Niente da fare, magari di poco, ma il sonno se ne va sempre prima che suoni la sveglia. E’ ancora buio, riaffiora il pensiero dell’ultima telefonata di ieri sera e delle lacrime che sono arrivate fino a me in cerca di consolazione. Poi un lavoro non finito… il programma o lo “sprogramma” di oggi… quella famiglia terrorizzata dai creditori… il rendiconto del progetto da stendere… Il primo “muezzin”, quello che ha l’orologio in anticipo, inizia il suo canto roco, e uno dopo l’altro arrivano i tanti che chiamano a pregare: uno pio e ben modulato, uno trasandato, l’altro stonato… Penso alle strade che si animano di rari passanti, tutti uomini, diretti frettolosamente alle moschee, molti con le tonache svolazzanti. La doccia fa bene, e un caffè, ma… ci vuol altro!
Ed ecco il miracolo quotidiano che continua a stupirmi, che non so spiegarmi, di cui sono infinitamente grato. Con tutto quello che ho da fare, mi trovo a perdere un sacco di tempo
in cappella. Lì la solitudine si colma di presenza. Lì i problemi non scompaiono affatto, anzi diventano più chiari e impellenti, ma si immergono in un invisibile, incomprensibile mistero d’amore. Lì vedo il tempo vissuto e il tempo che m’attende come un dono da riempire di vita, mia e altrui. Lì recupero alla mia coscienza i piccoli grandi segni che non tutto è insensato, inutile, vuoto, crudele.
Com’erano le albe del Figlio dell’Uomo?
Archivio mensile:Marzo 2014
Scandalo
Prendo il coraggio a quattro mani e m’arrischio a scandalizzare qualcuno, condividendo qualche punto interrogativo che la vita in Bangladesh continua a pormi.
Matrimonio. Sarà vero che il matrimonio combinato dai genitori è un’esecrabile tradizione da “superare”? Fuori dubbio che la vita moderna lo sta rapidamente mettendo fuori uso, e scomparirà, ma forse non vale proprio la pena di accelerarne il processo di eliminazione. Certo, se immaginiamo una ragazza piangente trascinata a forza a dire sì ad un uomo, vecchio e prepotente, che non ha mai visto, o a un giovane che non può sopportare, allora non ho dubbi. Ma se ci guardiamo attorno e vediamo due giovani che, cresciuti, hanno voglia di sposarsi, e le loro famiglie che si guardano attorno con attenzione, riflettono, parlano, si consigliano, e alla fine li presentano l’uno all’altra; e se vediamo che i due giovani, fiduciosi che papà e mamma cercano il loro bene, si trovano accettabili, poi incominciano la loro vita sapendo che saranno accompagnati da regole e consigli delle famiglie e della comunità, che se ci saranno crisi qualcuno li aiuterà a risolverle, che dovranno servire i genitori ma saranno sempre appoggiati da loro… ma! Sarà proprio peggio questo di una “fuga d’amore” frutto di un innamoramento repentino, o di desiderio di ribellione, seguita da delusione, infinite litigate, rotture?
Governo. Attribuiscono a Churchill la riflessione: “La democrazia è un pessimo modo di governare, ma gli altri sono peggio”. Sarà vero che non si può pensare a qualcosa di diverso (e di meglio) che la democrazia? Quella che comporta partiti perennemente in lotta fra loro, che si esprime con votazioni a seguito delle quali la maggioranza fa quel che vuole, che presume di essere la forma giusta e di imporsi in qualunque cultura e situazione? Forse culture diverse non possono avere modi diversi di esprimere la partecipazione, oltre a quello “magico” delle urne e del criterio “la maggioranza vince”?
I disastri delle dittature sono noti a tutti, e sono terribili. I disastri delle attuali forme di democrazia chi li prende sul serio?
Ho altri dubbi, ma per ora mi fermo qui…
Oggi
8 marzo 2014, mi trovo a Rajshahi – sulla riva sinistra del Gange. Celebro alla Messa nella chiesetta del CAM (Centro Assistenza Malati) davanti alle ragazze di due ostelli, parecchie suore, alcuni dipendenti. Nonostante i buoni propositi serali, dimentico di fare gli auguri alle donne presenti – e sono la maggioranza. Che figura… Omelia breve breve, ma non si può omettere: che non pensino che sono da meno del Papa!
