“Belle per sempre” è il titolo di un libro che m’ha subito ricordato il famoso “La città della gioia” di Dominique Lapierre, pubblicato nel 1985 e ambientato negli anni ’70. Era un modo originale ed efficacissimo di descrivere la vita nel più grande e terribile “slum” (baraccopoli) di Calcutta, seguendo le storie personali di alcuni degli abitanti, mettendo in evidenza le condizioni disumane in cui si trovavano, a anche l’indomabile ricchezza umana che c’era in molti di loro; e descrivendo il tentativo di un missionario francese di condividere in tutto la loro vita.
“Belle per sempre” è ambientato invece a Mumbay, non ha un missionario come protagonista, ma ha uno stile analogo: seguire alcune storie autentiche di persone immerse nella miseria dello slum più vicino all’aeroporto della metropoli. Il contesto in cui si trova lo slum che descrive è quello di un’India ben diversa. Un’India in pieno “boom”, dove i soldi corrono, modernizzata, che cresce in modo travolgente e offre anche a chi è finito in uno slum la speranza, o il miraggio di venirne fuori, di “fare fortuna”. Un’India profondamente e capillarmente corrotta, cinica, dove si fa qualsiasi cosa per denaro, le tensioni fra etnie, religioni, provenienze geografiche emergono spesso, la vita vale pochissimo.
Perché questo titolo? Lo lascio scoprire ai lettori. Ne parlo nelle schegge “di Bengala” anche se è ambientato a Mumbay, perché mi pare che ci siano moltissime analogie con la situazione del Bangladesh, e che valga la pena leggerlo.
Katherine Boo: “Belle per sempre” Piemme, Milano, 2012
Archivio mensile:Giugno 2015
Copertura
“Poela Boishak”, il capodanno bengalese che nel 2015 è caduto il 16 aprile, è una festa molto sentita da tutti in Bangladesh, anche se osteggiata dai musulmani tradizionalisti perché considerata pagana. Centinaia di migliaia di persone vanno a festeggiare in parchi, campi aperti, stadi, e ci sono canti, danze, discorsi che esaltano la cultura e la tradizione del Bengala, a prescindere dalle religioni. Quest’anno a Dhaka, mentre la folla si accalcava ai cancelli di un parco, gruppetti di giovani (in tutto una cinquantina) hanno iniziato ad isolare ragazze, circondandole e mettendo le mani addosso, strappando il velo, disturbandole pesantemente. La polizia, presente in forze, non ha agito, la gente cercava di allontanarsi a spintoni facendo finta di non vedere, qualcuno s’è unito al “divertimento”. A difendere le ragazze sono stati pochi, forse una dozzina di giovani che hanno rischiato e sono stati picchiati, uno ha avuto un braccio rotto. Si chiama Liton, è fra i leader di un partitello studentesco progressista. I giornali ne hanno parlato, le autorità hanno detto che a loro non risultava nulla, e che avrebbero rese pubbliche le registrazioni delle telecamere fisse collocate attorno al parco. C’erano 18 telecamere, e sono state passate ai media i contenuti di 17; mancava solo quella collocata sul cancello dov’è avvenuto il fatto. Un funzionario ha dichiarato di averla esaminata accuratamente, “ma non ho visto alcuna donna nuda”. Per settimane la notizia è stata snobbata e negata in tutti i modi. Qualcuno ha dato la colpa ai fondamentalisti, che avrebbero organizzato l’assalto per screditare il “Poela Boishak”. Parte della stampa non ha mollato, gruppi universitari hanno continuato a protestare anche se pesantemente pestati dalla polizia. Poi, improvvisamente, il governo mette una taglia di 1.000 euro su una decina di giovani, pubblicandone le foto estratte dai contenuti delle telecamere. Perché tanto tempo e tanti dinieghi? C’è chi pensa che si sia voluto accuratamente coprire qualcuno, evitando di pubblicare foto di “figli di papà” impegnati in questa impresa.
Deterrente
Non siamo certo gli unici al mondo, comunque anche nelle città del Bangladesh capita di inoltrarsi su un marciapiedi o di svolare in un vicolo e… ritirarsi disgustati. Il posto, per varie ragioni, è comodo ed è diventato una latrina a cielo aperto. La gente protesta, i giornali richiamano le autorità, e allora si mette un cartello in bella vista “Vietato Orinare”. Nessuno ci bada. Che fare? L’amministrazione di un quartiere di Dhaka ha avuto un’idea: tolta la scritta in bengalese, ha fatto dipingere sul muro incriminato una grossa scritta in caratteri arabi. Nessuno sa leggerla, ma l’arabo, che è lingua legata alla religione e istintivamente considerata sacra, in questi casi funge da efficace deterrente. Gli abituali frequentatori del luogo, quando la vedono decidono di cercare un altro posto, e se per caso, senza accorgersene, iniziano la solita operazione al solito posto, quando si rendono conto della scritta si ritraggono immediatamente, si guardano intorno imbarazzati, con l’aria di scusa, e certo non torneranno più.
Lo scopo è raggiunto. Però la giornalista che ha informato di questo fatto si chiede se non sarebbe meglio lasciar perdere l’arabo e costruire gabinetti pubblici, magari anche per donne.