Finalmente stanno rimpatriando decine di ragazzi portati – anche a quattro anni di età – negli Emirati Arabi Uniti per fare i “Camel Jockey”, cioè per cavalcare i cammelli da corsa. A volte partiva anche la famiglia, ma dovevano vivere separati, i ragazzi presso le scuderie, genitori e fratelli a qualche decina di chilometri; piu’ spesso andavano da soli, portati via in cambio di pochi soldi. Stipendio discreto, cibo buono, tante ore di esercizi e pratiche, tante cadute dai cammelli, disciplina, la cura degli animali affidata a loro, niente scuola. Ora che sono a casa e hanno 14 o 15 anni, sanno più l’arabo che il bengalese, non conoscono un mestiere, non leggono e non scrivono, vogliono buoni vestiti, rifiutano le capanne dei villaggi o le baracche degli slum dove vivono i loro familiari. Nessuno sa che cosa fare di loro.
Archivio mensile:Gennaio 2010
Cristo
Tozzo, irsuto, seminudo, un sacco floscio sulla spalla gobba, cammina spedito sulla strada macchiata di luci rade, ancora bagnata di pioggia, popolata di rikscia. A tratti, un grido. Forte, chiaro, lungo: “Oh amar bhaira!” – “Oh fratelli miei!”. Non rallenta, non guarda, non evita le pozze fangose, non chiede. Passa. Svolta, infine, e ancora da lontano giunge quel grido, e ancora. E ancora. “Oh fratelli miei!” Forse ancora uno giunge fioco, confuso col frastuono lontano delle auto; o forse è lo stesso grido che ora è dentro di noi mentre la vita sulla strada riprende e cancella.
Ritorno del futuro
“Zia è il nostro passato, Khaleda il nostro presente, Tareque il nostro futuro!” Così recitava uno slogan del BNP (Bangladesh National Party) scritto su muri in tutto il Paese quando il partito era al potere: Zia, presidente grazie ad un colpo militare, poi assassinato; Khaleda, la vedova diventata primo ministro; Tareque, il primogenito che si dedicava ad intense attività di taglieggiamento, ricatti, estorsioni, brigantaggio politico. Poi il governo del 2007-8 ha tolto il primo dai libri di storia, la seconda dal potere, il figlio dall’infame palazzo che era il vero centro del potere in Bangladesh, prima mettendolo in carcere, poi lasciandolo andare all’estero “per curarsi la salute”. Dal gennaio scorso il BNP è sotto tono, e si lecca le ferite della batosta elettorale mentre l’Awami League ha preso il controllo di tutto. Ora torna a galla, e tiene l’Assemblea Generale che da 16 anni non radunava più, proclamando che sta per nascere un “Nuovo BNP, per salvare il Paese”. Prima ancora che iniziasse l’assemblea, Khaleda era già stata proclamata Presidente del partito, carica per cui è stata l’unico candidato. Un ruolo speciale è stato preparato per Tareque – ancora all’estero – in modo che appena torna trovi l’ufficio pronto con la cassaforte aperta, e la strada tracciata per diventare segretario del partito.
Preoccuparsi
Il 4 dicembre scorso si e’ concluso festosamente il “Corso Samuel”, ciclo di 9 giornate vocazionali cui hanno partecipato in media 60 giovani fra i 17 e i 22 anni, che studiano a Dhaka, provenienti da tutto il Bangladesh. Abbiamo chiesto loro una valutazione dettagliata dell’esperienza vissuta. Due osservazioni ritornano: abbiamo imparato che ogni vita è vocazione, e sentirsi chiamati non è riservato a preti e suore; siamo stati stupiti e contenti di incontrare e conoscere adulti che pensano a noi, si preoccupano della nostra vita, trascorrono tempo con noi in amicizia.
Bilancio
31 donne sono state uccise, 5 crudelmente picchiate a motivo di conflitti sulla dote matrimoniale non interamente versata dalla famiglia; quindici hanno commesso suicidio per violenze fisiche o psicologiche subite. 34 donne e 15 ragazze hanno subito stupro, e tre sono state successivamente uccise. Una donna è morta e 8 sono rimaste sfigurate da attacchi con acido.
100 persone sono state uccise e 1121 ferite nel corso di scontri e violenze di carattere sociale; 5 gli uccisi e 737 i feriti in scontri politici. Una domestica uccisa e cinque ferite dai datori/datrici di lavoro.