Colazione, poi giro con le infermiere nelle due sezioni del CAM. Alla sezione TB ci sono oggi 29 ammalati, quasi tutti con TB ghiandolare. Un’ammalata – arrivata ieri, è in fase contagiosa e va accompagnata all’Ospedale, insieme ad altri 12 già ricoverati, mentre uno sta all’ospedale generale; anche loro vengono seguiti dal personale del CAM. Segue breve preghiera, poi i malati della sezione generale – 29 pure loro, oltre a 9 in ospedale – salgono a gruppetti sul microbus che fa la spola per portarli chi ad una visita, chi ad un esame, chi all’ammissione. Torneranno verso le 13. Le sale da pranzo sono i davanzali delle verande, con piatti e bicchieri disposti in bell’ordine lungo la balaustra, così si mangia con lo sguardo sul giardino fiorito. Poi ognuno lava le sue stoviglie e prepara per la merenda e la cena. Le posate non occorrono. Nelle sezioni femminili ci sono alcuni bimbi piccoli, con le loro mamme o sorelle o zie. In giornata alcuni ammalati tornano a casa, altri arrivano, mandati dalle varie missioni: cristiani, indù, musulmani, bengalesi, aborigeni… chi ha già una diagnosi, ma deve controllare, oppure ha una chemioterapia; chi non ha ancora visto un medico. Accoglienza; domani tocca a loro salire sul microbus e andare dove le infermiere ritengono opportuno per la loro condizione. Un mondo di sofferenza sereno, molto discreto, che cerca di non farsi notare. Posso chiedere a chiunque “come va?” e sono sicuro che subito dice “bene”. Poi magari aggiunge: “Ho un fortissimo dolore, sto male, ho la febbre, sono in cura da mesi senza risultati…”
Verso le 11 faccio quattro passi e arrivo a Snehanir, la Casa della Tenerezza. Venticinque ragazzi e ragazze dai 5 ai 20 anni, per lo più con disabilità fisiche, tre mentali, altri “normodotati”. Una comunità “mista” per vari aspetti, in cui vado sempre molto volentieri: serena, vivace, dove la condivisione fa norma, guidata da suor Dipika con l’aiuto di suor Carolina, anche lei con handicap, la sordità. Passo qualche ora a fare conti per mandare a Milano il resoconto del 2013: si va avanti, infatti, grazie al “Sostegno a Distanza” (o “adozioni a distanza”) di molti amici italiani. Poi mi avventuro nel tentativo di far scrivere a ciascuno una frase in italiano, da mandare al rispettivo o rispettivi donatori. Impresa ciclopica che i ragazzi affrontano con allegria. Faccio quattro chiacchiere con i nuovi arrivati, il simpaticissimo Anup, la nuova mascotte di cinque anni che cammina solo con il girello. Ha ancora bisogno che la mamma stia con noi per aiutarlo, ma rapidamente impara a mangiare da solo e a cavarsela in molti modi, stimolato dall’esempio degli altri. Emily, 14 anni, caduta nel fuoco da bambina, è guarita ma la pelle pian piano si è formata saldando il braccio destro al torace. Speriamo in ottobre di farla operare e “liberare”. Intanto, impara a danzare con le altre ragazze, ed è felice.
Le danze arrivano infatti verso le 18.30, in onore dell’amica Virginia, che viene ogni anno da Senna Lodigiana per portare e ricevere affetto. La chiamano “Lal Pisci” “zia rossa”, per via dell’abito che indossava al primo incontro con loro; questa sera veste di blu, ma il nome rimane. Le ragazze più grandi stanno proprio imparando bene, si fanno carine, si divertono un mondo; ma le piccoline non sono da meno. Tutti hanno la loro parte di spettacolo. Mira – spastica – fa un “a solo” di danza veramente inedito, e spontaneamente le si affianca Susmita, down, staccandosi dalle braccia di Virginia. Martin, che vive in una barella con le rotelle e fa il contabile al SAC, suona con gusto la tobla (tamburelli)…
Ritorno al CAM dopo le 21, stanco morto, per mettere in ordine le idee per l’omelia di domani, domenica. E per dire grazie.
