Fastidio

Recentemente, cinque giovani operaie cristiane che vivono in una stanzetta a Dhaka sono state avvicinate due volte da sconosciuti e minacciate: “Siete cristiane? Che ci fate qui?  Sgombrate il quartiere o vi facciamo sgombrare noi, ci date fastidio” “Perché?” “Perché voi cristiani sostenete il governo che è nemico dell’Islam, e impicca i nostri fratelli maggiori…”

Storia

Il 18 novembre è stata confermata, ed eseguita per impiccagione pochi giorni dopo, la condanna a morte di altri due “criminali di guerra”, per fatti accaduti nel 1971. Erano stati oppositori all’indipendenza del Bangladesh, ma – tornati dopo un breve esilio – avevano ricoperto ruoli importanti nel partito islamico Jamaat, o in quello nazionalista BNP, e anche nel governo. La condanna potrebbe essere una con-causa delle azioni terroristiche eseguite in varie parti del Paese contro stranieri, cristiani, hindu e templi, simboli del sostegno all’indipendenza, considerata un rifiuto dell’islam nel cui nome Pakistan Occidentale e Orientale avevano formato un’unica nazione. S’è fatto sentire anche il governo del Pakistan, prima esprimendo preoccupazione per le condanne, e poi negando che ci siano stati nel ’71 repressioni e stragi. A sentir loro, addolorato per l’ingratitudine dei loro fratelli Bengalesi che volevano separarsi, l’esercito pakistano per tutto quell’anno protesse la gente dai comportamenti banditeschi di alcuni fuorviati, distribuì caramelle, sostenne i poveri, protesse la castità delle ragazze; usando parole dolci e lacrime fece del suo meglio per tenere il Pakistan unito con vincoli di sincera fraternità, caparbiamente respinto dai “banditi” che volevano separarsi mettendo in pericolo l’Islam…
Furibonda la reazione del Bangladesh, a livello diplomatico, e di “società civile”. Stampa e TV sono inondati di testimonianze, rievocazioni, fotografie che ricordano le atrocità commesse, la strategia volta ad annientare la classe colta del Bengala, per tenere unito – e sottomesso – un popolo di poveracci analfabeti. Culmine della reazione, il 14 dicembre, “Giornata degli intellettuali martiri”, data in cui l’esercito diede la caccia casa per casa a professionisti, intellettuali, insegnanti, scienziati, artisti, massacrandoli indiscriminatamente: un’inutile, crudele vendetta due giorni prima di firmare la resa incondizionata all’esercito indiano (16 dicembre 1971). L’Università di Dhaka ha sospeso ogni rapporto accademico con tutte le università pakistane, finché non venga riconosciuta la verità storica delle stragi.

Protezione

Dopo l’assassinio o il tentato assassinio di stranieri, e di un pastore battista bengalese, le forze di polizia sono in allarme rosso, e sotto enorme pressione del governo, perché ci proteggano. Chiuso uno dei due cancelli della missione, giorno e notte quattro poliziotti presidiano l’altro, controllando chi entra e chi esce. Ci pregano di non uscire troppo, ma quando serve siamo liberi di farlo, purché accompagnati da uno di loro. Possiamo andare anche lontano: allertando il comando due giorni prima, manderanno una scorta.
Il giorno dopo aver ricevuto queste disposizioni, da Khidirpur (70 chilometri da Dinajpur), telefona p. Almir, che s’è malamente tagliato un piede e sanguina molto. Massimo, l’infermiera suor Dipty e io in un attimo siamo al cancello con l’auto. Ma non abbiamo avvisato due giorni prima, e i giovanotti di guardia sono smarriti. Si accertano che non si tratti di un attentato, e che il ferito sia uno straniero (“se è un bengalese non conta…”). Telefonano freneticamente a vari numeri, spiegano e rispiegano, ci fanno spiegare e rispiegare, ricevono ordini confusi. Si fanno dare e ridare nomi e numeri di telefono. Chiedono e richiedono dove andiamo, quando torniamo, che strada facciamo. Poi,
raggianti, annunciano che l’auto di scorta arriva in un minuto. Aspettando,.più volte esprimiamo il desiderio di arrivare sul posto prima che il ferito sia dissanguato… Si dicono d’accordo, e ci tranquillizzano: “Ormai è qui…”
Con perplessità ci lasciano spostare l’auto sulla strada, pronta per partire. Si fa avanti un tale in borghese con taccuino, rifà tutte le domande, prende nota, chiede i numeri di telefono, telefona più volte – sorridente e rassicurante. Colpo di genio di Massimo: “Senta, la vostra auto deve arrivare dalla direzione in cui dobbiamo andare, noi ci avviamo e ci incontreremo”. Telefonata, permesso, si parte.
I chilometri scorrono, incominciano le telefonate: dove siete? Dove andate? Quanti siete? Com’è la vostra auto? Vi aspettiamo al ponte sull’Atrai… Massimo fila veloce, al ponte non c’è nessuno. Poi ecco una camionetta, saluti cordiali. “State tranquilli, noi vi precediamo”. –
40 chilometri all’ora…
Intanto p. Almir, capita l’antifona, s’è fatto portare da una motocicletta fino a Fulbari. Quando vi arriviamo si deve cambiare pattuglia di scorta, e ci vuol tempo a spiegare che sì, intendevamo arrivare a Birampur, ma ora non conviene proseguire per altri 15 chilometri fino là e poi tornare, dal momento che l’infortunato stesso è arrivato a Fulbari. Discussione, telefonate, consenso. Con la nuova scorta raggiungiamo p. Almir e lo carichiamo.
“Precediamo noi” dice Massimo con tono leggermente minaccioso. “Ok, precedete”. In poco tempo la camionetta è fuori orizzonte, e ci telefonano: “Ma voi andate in fretta! Dateci dentro, troverete un’altra scorta più avanti”. Ogni tre minuti, telefonata per chiedere dove
siamo e indicare dove ci attendono… ma non li troviamo, finché, a pochi chilometri da Dinajpur, un gruppo di giovanotti in divisa ci ferma.
Si accerta sulle nostre condizioni di salute e chiede dove andiamo. Poi, due di loro saltano su una piccola motocicletta per seguirci. Li seminiamo, ma il tratto finale di strada è così sconnesso che ci raggiungono e facciamo trionfale ingresso all’ospedale tutti insieme: il
ferito, l’infermiera, l’autista, il sottoscritto e due poliziotti garanti della nostra incolumità.
Mentre il medico sistema la ferita, aspettando di accompagnarci a casa, esprimono sdegno per l’accaduto, sconfinata ammirazione per i missionari (mia moglie ha partorito due volte nel vostro ospedale, pulitissimo!), lamentano la durezza della loro vita e mi sommergono di domande su preti, suore, missionari, famiglie, chiedendomi in confidenza: “I medici dell’ospedale sono bengalesi?”. “Sì”. “Stipendiati?” “Certo!” “Non fidatevi, noi siamo tutti ladri…”. Concludo, per evitare equivoci: siamo grati per il servizio, e comprendiamo che il loro compito, con i mezzi che hanno, non è semplice.

