Pneumatici

L’intensa campagna in corso di scioperi generali, proteste e manifestazioni, ha fatto lievitare i prezzi dei pneumatici usati. I rivenditori sono soddisfatti, e dichiarano di venderne in numero molto maggiore e a prezzi più alti, perché pare siano il combustibile ideale per questo genere di attività.

Tania

E’ arrivata ultima di un bel gruppetto di fratelli e sorelle. In gravidanza, la mamma cade malamente e i dottori sentenziano: “Tutte e due no, forse una delle due si salva, ma difficile dire quale…” La mamma tira dritto e sono vive entrambe. Tania Pasqualina, come l’hanno battezzata appena venuta al mondo, era settimina, gracile e spesso in pericolo. La mamma l’ha messa davanti alla statua della Madonna e le ha detto: “Me l’hai data e ora la lasci andare? Te la offro, ma falla stare bene…”
“Te la offro”. Tania, una ragazza piena di vita, carina, solare, sente la sua storia e queste parole della mamma come un piccolo miracolo dell’amore e un privilegio: essere viva per donarsi a Dio. Ha pronunciato i primi voti il 4 gennaio scorso, e sogna di annunciare il vangelo nei villaggi con le suore Santi Rani.

Fasi

Un editoriale del quotidiano “New Age” (17.1.13) riassume le fasi di lotta dello squadrismo dell’ala giovanile del partito al potere Awami League. La prima era evidente: vinte le elezioni, i bravi studenti universitari (molti ultraquarantenni) si sono armati di bastoni, coltelli, accette, spranghe, biglie di ferro, pistole e altri giocattoli e hanno creato terrore puro, sistematicamente buttando fuori i colleghi dell’ala giovanile del partito BNP, sconfitto, da ostelli universitari, mense, dormitori, campi da gioco, concorsi, ammissioni e via dicendo. Eliminati i nemici, le armi si sono rivelate utili per eliminare gli amici: lotte feroci fra gruppi e circoli della stessa Awami League, con feriti, tendini tagliati, incendi, morti. Spartitisi il potere, i giovanotti rischiavano la disoccupazione, e allora si sono dedicati con zelo a rapimenti, estorsioni, violenze sessuali e qualche sporadico assassinio. L’avvicinarsi delle elezioni li ha distolti poi da questi impegni, e ora fanno i picchiatori e le squadracce a favore dei loro colleghi adulti: assalti a sedi di partiti avversari, interruzione violenta di comizi, sparizioni di nemici politici, pestaggi alla grande.
Praticamente tutto impunito.

Peperoncino

Dal 2006 a oggi, dicono loro, le guardie di frontiera indiane hanno ucciso 260 poveracci che cercavano di passare il confine. Secondo le guardie di frontiera del Bangladesh, sono molti di più. Gli Indiani si giustificano dicendo che il contrabbando dilaga (tessuti e sari, bovini, droga, ogni genere di prodotti che vanno nell’una o nell’altra direzione) e che fanno uso di pallottole di gomma non letali, ma che invece spesso letali diventano. Ora ne stanno inventando un’altra, e dicono che presto entrerà in uso per la maggiore sicurezza dei contrabbandieri. Gli esperti hanno accuratamente selezionato la varietà più piccante di peperoncino che esista al mondo,  che viene prodotta proprio in India. Hanno provato a metterla dentro granate che, esplodendo, spargono una nube di polvere di questo vegetale, praticamente paralizzando il malcapitato che si trova nei dintorni. Il quale verrà poi debitamente curato, interrogato, punito, multato e rimesso in libertà, pronto per un’insalata o per un curry infuocato.

