Silenzio

C’è generale indifferenza, e comune presunzione che, quando succedono scontri e distruzioni fra Tribali e Bengalesi nel Chittagon Hill Tracts, la colpa sia da dividere per lo meno a metà – o ricada soprattutto sui “primitivi”. Non mancano però, anche da parte di Bengalesi, voci critiche oneste. “Non nascondiamoci il fatto che le colline hanno perso la loro bellezza con gli “invasori” che scorrazzano qua e là come topi. Sono noiosi, fracassoni, sporchi e indisciplinati, a dir poco. C’è poco lavoro, quindi la maggior parte bighellona. Se guardi bene, t’accorgi che per lo più si tratta di buoni a nulla mandati là da politici corrotti. Per vivere s’impadroniscono di qualunque cosa capiti loro a tiro sulle colline. Hanno portato forme di criminalità prima sconosciute nella zona, e prosperano con la benedizione di poliziotti e politici corrotti. (…). Nelle città sono ormai la maggioranza. Cox’s Bazar era una cittadina prevalentemente Chakma, pulita e gradevole, con ragazzi e ragazze chakma che vendevano bigiotteria ai pochi turisti. Oggi, Cox’s Bazar sembra Sadar Gate (il lurido, affollatissimo porto fluviale di Dhaka)” Shahnoor Wahid, su The Daily Star, 2 marzo 2010. In un articolo dal titolo “La tragedia della maggioranza” sullo stesso numero del quotidiano la giornalista Tazreena Sahad descrive alcuni episodi di oppressione dell’esercito di Israele sui Palestinesi dei Territori Occupati, e continua: dopo aver sparso lacrime ed espresso indignazione per questi fatti, fermati e pensa che “mentre il nostro popolo si prepara a festeggiare la vittoria morale della lingua bengalese sulla tirannia del regime Pakistano,” un gruppo di bengalesi insediatisi sta perpetrando le stesse cose nei villaggi dell’Hill Tracts. “Descrivere le due parti (Tribali e Bengalesi insediatisi) come antagonisti alla pari nel conflitto distorce la realtà di questa tragedia. I fatti sono che, questa volta, sono i Bengalesi ad aggredire. La tragedia della maggioranza sta nel fatto che può decidere di tacere. E – ancor peggio – il silenzio può cambiare il corso degli eventi (…) Bisogna rompere il silenzio, e riconoscere che non possiamo pretendere di avere l’autorità morale delle vittime.”

Igiene

Un mendicante si avvicina ad un enorme mucchio di immondizia raccolta da tutto il quartiere, zoppicando con un piede fasciato. Si tratta di immondizia “all’ultimo stadio”, già più volte rovistata alla ricerca di plastica, vetro, stracci, carta, lattine, PVC, ecc. Due ragazzi con grandi forconi caricano e schiacciano in un cassone ogni genere di verdura marcia, pesce guasto e ciò che nessuno ha recuperato. Li avvicina, parlotta con loro, poi scioglie lentamente le strisce di stoffa che coprono il tallone ferito, e le getta nel mucchio. I ragazzi si danno da fare. Rimestano con cura, scuotono, rigirano e riescono a scovare altre tre strisce di stoffa sfuggite alle precedenti ricerche. Poi, con molta cura gli rifanno la fasciatura.

Elettricità

Le lampade antivento a petrolio, diffusissime in passato, stavano ormai scomparendo anche dai villaggi, relegate in angoli polverosi, spesso rotte. La domanda di energia cresce vertiginosamente (nuove industrie, condizionatori, pompe per irrigazione…) e sempre più spesso vengono a mancare elettricità – e anche gas. Una piccola fabbrica di lanterne, che sopravviveva a stento qui a Dhaka, ha visto schizzare a 2000 pezzi al giorno la produzione, che continua ad aumentare rapidamente.

Fuoco

Nel febbraio scorso 37 lavoratrici e lavoratori sono morte soffocate dal fumo causato da un incendio in una fabbrica di abiti a Gazipur (Nord di Dhaka). Un giornale informa sui maggiori incidenti simili successi negli ultimi anni: 32 morti nel 1990, 22 nel ’96, 24 nel ’97, 23 nel 2000, 23 nel 2004, 23 nel 2005, 62 nel 2006, 27 nel 2010. Il conteggio include soltanto gli incendi, e non i crolli di fabbriche mal costruite, le morti dovute alle macchine, o a malattie professionali.

Passo, passo

Un servizio della BBC dal Bangladesh del 2008 descriveva attraverso la testimonianza di due operai le condizioni di vita delle fabbriche di abiti in Bangladesh. Mancanza di spazi, di aria, caldo, paghe infime, rischi di incidenti e via elencando. I due, su richiesta del giornalista, spiegano che la loro fabbrica fornisce una grande ditta spagnola che rivende gli abiti in varie parti del mondo. Il giorno stesso il direttore della filiale del Bangladesh va a visitare la fabbrica da cui si fornisce e la sera dice al proprietario: “O vi trasferite e cambiate sistema entro tre mesi, o non compriamo più nulla.” Dopo una prima reazione di sorpresa, il proprietario decide di muoversi, e cambia. Nel 2010 la BBC rivisita la nuova fabbrica, trovandola in ottime condizioni e si sente dire dal proprietario che il cambio ha voluto dire anche una produttività molto maggiore dei lavoratori. Viene intervistato anche un sindacalista europeo, ora funzionario dell’ILO (Organizzazione del lavoro, dell’ONU), che ha seguito tutto il processo. E’ soddisfatto. “Ma quante migliaia di fabbriche continuano come prima?” “Chiede il giornalista”. “Tante – risponde – Ma nel 2008 avrei aggiunto che finora neppure una ha cambiato, ora invece posso dire che una ha cambiato, va bene, e spero che sarà di esempio”. Un sereno ottimismo che colpisce anche il giornalista. Il giorno dopo l’ex sindacalista muore di infarto, ma la fabbrica continua, e la trasmissione è dedicata a lui.

Fermata

Oggi, 28 febbraio 2010, alle ore 9,21, sulla “Airport Road” all’altezza del grande Cimitero di Banani, un’auto è avanzata verso di me senza suonare il clacson, ha rallentato, si è fermata, mi ha lasciato tranquillamente attraversare la strada sulle strisce pedonali. Dal maggio del 2002 – data del mio rientro in Bangladesh – è la prima volta che mi succede un fatto del genere.