Quadriennio

‘Superiore” è una parola che non ci piace, e non esprime la nostra realtà; la usiamo per non sprecar tempo a cercarne un’altra, convinti che i fatti valgono più delle parole. Così anche noi missionari in Bangladesh abbiamo un “superiore” e l’11 novembre scorso, quattro anni dopo che l’incarico era stato affidato al sottoscritto, abbiamo eletto il successore: p. Michele Brambilla, e il suo consiglio. Abbiamo dato uno sguardo al quadriennio passato per capire in quale direzione andiamo.
Nel novembre 2011 eravamo 33 di cui 30 preti e 3 fratelli laici. Oggi siamo 29, di cui 25 preti e 4 fratelli. “Sorella morte” ha preso con sé p. Enzo Corba, p. Carlo Calanchi e p. Gregorio Schiavi; 9 missionari sono stati trasferiti per operare in Italia con incarichi diversi, o rientrati in Colombia, al termine del “contratto di associazione”. Nello stesso periodo sono arrivati 8 missionari: 5 rientrati dopo aver svolto servizio in altri paesi, 1 di prima destinazione, due nuovi associati. Eravamo 27 italiani, un brasiliano, un camerunese, 4 associati colombiani; oggi siamo 24 italiani, un brasiliano, un camerunese, un bangladeshi, richiamato dal Cameroun per qualche anno di servizio nel suo paese, 2 associati colombiani. Il numero quindi è calato, ma “in compenso” è aumentata l’età: su 29, abbiamo 11 ultrasettantenni, e il nostro vivace decano è ultraottantenne.
Siamo presenti in tre diocesi, avendo lasciato la diocesi di Chittagong, dove era rimasto soltanto uno di noi. Svolgiamo una varietà di servizi di prima evangelizzazione fra gli aborigeni, di pastorale, formazione scolastica, professionale e religiosa, di cura e attenzione agli ammalati, al mondo del lavoro e ai bambini in strada, di formazione al risparmio con le “Credit Unions”, di animazione missionaria.
In 4 anni abbiamo effettuato vari trasferimenti “ordinari” secondo le indicazioni dei vescovi, abbiamo passato alle diocesi tre realtà fondate da noi: due centri di formazione e una missione; stiamo gradualmente affidando alle diocesi il “Sostegno a distanza” (adozioni), pilastro economico di scuole e ostelli nelle diocesi di Rajshahi e Dinajpur.
Ci hanno affidato nuovi incarichi, compresi due sottocentri e due parrocchie. Le attività ecumeniche e di dialogo segnano il passo, mentre ha preso forma il “Centro Gesù Lavoratore” alla periferia di Dhaka. Siamo in difficoltà a provvedere personale per dirigere l’ospedale diocesano di Dinajpur, e la scuola tecnica di Rajshahi. A causa di visti non concessi, non siamo riusciti d avere personale ALP, che sarebbe molto prezioso.
Nelle nostre due piccole “comunità vocazionali” studiano 13 giovani di “Intermediate” e 11 di college. Sette sono stati accettati come seminaristi PIME nel seminario di filosofia nazionale; due studiano teologia a Monza, uno è stato ordinato prete quest’anno e destinato alla Papua Nuova Guinea. Fra i membri del PIME nel mondo si contano un fratello e tre preti di nazionalità bangladeshi.
Impossibile contare celebrazioni, sacramenti, preghiera, contatti, aiuti, sacrifici, peccati, buona volontà, delusioni, colloqui, tempo perso, amicizie, conflitti. Lasciamo il bilancio al Signore.