rammarico di non poter venire a Messa più spesso, poi con imbarazzo mi chiede il permesso di dirmi qualche cosa che “Ti dispiacerà. Ma non riesco più a tenerla per me…” Permesso accordato… “Padre, so che posso partecipare alla Messa ma non posso ricevere il piccolo pane bianco che i cristiani mangiano. Non mi faccio mai avanti quando viene distribuito. Però… quattro anni fa ero molto ammalata, e non trovavo la cura per guarire. Ho sentito dentro di me che se avessi preso quel Pane anche solo una volta sarei guarita. Cercai di resistere, perché è proibito, ma un giorno non ce l’ho fatta più e ho detto: Gesù non ti arrabbiare, ma tu mi puoi guarire. Mi sono mescolata alla fila dei cristiani, l’ho ricevuto, e sono guarita. Non l’ho mai più fatto, però ogni tanto mi sento in colpa, e ho paura che Gesù sia arrabbiato con me.” – “Una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni, gli si avvicinò alle spalle e toccò il lembo del suo mantello. Diceva infatti fra sé: Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò salvata. Gesù si voltò, la vide e disse: Coraggio figlia, la tua fede ti ha salvata. E da quel momento la donna fu salvata.” Mt 9,20-22.
Ricerca
“Devo ringraziarvi – si confidò un giorno il padrone di casa. Amici e vicini mi guardavano male, come un traditore, per aver affittato un appartamento a voi stranieri e cristiani, e allora per dimostrare che sono ancora un buon musulmano ho ripreso ad andare in moschea il venerdì.” Erano i tempi in cui si parlava appassionatamente di “vie nuove” nella missione del post-concilio, soprattutto ci si chiedeva come essere più vicini alla gente, e come arrivare ad ambienti finora appena sfiorati. Così, con i dovuti permessi di superiore e vescovo, p. Achille Boccia e p. Gianni Zanchi approdarono a Bogra, cittadina del nord dove i cattotici si contavano sulle dita di una mano, ma per contare anche i protestanti ci volevano due mani. Poi mi agganciai pure io: tre preti giovani e in buona salute a fare… che cosa? Questo si domandavano tutti, specie i missionari più anziani – e ce lo domandavamo pure noi. Volevamo rapportarci con la gente senza essere visti subito come benefattori con tanti soldi, o come dedicati a un gruppo religioso a preferenza di altri. Annaspammo a lungo (anni 1980-81), Achille e Gianni più o meno trovarono agganci, fra famiglie in difficoltà per figli con qualche handicap, e nei villaggi dove fare un poco di istruzione di igiene e medicina preventiva. Io rimasi al palo di partenza, mentre il proposito di visitare moschee e allacciare rapporti con imam si scioglieva come neve al sole dei tropici. Ci pensò la Provvidenza: Gianni viene eletto superiore del PIME in Bangladesh e deve trasferirsi, Achille ha bisogno di un’operazione alla colonna vertebrale a Hong Kong, io resto solo e dico al Vescovo: “Da solo non ce la faccio”. Chiusa la prima fase dell’esperienza lungamente sognata e preparata.- Ma Achille torna guarito, e apre la seconda fase: di nuovo in affitto, punta su una presenza silenziosa di preghiera, sua, e per altri cristiani. Allora in Bangladesh non c’erano luoghi per un ritiro tranquillo, e Achille propone un luogo che sta proprio nel cuore della città, fra musumani e hindu. Il suo carisma richiama, e seminaristi, preti, catechisti, suore si sentono descrivere, come parte del programma dei ritiri, anche un’insolita “meditazione visitando il bazar.” Scrive e illustra, a mano, in bengalese, la rivista di spiritualità Atma o Jibon (Spirito e Vita) che si diffonde pian piano e piace. Il PIME appoggia, e nel 1998 si compra una casa per avere più spazio, ma sempre in mezzo alla gente, che guarda con simpatia indipendentemente dalla religione o dalla denominazione di appartenenza. Si chiamerà “Emmaus House”, il luogo dove i discepoli riconobbero il Signore che aveva camminato con loro lungo la stessa strada. Ma arriva la terza fase: Achille deve lasciare e gli succedono i padri Carlo Dotti, Emanuele Meli e poi Carlo Buzzi, con i quali la presenza si configura sempre più come servizio pastorale ai cattolici che nel frattempo (in piccoli numeri!) vengono in città per lavoro, studio, commercio, e come ospitalità a studenti delle superiori che accettano di studiare facendo un cammino formativo impegnato. Finché… sembra bene trasferire il piccolo ostello a Dinajpur, più vicino ad altre iniziative dell’Istituto, e affidare alla diocesi la cura pastorale del piccolo gregge cattolico (forse 200 persone) che ora è presente a Bogra. Il 5 giugno il vescovo riceve formalmente questo regalo del PIME, mentre la gente gli raccomanda di non trascurarli, e di rendere più visibile la chiesa con una scuola o altre iniziative tipiche delle missioni “classiche.” – 1980-2015: un bilancio? Chi ha vissuto con passione questi passaggi certamente ha sperimentato la misericordia di Dio e la sua presenza. Altri bilanci li lasciamo a Lui.
Ande
I più anziani di noi lo avevano conosciuto negli anni sessanta e settanta, quando veniva a Milano per studi e frequentava il PIME. Allora era don Giovanni Gualdi. Poi, circa quattro anni fa, ci avevano detto che un certo don Giovanni Gnaldi sarebbe venuto in Bangladesh come associato. E’ arrivato qualche mese dopo preceduto da un interrogativo: Gua o Gna? è lui o è un altro? Era lui. Con capelli e barba bianca, e 25 anni di servizio missionario in Perù, come “Fidei donum” della sua diocesi, Città di Castello. Nelle gelide parrocchie dove ha lavorato, per lo più ad altissima quota sulle Ande, ha frequentato genti e usato lingue a noi sconosciute – ed è pure diventato esperto in patate, il cibo quasi esclusivo di quei posti. Dalle Ande al Gange, che cosa cerca in Bangladesh, piatto come un tavolo da biliardo? Ce la farà a imparare la lingua? Cercava, ci ha spiegato, uno spazio diverso, quasi un filtro fra quel mondo e il mondo dell’Italia di oggi dove era richiamato a continuare il suo ministero di prete. Triplo salto mortale senza rete: Italia, Perù, Bangladesh, Italia. La lingua l’ha imparata poco poco, quel che basta a celebrare la Messa e tenere una piccola omelia preparata per tutta la settimana con cura e tenacia. Ma c’era. In parrocchia, con i bambini, i ragazzi, i malati, in cappella e in chiesa a pregare, negli incontri… silenzioso, sorridente, sereno, un poco misterioso. E’ rimasto poco più dei tre anni stabiliti, ripartendo nel maggio scorso per Città di Castello. Senza parole, ci ha detto che la missione non è solo correre e fare, ma anche guardare, accompagnare, ascoltare, pregare – essere inutili, ma esserci, con la fede in Gesù e nell’uomo che Dio ci ha regalato.