Prima volta

Quarantacinque anni, prete da undici, nativo di Marianpur (nel nord), laureato a Roma, Sebastian Tudu è il primo prete della popolazione santal che viene consacrato vescovo, in Bangladesh. I Santal costituiscono un gruppo aborigeno numeroso in India. In Bangladesh sono presenti soprattutto nel nord-ovest ma anche, sporadicamente, in altre aree. Le statistiche, poco affidabili, oscillano fra i 2 e i 400.000 circa. Molti Santal sono entrati nella Chiesa a partire dall’inizio del secolo scorso, e hanno conservato più di altri gruppi etnici un forte attaccamento alla loro cultura e alle tradizioni, oggi in pericolo a causa del recente, rapido fenomeno dell’emigrazione verso le città. In questi anni nelle diocesi di Rajshahi e di Dinajpur è cresciuto il numero di preti santal, che sono ora la maggioranza relativa a Dinajpur. Sebastian, un uomo umile, con forte senso missionario e pastorale e molta attenzione ai poveri, sarà il pastore di Dinajpur.

Quasi in contemporanea i Tripura, gruppo aborigeno del sud, hanno festeggiato il primo prete della loro etnia: p. Gabriel Tripura, che ha terminato in Corea gli studi teologici iniziati a Dhaka.

Francesco

Reduce da un incidentaccio in auto che quasi ce lo portava via per sempre, e da lunghi mesi di cura e interventi in Italia, p. Francesco Rapacioli era tornato in Bangladesh alla fine del 2003 in buona forma. Approfittando del fatto che non aveva ancora un incarico, la comunità lo elesse superiore regionale per quattro anni e poi, nel 2007, di nuovo per altri quattro. Medico, ha seguito bene il “Rifugio per i malati” con le due sezioni per malati di tubercolosi e per altri e l’ostello per handicappati di Rajshahi, nonché la pastorale della salute a livello nazionale. Ha rilanciato con creatività e convinzione il dialogo ecumenico, e quello interreligioso, a Dhaka e a Dinajpur. Ha tenuto corsi, ritiri e conferenze a destra e a manca. Ha trovato il tempo, la voglia e le energie per quasi completare la laurea in missiologia a Roma. Finito il secondo mandato non rimane disoccupato: è stato richiamato in Italia come rettore del seminario teologico internazionale del PIME, a Monza.

Riciclato

Il Bangladesh è noto per i suoi cantieri di demolizione di vecchie navi. Le trascinano a riva su spiagge inquinatissime e con mezzi primitivi, come formiche all’attacco di un elefante, centinaia di operai si arrampicano e smontano ogni pezzo, recuperando sestanti e bussole, caldaie gigantesche, mobilio, enormi motori, lastroni di acciaio, attrezzature di cucina, campane, scialuppe, tutto. Ma l’arte del recupero si esercita ovunque e in ogni campo, non solo sulle navi. Un martello e un cacciavite ridanno vita a meccanismi da tempo defunti, rimettono in moto autobus e camion stravecchi. Carta, plastica di ogni tipo, bottiglie di ogni materiale, rasoi usa e getta, ossa, metalli, televisori decrepiti… nulla è tanto malconcio da non poter essere ancora usato.

I missionari del PIME hanno imparato quest’arte. Hanno preso un ex superiore generale da dieci anni fuori servizio, gli hanno dato una spolverata, una pacca sulla spalla, qualche buon consiglio e la maggioranza dei voti, e ne hanno ricavato un superiore regionale pronto a svolgere il servizio per quattro anni.

E’ quello che mi è successo il 25 ottobre scorso, durante la nostra assemblea a Dinajpur. I capi di Roma hanno dato conferma, e io entro in carica il prossimo 15 novembre. Devo lasciare l’insegnamento in seminario, e la parrocchia – anche il centro “Gesù Lavoratore” in cui mi stavo inserendo con entusiasmo – e trasferirmi a Dinajpur (nel nord). Il lavoro del superiore regionale in Bangladesh non essendo a tempo pieno, lascia spazio per vari altri impegni che mi chiederanno di viaggiare spesso su e giù per il Paese.

Soluzione radicale

Diverse leggi e trattati internazionali sanciscono vari diritti delle minoranze aborigene, presenti in molti paesi. Rispettarli può essere impegnativo e perciò dare fastidio, o  comportare un onere economico, o creare reazioni dei gruppi di maggioranza che vogliono far valere la legge del più forte. Il Bangladesh ha felicemente trovato la soluzione per tutto questo: in vista della revisione della costituzione, ha deciso di dichiarare che sul suo territorio non esistono gruppi aborigeni.

Si può

Joseph è un bengalese benestante, quasi settantenne, sposato, con vari figli ormai adulti. Chiamato ad offrire una breve testimonianza sulla preghiera nella sua vita, parla a ruota libera, e racconta come da giovane ha potuto andare a frequentare una università negli Stati Uniti. “Tante cose mi sono piaciute, tante altre no. Una però è stata determinante. Vivevo in un campus con migliaia di altri studenti, ho fatto amicizie, ho scoperto con mia enorme sorpresa che questi giovani, per lo più, dicono la verità. Mentiscono pure, certamente, ma normalmente ci si può fidare, non hanno paura di dire che cosa pensano o fanno. Per me, figlio della cultura bengalese, sperimentare che “si può” dire abitualmente la verità è stata un’esperienza trasformante”.

