Riforma

Mario, fedele visitatore delle “Schegge”, dopo aver letto “Interpretazioni” del 22 aprile scorso, mi segnala gentilmente un articolo pubblicato tre giorni dopo da Asianews con il titolo: “Le radici dell’islamismo violento sono nell’islam, parola di un musulmano”, a firma di Kamel Abderrahman. Tratta del rapporto fra islam e islamismo – inteso come la parte fondamentalista, radicale, intollerante e violenta che sta emergendo in tante aree del mondo musulmano e si chiede: è vero, come sostiene la maggioranza dei musulmani, che l’islamismo non è l’islam autentico? Asianews ha toccato l’argomento varie volte, con interventi di studiosi fra i quali mi pare ci sia una certa convergenza. L’A. sostiene con grande passione la tesi, che senza una riforma profonda e radicale, l’islam si stia condannando ad essere ostaggio in balia dell’islamismo radicale violento.
Secondo lui, le radici dell’islamismo si trovano nella tradizione islamica “riscoperta” e rimessa in circolazione in modo acritico. L’islam, nei secoli, ha prodotto una massa enorme di interpretazioni giuridiche del Corano e della Sharia, spesso rigide, legaliste, che danno ampio spazio all’uso della coercizione e della violenza per “difendere”, diffondere, far rispettare l’islam e opporsi agli “infedeli”. Esse vengono tuttora insegnate in migliaia di scuole coraniche, inclusa la prestigiosa università Al Azhar del Cairo. Non è possibile tenere per buoni questi insegnamenti e allo stesso tempo opporsi efficacemente al fondamentalismo violento. L’islamismo non inventa e non vuole inventare nulla di nuovo, vuole soltanto mettere in pratica tutto ciò che è stato insegnato ma non praticato, perché crede che il “ritorno” a quegli insegnamenti sia la via per vivere un islam autentico e risolvere i problemi del mondo. Se l’islam di oggi – sostiene l’Autore – non prende coraggio per analizzare queste radici, sottoporle a verifica critica e razionale, distinguere e tenere ciò che è buono e liberarsi di ciò che non lo è, sarà sempre più chiuso, intollerante, violento.
Caro Mario, tu vuoi sapere che cosa penso di questa valutazione, ma devo deluderti: non sono in grado di vagliarla con competenza. Non ho mai studiato gli autori antichi di cui l’articolo parla, e non so quali sono i riferimenti fondamentali degli insegnamenti di Al Azhar…
Posso solo condividere ciò che percepisco e “fiuto”, vivendo in una metropoli di un Paese a larga maggioranza musulmano, e di tradizione tollerante. Ne ho parlato altre volte nelle “Schegge”: sta crescendo, gradualmente, una mentalità più attenta alle regole e alle espressioni anche esterne, sociali, della religione (ad esempio, abiti delle donne, ma anche degli uomini, desiderio di leggi che indirizzino i fedeli e “proteggano” l’islam…). Si ha la sensazione che l’insegnamento nelle scuole coraniche sia, rispetto al passato, più ripiegato su se stesso, intransigente, e che trovi un’eco sorprendentemente ampia.
Ci sono resistenze e reazioni a questa mentalità? Sì, molte e ben articolate; ma quanto incidono? Tempo fa, mi avvicinò per strada un distinto signore presentandosi come Preside di una università, la cui sede era lì accanto. Mi invitò per un tè e quattro chiacchiere e, quando queste furono interrotte dal lacerante “urlo” di richiamo alla preghiera diffuso dagli altoparlanti della vicina moschea, sorrise sospirando: “Li sente? Tutto il mondo cambia, ma loro no. Com’è possibile che leggi emanate oltre mille anni fa per un popolo tribale che viveva nel deserto, siano da applicare pari pari nel mondo moderno di un popolo completamente diverso? A lei queste cose le posso dire; ma chi le dice a “questi signori” – aggiunse guardando verso la vicina moschea – che non le vogliono sentire?”
E’ di questi giorni l’approvazione di una legge, in Pakistan, che commina carcere e multa a chi viene visto mangiare o bere durante il mese di digiuno del Ramadan. E’ di questi giorni la condanna a due anni di carcere dell’ex governatore di Jakarta per aver offeso l’islam: aveva criticato certe interpretazioni che alcuni ne danno. In Bangladesh il movimento islamista continua ad alzare le sue pretese e il governo (ufficialmente secolare) cerca di accontentarli. La legge che proibiva il matrimonio prima dei 18 anni è stata rivista per ammettere casi in cui, “per il bene dei giovani”, il matrimonio può essere contratto anche a quindici anni. Il bene dei giovani consiste nel fatto che, se hanno avuto rapporti sessuali, si devono assolutamente sposare, anche se in realtà s’è trattato di uno stupro. Così, chi violenta una ragazzina ha diritto di sposarla “per il suo bene”… Questo movimento minaccia gli impresari perché non assumano donne, vuole che si proibisca ogni conversione, che ogni negozio e ufficio gestito da non musulmani, metta a disposizione il Corano e il tempo per la preghiera…