22 persone sono state uccise da tutori dell’ordine, tre sono state uccise e una ha commesso suicidio mentre si trovavano in stato di fermo di polizia.
Questo è il bilancio del mese di novembre 2009 in Bangladesh, presentato dalla BSFHR (Società bengalese per l’applicazione dei diritti umani), che ha raccolto i dati da notizie pubblicate sui giornali. Il testo non specifica se i numerosi casi di linciaggio di ladri ed estorsori siano inclusi nelle “violenze sociali” o siano da conteggiare a parte.
Un nome
Da qualche mese P. Luca lavora con entusiasmo e intelligenza nel Centro che sta nascendo vicino all’EPZ, la grande zona franca industriale a ovest di Dhaka. L’iniziativa risale a qualche anno fa, quando p. Gian Paolo, parroco di Mirpur, e fr. Massimo, direttore della Novara Technical School di Dinajpur, hanno iniziato a collaborare per assistere gli ex studenti della scuola tecnica che migrano a Dhaka per trovare lavoro. Più si agiva e più cresceva la voglia di fare qualcosa di meglio. Comprato con molta fatica un terreno, è sorta la prima struttura che accoglie giovani lavoratori in cerca di sistemazione. Ora, con p. Luca presente a tempo pieno, l’iniziativa prende consistenza, punto di riferimento non solo per ex alunni, ma per tantissimi giovani, uomini e donne di vari gruppi etnici e religioni, che faticano e si disumanizzano nell’immensa zona industriale.
Il Centro ha bisogno di un’identità con cui presentarsi, un nome. Betania, Emmaus, Nazareth…? P. Luca ha chiesto un parere, manifestando simpatia per nomi biblici, che evocano l’identità cristiana del Centro, senza rischiare di farlo apparire come realtà chiusa, riservata ai fedeli di una Chiesa. Qualcosa di non confessionale, come “Oasi dei lavoratori”? Troppo vago forse. Oppure… “Centro Gesù lavoratore”? Bello, e nuovo qui in Bangladesh. Dice quello che vogliano, cioè dare dignità ai lavoratori a partire dalla dignità che il Figlio dell’Uomo ha rivelato facendosi Lui stesso lavoratore. Non spaventa gli operai un “guru” che era operaio, come loro.
Paolo scrive che la Chiesa del Bangladesh, per uscire dalle sue chiusure ed essere comunità di servizio, deve identificarsi chiaramente come comunità cristiana che serve. Nel suo quartiere popolare, i parrocchiani avevano paura di fare la prima processione del Corpus Domini fuori del recinto, per strada: ci disturberanno, attireremo ostilità… Nessuno ha disturbato, molti hanno scoperto che esistono cristiani nella zona, ogni settimana si presenta qualcuno per sapere meglio di che si tratta. Luca vuole evitare ogni rischio che il nome crei malintesi, e chiuda una strada. Francesco ritiene che qualificarsi con chiarezza sia proprio un’esigenza del dialogo, e che il nome di Gesù in se stesso non susciti ostilità , sospetti o paura.
Il nome non è stato ancora deciso. Intorno a questa scelta si esprime la concretezza della ricerca di tutti noi su come essere missionari che uniscono annuncio, dialogo, servizio. Fermo restando – ricorda Francesco – che, ancor più del nome, parla il modo in cui noi ci collochiamo fra la gente nella vita quotidiana, a chi diamo attenzione, quali rapporti cerchiamo.
Il-ul-Azhar
Il-ul-Azhar, o Id Kurbani è la seconda festa per importanza nell’Islam. Segue il calendario lunare, quest’anno è stata celebrata il 28 novembre.
Vigilia, ore 19. Ci sono ancora 100 km di coda in uscita da Dhaka verso il nord e l’ovest del Paese. La città si è liberata di milioni di persone, che tornano ai loro villaggi per la festa, mentre si è appena esaurito il fiume di camion carichi di tori e buoi che invadono mercati fissi e improvvisati di Dhaka. Si prepara freneticamente il sacrificio di centinaia di migliaia di bovini e capre, che si svolgerà domattina nell’arco di due ore circa.