Enzo

Quasi in punta di piedi, come aveva sempre desiderato, nella notte del 28 novembre p. Enzo Corba ci ha lasciati dopo 81 anni di vita, 54 di missione, 56 di ordinazione sacerdotale. E’ sepolto nella “sua” Singra, un villaggio santal a nord di Dinajpur. Sulla croce in cemento della tomba ha fatto scrivere in bengalese: “Nelle tue mani, o Signore, ho affidato la mia vita”.
Difficile descrivere l’umanità sanguigna di Enzo, appassionata eppure pacata, e che ispirava confidenza. Ha avuto una vita intensissima, sempre guidata dalla ricerca di quel Gesù che lo aveva chiamato e che voleva seguire come un salvatore incisivo, senza fronzoli e spiritualismi, capace di capire le pene dell’uomo, le sue debolezze, di esigere molto e perdonare tutto, di entrare profondamente nell’esistenza specie dei poveri e degli umili. Vive la prima fase del suo servizio in Bangladesh come missionario “tradizionale”, inserito in una missione, visitando i villaggi, amministrando i sacramenti e organizzando le attività educative e caritative. Ma non gli basta, sente che missione è andare oltre. Segue con grandissima speranza il Concilio, di cui coglie soprattutto la spinta missionaria, l’apertura ecumenica, l’invito ad una chiesa dei poveri, vicina al vangelo, libera da appesantimenti inutili. Durante la sanguinosa guerra che nel 1971 in dieci mesi porta il Pakistan Orientale a diventare Bangladesh, dovrebbe essere a Roma, al “Capitolo di aggiornamento” postconciliare del PIME. Ma rimane a condividere le sofferenze e rischi della guerra. Come superiore in Bangladesh, accoglie poi a cuore aperto i nuovi missionari che vengono mandati numerosi approfittando del momento politico favorevole, e gestisce bene le tensioni inevitabili fra anziani e giovani: si schiera con i giovani, le idee, le esperienze nuove, ma restando cordialmente e lealmente aperto e rispettoso di ogni persona, di ogni idea, e di ogni esperienza.
Nel 1972, invitato dal vescovo di Chittagong, il suo grande amico Joaquim, si coinvolge concretamente in qualcosa di nuovo. Vive per 17 anni in un isolato villaggio nella pianura alluvionale del sud lavorando la terra, pregando, intessendo rapporti con tutti, facendo avvicinare e collaborare le comunità musulmana, indu e cristiana. Sembra che ogni barriera ideologica, religiosa, razziale, culturale che c’era in lui crolli, e allo stesso tempo il vangelo diventi per lui sempre più significativo e incisivo grazie alle molte ore di meditazione, allo studio, e al costante sforzo di metterlo in pratica. Contadino apprezzatissimo per esercizi, ritiri, direzione spirituale a preti e suore, prete cui si rivolgono protestanti, musulmani, indu, si fa amici in tutti gli ambienti e stimola il PIME a non fermarsi né accontentarsi mai. Irritante a volte nella sua chiarezza e insistenza, non diventa mai fanatico né rompe i rapporti. Sa ammettere i suoi sbagli; il mio rapporto con lui divenne intenso poco dopo il mio arrivo in missione proprio dopo uno “scontro” seguito da una leale chiarificazione.
Dirà poi che questi del villaggio sono gli anni migliori della sua vita, rimpiangendo un poco di non esservi tornato. Nal 1991, i superiori lo mandano nelle Filippine a fondare un centro di formazione missionaria per catechisti, laici, preti e suore di paesi asiatici. In collaborazione e dialettica con p. Sebastiano D’Ambra, incoraggiato da p. Salvatore Carzedda che nel 1992 verrà ucciso a causa del suo impegno per il dialogo, avvia una struttura e un programma che riflettono bene il suo stile essenziale, concreto, di condivisione. Ma non ne è soddisfatto del tutto, vorrebbe maggiore radicalità. Al suo ritorno in Bangladesh nel 1997 riparte con un progetto analogo, specificamente orientato alla formazione di laici e contadini, uomini e donne che si formano al vangelo lavorando ogni giorno con le loro mani per guadagnarsi il riso che mangiano anche durante i corsi di formazione. Tutti lo ammirano e lodano, ma chi lo segue? Ha successo fra i laici, ma i preti gli sembrano tiepidi o freddi, più interessati a gestire le strutture che a muovere i cuori.
Fino all’ultimo pensa, propone, critica, incoraggia. Al suo funerale il Vescovo mons. Sebastian pronuncia un’intensa omelia semplicemente spiegando i contenuti dell’ultima lettera che Enzo aveva scritto, pochi giorni prima, sulla diocesi di Dinajpur, le sue priorità, il suo futuro. Un gesuita indiano, che ha concluso un corso personale di esercizi con Enzo a Singra, proprio il giorno precedente la sua morte, mi ha telefonato commosso: “Non lo conoscevo, sono andato da lui perché ne avevo sentito parlare. Ho trovato un uomo magnifico, ho avuto il dono di colloqui profondi, di celebrare con lui la sua ultima Messa, e con lui fare la più bella confessione della mia vita. Era pronto ad incontrare Gesù, di cui aveva un intenso desiderio.’
Era il nostro “guru”, il patriarca, l’amico. Sapeva cucinare magnificamente l’oca.