Deserto

Nel deserto di questa regione sfigurata dall’industrializzazione selvaggia, assordata da motori, sirene, altoparlanti, clacson, avvelenata da fumi, gas, polvere, torrida o piena di fango, giorno e notte brulicante di uomini e donne stanchi, sempre di corsa, sempre a corto di tempo, soldi, riposo, amicizie, rispetto… un ragazzo e una ragazza che si vogliono bene, condividono, comunicano, sperano insieme sono un’umilissima, solidissima prova che l’amore non si lascia uccidere neppure dalle condizioni più disumane. Sono una speranza che oltre questo amore piccolo piccolo, bello, fragile, delicato, palpitante ci sia  l’Amore che si è fatto bimbo e crocifisso per aiutarci a capire e accogliere la vita.

Mariano

Non rimane più traccia delle opere – molto semplici – realizzate da P. Mariano Ponzinibbi nella missione di Gulta, avviata da p. Zanchi e fondata da lui prima di diventare superiore regionale del Bangladesh, essere poi trasferito in Italia e successivamente in Cambogia, e morire improvvisamente a 56 anni di età. Il prossimo 6 novembre l’attuale parroco P. Harun Hembrom inaugura il “Mariano Community Centre”, un bell’edificio che si aggiunge alla chiesa, convento suore, ostelli per ragazzi e ragazze, dispensario, casa del parroco – il tutto messo in piedi grazie anche a p. Carlo Buzzi, il missionario “centauro” che si divide fra i Garo a Sirajgonj, i ragazzi e la piccola comunità di Bogra, e la sua assistenza alla missione di Gulta. Le mura dunque sono cambiate, gli edifici sono più belli, ampi, e solidi, ma il ricordo della sua presenza, discreta eppure molto incisiva, è ancora vivissimo. La EMI ha recentemente pubblicato un libro scritto da Enrico Garlaschelli su P. Mariano. Titolo: “Nel tempo dell’assenza”. Bello.

Donna

Jhorna è una hindu bengalese, sposata con un cristiano battista della popolazione koch. Hanno due figli, sono poverissimi. Intelligente, piena di vita, Jhorna lotta per migliorare, serve a lungo il marito ammalato, che la ricambia aiutandola bene quando lei è coinvolta in un brutto incidente. Vendono tutto quello che hanno per superare i lunghi mesi di malattia e recupero, senza lavoro. Da noi si pensa che prima si deve mettere a posto la pancia, poi se c’è tempo si pensa a Dio, Jhorna invece anche in quelle condizioni continua a cercare. “Sono cresciuta hindu, ho frequentato le chiese battiste, e poi quelle cattoliche. Sono queste ultime che mi attirano, perché spiegano bene il vangelo, e perché c’è “Ma Maria” (Mamma Maria, la Madonna). Come donna, ho passato tanti guai, ho capito che con lei m’intendo e mi posso fare accompagnare a incontrare suo Figlio”.

Sima

Alla nascita la chiamano Sima, il padre non vuol saperne di lei perché femmina e scura di pelle. Quando ha 10 mesi per liberarsene la cosparge di acido corrosivo. Non muore, rimane un mostro che non riesce a vedere, mangiare, parlare. L’organizzazione “Acid Survivers” (sopravvissuti all’acido) la aiuta, si susseguono le operazioni. Il padre rimane in galera tre mesi, poi esce, mette in cantiere un altro figlio. Questa volta lo accetta perché è maschio, ma poco dopo si stufa della donna e pronuncia la triplice parola di ripudio: “Talak, talak, talak”. Basta questo, e la moglie è ripudiata. Con aiuti vari la bimba migliora, riesce a parlare, gioca, va a scuola. Torna a farsi vivo il padre, che riprende la donna come seconda moglie. Questo gli dà diritto ai sussidi del governo per le famiglie con membri vittime dell’acido. Sta con l’altra donna, ma regolarmente appare, ritira i soldi e se ne va. La mamma e il figlio sopravvivono con lavoretti e aiuti di “Acid Survivers”, Sima viene messa in un orfanotrofio, dove cresce denutrita e viene picchiata spesso perché bisticcia con le altre bimbe che la prendono in giro.
Giovanna Danieletto se ne interessa. Ne parla a suor Dipika dell’istituto Shanti Rani (Regina degli apostoli), che rimane scossa nel vedere la foto, si commuove sentendo la sua storia, e decide: Sima – che ora ha dieci anni – verrà accolta nel loro ostello a Rajshahi.

Fausto

M’invade una tristezza pesante quando, durante una telefonata da Roma, vengo a sapere quasi per caso che P. Fausto Tentorio è stato ucciso. Ripenso al suo sorriso simpatico, buono, ai suoi scherzi, alla sua semplicità di vita e stile e alla fermezza con cui amava i Manobo, il popolo cui aveva scelto di dedicarsi, nella parte centrale di Mindanao (Filippine). Penso che ancora una volta la comunità del PIME è stata colpita in una persona che faceva sul serio, penso allo sgomento dei Manobo e alla paura che questo assassinio diffonde. Mi sento come soffocare dall’onda putrida di corruzione, violenza, insensatezza, odio, disumanità che travolge sempre tutto.
Poi, lentamente, si fa strada un timido “grazie”. Grazie a Fausto, perché ha scelto proprio di nuotare in quest’onda conservando, anzi rendendo sempre più determinato e puro il suo cuore buono, la sua voglia di giustizia, la sua fede umile e senza pietismi, concreta. Grazie a Dio che ci manda di questi uomini, molti di più di quello che appare. Grazie alla Chiesa che, con tutte le sue contraddizioni, rimane madre di queste persone che percorrono la strada di Gesù.
Non hanno tolto la vita a Fausto, l’aveva già donata lui stesso. Questo pensiero mi apre alla gioia, la gioia liberante di sapere che si può davvero vivere e morire in un altro modo, non da schiavi ubriachi ma da uomini liberi, non disperatamente attaccati ai miseri brandelli che abbiamo, ma aperti ad un Incontro di luce.