Gli autobus stanno diminuendo di numero, per questo rimangono stracarichi. Sul margine della grande strada Uttora-aeroporto-Dhaka m’impegno nella difficile impresa di abbordarne uno. Il solito traffico pedonale è vivacizzato da gruppetti che vanno in tutte le direzioni, ciascuno portandosi a casa un bovino più o meno grosso e grasso, o una capretta. Un toro di mezza taglia scappato dai suoi nuovi proprietari zigzaga impazzito fra le auto, fermato da un pedalatore su riksciò che riceve una mancia. Qualcuno chiede al volo: “Quanto l’hai pagato?” “Settanta mila…” La spesa per il sacrificio, diventa una dimostrazione di prestigio. Secondo un giornale si arriva fino a 700.000 taka (7.000 Euro) per un bue bene ingrassato. Finalmente ci schiacciamo su un autobus, che passa davanti a uno degli immensi mercati provvisori, rigurgitante bestie, paglia, acquirenti estemporanei: bancari, politici, professori, imprenditori, ciascuno porterà a casa il suo animale. Le vendite proseguono fino a notte fonda, come il mercato delle verdure, le bancarelle degli abiti, i negozi di alimentari…
Il quartiere di Banani è ormai quasi tranquillo, costellato da buoi parcheggiati nei posti più improbabili. Immaginatene tre nell’atrio sottostante il vostro appartamento a Milano, un buon numero nelle aiuole del Sentierone a Bergamo, un mercato “volante” sotto Palazzo Venezia a Roma. Bovini ovunque, a ostruire i vicoli di Trastevere o i Carrugi di Genova, mentre capre e caprette belano da balconi e terrazze dove aspettano il loro destino…
Festa, mattina. La radio informa che ieri sera un traghetto si è rovesciato attraccando all’isola di Bola. Era stracarico, si prevedono almeno 100 morti. In seminario ci salutiamo: “Id Mubarok” (Festa benedetta), ma c’è aria feriale. Fuori invece milioni di fedeli si affrettano, vestiti a festa e contenti, alle riunioni speciali di preghiera nelle moschee e in vari luoghi all’aperto, alcuni dei quali hanno settori separati, perché anche le donne possano partecipare. In ogni angolo, sulle strade e nei cortili, pronunciando le preghiere rituali, si sgozzano e fanno a pezzi gli animali. In obbedienza ad Allah, si ricorda il sacrificio di Abramo, secondo una tradizione molto simile a quella biblica. Si dividerà la carne sacrificata, segno di unione familiare, o fra famiglie, e generosità verso i poveri.
Festa, ore 16. Scomparsi buoi e capre. Per strada, evito accuratamente grosse pozze di acqua rossa, e sangue raggrumato. Qua e là gruppetti di poveri attendono di ricevere sacchetti di plastica pieni di pezzi di carne, che viene tagliata su teli di plastica nella polvere della strada, o nei cortili. Ognuno se ne va contento con il suo; in ogni famiglia, uno ciascuno, dal più grande al più piccolo. Altri portano sacchi più grandi, gocciolanti, stipando i tricicli a motore. Gruppetti di macellatori esausti si dirigono a casa sugli autobus, con grosse macchie di sangue sulle canottiere e sui lunghi. Un maulana predica a tutto volume che è peccato dare la carne sacrificata ai non musulmani, ma le ragazze dell’Ostello Santal, 5 cristiane e una indù, ne ricevono almeno tre chili da vicini di casa musulmani.
Pare che la moda maschile quest’anno abbia suggerito panjabi neri con decorazioni rosse, o bianchi con decorazioni oro. Sotto la burka nera di alcune signore s’intravvedono l’orlo di sari eleganti e scarpe nuove. Mi dicono che a Dhaka Vecchia seguono un modo tradizionale di marinare con spezie varie la carne in eccedenza, che così trattata dura anche un anno, senza frigoriferi. Pare che sia molto buona. Corvi rimpinzati lasciano cadere qua e là scarti di carne.
Festa, ore 19. E’ buio, le strade principali sono di nuovo affollate ma il traffico scorre. Ho una strana sensazione, che riesco a identificare solo dopo qualche tempo: non ci sono più i gruppetti in attesa di carne, e dai semafori, i marciapiedi, le entrate delle moschee e dei negozi tutti i mendicanti sono scomparsi. Mentre gli altri digeriscono l’abbondanza di mezzogiorno, loro si preparano a saziarsi con il pasto della sera, spesso l’unico. I quartieri benestanti sono quasi deserti, i marciapiedi illuminati dai fuocherelli dei senza tetto che si cuociono la carne. Da alcune case si sentono canti, in molte altre la TV opera anche oggi il suo lento, instancabile lavoro di devastazione dei cervelli.