Bishwajit

9 dicembre 2012, ore di violenza durante l'”hartal“. Il giorno dopo i media mostrano in tutti i dettagli gli attimi terribili del linciaggio di un giovane che, inseguito da un gruppo di studenti del partito Awami League contrari all’hartal, viene selvaggiamente picchiato con bastoni, spranghe di ferro, accette. Sanguina profusamente, cerca rifugio in una casa, al primo piano, in un negozio. Lo raggiungono e colpiscono fino a che crolla mormorando in un soffio: “Fratelli, abbiate pietà, sono un indù…”. I passanti assistono terrorizzati, poi lo portano in ospedale dove muore. Si chiamava Bishwajit, 24 anni, era un sarto, indù, che tornava a casa ed era coinvolto nello sciopero come lo siamo io e voi che mi leggete.
I media pubblicano le scene dell’omicidio. Due giorni dopo, per placare la richiesta di giustizia, vengono arrestati tre giovani a caso. Giornali e Tv mostrano che nessuno dei tre era presente al linciaggio. Il governo sostiene che gli assassini sono dell’opposizione, e i giornali ripubblicano le foto del linciaggio, mettono in evidenza i volti degli assassini e li mostrano in altre foto riprese durante marce e comizi dell’Awami League, sempre in prima fila con i pezzi grossi del partito. Si dice allora che Bishwajit era un fondamentalista, e la gente si domanda se siano impazziti: non esiste al mondo un musulmano con quel nome tipicamente indu; poi che non si sa chi l’abbia ucciso, e vengono ripubblicate le foto del linciaggio; poi che gli assassini hanno tutti parenti e amici nei partiti di opposizione e quindi sono infiltrati che hanno compiuto il pestaggio per screditare l’Awami League; infine, si sentenzia che comunque la colpa non è di chi ha ucciso, ma di chi ha organizzato lo sciopero sapendo che avrebbe generato violenza. L’ultima arma dei giornalisti per costringere il potere ad ammettere la sua colpa sono il ridicolo e l’ironia: fortunato Bishwajit che si chiamava così, se avesse avuto un nome diverso, anche solo lontanamente ipotizzabile come musulmano, avrebbero scoperto il suo nome scritto in lettere cubitali su una montagna di materiale sovversivo, bombe, piani di attentati… dotati di poteri taumaturgici i passanti che lo hanno portato in ospedale: tutti i segni dell’orrendo pestaggio sono scomparsi al momento dell’autopsia, e sono rimaste solo alcune escoriazioni, forse se gli avessero fatto un’iniezione di acqua calda sarebbe pure risorto…

Elezioni e processi

Raffica di “Hartal“, cioè sciopero generale con blocco totale della circolazione; fortissima tensione in tutto il Bangladesh. Si avvicinano le elezioni la cui organizzazione, secondo la Costituzione, dovrebbe essere curata da un governo istituzionale e quindi presumibilmente neutrale, che resta in carica solo tre mesi. Sei anni fa la coalizione BNP al potere aveva grossolanamente “aggiustato” le cariche istituzionali per assicurarsene il favore, ma l’opposizione Awami League (AL) non era stata al gioco. Mesi di manifestazioni di piazza pesantissime erano sfociati nell’intervento dell’esercito, che aveva affidato il potere a un “suo” governo civile straordinario, rimasto in carica due anni. Ora, al potere c’ è l’Awami League, che vuole cambiare le regole eliminando il governo istituzionale per gestire direttamente le elezioni. Il BNP non ci sta, e si rivivono le stesse pesanti storie, a ruoli scambiati.
S’aggiunge, grave, la questione dei processi per crimini di guerra. Decine di imputati, fra cui tutto il gruppo dirigente del partito fondamentalista Jamaat-ul-islam, devono rispondere di crimini durante la rivolta che nel 1971 fece nascere il Bangladesh, staccandolo dal Pakistan. Storie vecchie, ma molto vive nella memoria; problemi che solo ora vengono affrontati dall’Awami Legue perché prima non era abbastanza forte per farlo. Bloccare i processi, ecco un’altra causa, dichiarata solo da gruppuscoli islamici, ma ben presente a molti filo pakistani, fondamentalisti e nazionalisti di destra, per scioperi e sabotaggi a catena. Nell’incendio che poche settimane fa ha devastato una grossa fabbrica di abiti nella zona industriale di Asulia, sono morti 150 lavoratori, quasi tutte giovani donne. Un’inchiesta appena conclusa sostiene che si sia trattato di incendio doloso. Il governo cavalca la tesi del sabotaggio per creare disordini politici, forse perché vera, forse perché fa comodo e protegge dall’accusa di negligenza grave nelle misure di sicurezza.
Chissà se dietro le quinte si sta di nuovo preparando l’esercito?