Mosè
Quattro giorni, otto conferenze di circa 40 minuti l’una, su 15 versetti della Bibbia: Esodo 3, 1-15 – vocazione di Mosè. Ci ha intrattenuto così (senza stancarci, questo il miracolo!) dal 25 al 28 febbraio scorso don Davide Caldirola, che non ha alle spalle anni di studi biblici, ma il normale curriculum di un normale prete, oggi parroco a Milano. Il di più che ha, è una grande passione per la Parola di Dio, costanza nel meditarla anche con altri, senso pratico nel trovare gli accostamenti alla realtà che viviamo. Ha cercato di farci sentire dei piccoli Mosè, carichi di pretese andate in fumo, di dubbi su chi realmente siamo, qualche volta di rimpianti per le cipolle che avremmo potuto avere, custodi di un gregge che non è nostro, spesso aridi come un deserto – ci è riuscito, come è risucito a farci percepire che il fuoco che arde ma non consuma c’è, in mezzo al rovo aggrovigliato e spinoso che è la nostra vita, e che da quel rovo infuocato continua a chiamarci e a farci togliere i sandali il Mistero di una fede che chissà come è rimasta viva, e ci attira – e ci manda, patetici pastori sbrindellati, a cercare di dar fastidio a un Faraone furbo e ottuso allo stesso tempo, potente, ostinato. E alla fine, riesce pure a farci sgusciare lontano da lui, verso una libertà che lui neppure sa che cosa sia… Un bel grazie a don Davide!
Lingua madre
I Bengalesi sono appassionati della loro lingua e dei loro poeti. Il 21 febbraio si celebra la giornata dei “martiri della lingua”, uccisi nel 1952, durante manifestazioni per impedire l’imposizione dell’urdu come unica lingua nazionale; da allora prese forza il movimento che è sfociato nell’indipendenza dal Pakistan. Con gli anni, l’ONU ha accettato di proclamare quella data come “giornata della lingua madre”, a onore e difesa di tutti i linguaggi che si usano nel mondo. Anche i cristiani sentono molto questo amore linguistico, compresi – sembra – gli aborigeni per i quali la lingua madre è tutt’altra: si uniscono al coro di elogi del bengalese, con molta – almeno apparente – convinzione. E la Chiesa ha accolto questo fatto culturale preparando una liturgia speciale per quel giorno. Si legge, come prima lettura della Messa, la storia dei sette fratelli Maccabei, che si lasciano uccidere per rimanere fedeli alla legge dei loro padri – implicando che i martiri della lingua siano stati come loro. Si legge s. Paolo, “nulla, neppure la morte ci può separare dall’amore di Cristo” – implicando che neppure la morte ci separa dall’amore per la nostra lingua. Si legge il Vangelo con le parole di Gesù “non temete coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima” – implicando che la fedeltà alla propria lingua sia salvezza dell’anima. Si prega per ringraziare di una lingua così bella, e per chiedere che venga conosciuta e usata appropriatamente.
Il bengalese davvero è una bella lingua, ricca, sonora, dolce, e questo amore per la lingua e la cultura mi commuove. Ma sinceramente gli accostamenti biblici mi lasciano molto perplesso.
E mi chiedo anche: quando gli aborigeni, ancora ufficialmente inesistenti nelle Carta Costituzionale del Bangladesh, vedranno riconosciute la loro esistenza e le loro lingue?
Malattia
Nel corso di un Seminario organizzato il 18 febbraio 2014 dal ministero della salute, sono stati comunicati i risultati di alcune ricerche, effettuate da organismi vari, circa l’incidenza della malattia sulle condizioni economiche della gente. Ogni anno, a causa di malattie che colpiscono membri della famiglia, passano sotto il livello di povertà 6 milioni e quattrocentomila persone, circa il 4% della popolazione del Bangladesh. I poveri spendono mediamente in medicine, visite, esami clinici e altro il 16,5% delle loro risorse, i ricchi circa il 9,2%. Il divario, non eccessivo, va attribuito anche al fatto che moltissimi poveri non si curano affatto. Delle risorse messe in circolazione per la sanità, il 64% sono private, il 36% di origine governativa o altro. Le spese pro capite per la salute in Bangladesh sono le più basse fra i paesi del sub-continente: 27 dollari all’anno, contro i 30 dollari in Pakistan, 33 in Nepal, 59 in India, 97 in Sri Lanka. Negli ultimi anni s’è verificato un calo considerevole nella mortalità materna e infantile, mentre continuano carenza di medici, infrastrutture, infermieri, equipaggiamento, e risulta sempre difficile trovare medici che accettino di lavorare in zone rurali.