Chi dice che l’islamismo “non è il vero islam” è sincero, perché nella sua esperienza queste chiusure e violenze non ci sono; ma – sostiene l’A. – in realtà chiusure e violenze sono fondate su norme ampiamente diffuse, e che portano a queste conclusioni, se non vengono sottoposte a una radicale revisione critica. Revisione temutissima e osteggiata perché, secondo alcuni, sarebbe di per sé offesa alla sacralità del Corano; ma anche perché il fondamentalismo ha il terrore della modernità e della critica, convinto che essi vogliano “svuotare dall’interno” l’islam e la sua cultura, come l’occidente ha fatto – secondo loro – con il cristianesimo..
Anche nella vasta galassia del mondo cristiano ci sono interpretazioni molto diverse, e ci sono state guerre fratricide; ci sono stati movimenti radicalizzatisi attorno a uno o più aspetti della Bibbia, che – interpretati alla lettera, fuori contesto, e senza spirito critico – hanno alimentato fanatismi, eresie, conflitti. Oggi il fenomeno nel mondo islamico ha dimensioni gigantesche, diffuse dalle Filippine alla Nigeria, dal Kossovo alla Somalia. La Primo ministro del Bangladesh, Sheikh Hasina, ha sentito il bisogno, recentemente, di sottolineare che i musulmani devono smettere di massacrarsi fra loro, imparare a rispettarsi e a risolvere le difficoltà attraverso il dialogo. Non sono solo i musulmani ad avere bisogno di questo, ma certo anche loro!
Ho scritto, qualche tempo fa, che è in atto un “braccio di ferro” interno al mondo islamico, fra modernità da una parte, e ritorno al passato dall’altra. L’A. sa bene che molti musulmani vogliono reagire. Il punto debole della reazione è – sostiene – che non si prendono le distanze dalle fonti che sono all’origine di interpretazioni letteraliste. Mi permetto di aggiungere che nel mondo islamico un lavoro del genere è già stato avviato da studiosi che rischiano in proprio, e sono – a dir poco – emarginati; altri senza dubbio si aggiungeranno per un’opera “ciclopica”, certamente molto lunga e dolorosa, che ripercorrerà forse, a grandi linee, i travagli del mondo cristiano a partire dall’epoca così detta “dei lumi”. Cammini come questi non sono mai conclusi: sono i cammini spesso convulsi e confusi della storia.

Indagini

Giugno 2016: nel quartiere di Mirpur – Dhaka – un grosso gruppo di esagitati assalta un’abitazione, sfonda porte, saccheggia, pesta e scappa. Segue denuncia alla polizia con indicazione dei nomi di chi ha, o si pensa abbia partecipato partecipato al misfatto.
27 febbraio 2017: dopo otto mesi di accurate indagini, la polizia riformula la lista e la inoltra alla magistratura, indicando 22 nomi di imputati, fra cui un certo Rubel (saccheggio con furto di 25.000 taka, due catene d’oro, un cellulare), suo padre Abdul Kashem, e tale Arifur Rahman. Per Rubel e Arifur, che risultano latitanti, chiede il mandato di cattura.
La giustizia fa il suo corso, e il 9 marzo Rubel risponde alla convocazione. Si presenta al magistrato, si guarda intorno smarrito, e scoppia in un pianto dirotto con singhiozzi irrefrenabili. Non è il pianto che turba il giudice: sa bene che spesso si tratta di una commedia per impietosire, o di una reazione nervosa, o dell’espressione di un doveroso pentimento per le iniquità compiute. Ciò che lo lascia perplesso è il fatto assolutamente improprio che l’imputato sia entrato in aula in braccio ad una giovane donna la quale, interpellata, dichiara di essere sua madre, la madre di Rubel, il quale Rubel è proprio il marmocchio che – nonostante le sue coccole – continua a strillare disperatamente. Ha 11 mesi e 6 giorni di età, perciò “all’epoca dei fatti” (come si dice in gergo) di cui si sta per discutere, aveva circa tre mesi di età. Il magistrato ritiene il caso insolito, da chiarire, e invita altri accusati a farsi avanti per poi decidere. Vengono, e fra essi un anziano che si dichiara padre di Arifur e afferma di poter chiamare numerosi testimoni per provare che suo figlio è morto tragicamente, per attacco cardiaco, all’età 27 anni, tre anni fa; di conseguenza, “all’epoca dei fatti” era già da tempo defunto e incapace di delinquere.
Il magistrato rinvia l’udienza, e convoca l’ispettore di polizia responsabile dell’indagine, il quale risulta essere gravemente infermo e impossibilitato a presentarsi. Il suo superiore, interpellato dai giornalisti, dichiara senza esitare: “Deve esserci stato un errore”.

In cammino

Per ora siamo ancora alle dita di una mano, però siamo arrivati al mignolo, e la prossima volta le dita non basteranno più: sono 5 i bangladeshi che fanno parte del PIME, un missionario laico (Fratello), tre padri, e un diacono che il 4 agosto verrà ordinato prete. C’è speranza che la piccola chiesa del Bangladesh continui sulla strada iniziata, magari con il contagocce, ma senza fermarsi. Partendo dalla fine, oltre al diacono, tre seminaristi stanno studiando nel seminario di Monza, quattro – terminata la filosofia a Dhaka – stanno armeggiando con i documenti per il gran salto verso l’Italia; altri tre li rimpiazzano, passando dalla comunità formativa, dove mi trovo pure io, alla filosofia nel seminario nazionale. Il cammino è lungo…
C’è chi mi chiede se questi giovani vengono a noi per uscire dalla povertà. Fermo restando che alcuni di loro vengono da famiglie benestanti, mentre altri si sono pagati gli studi lavorando sodo, e che Gesù ha scelto i suoi discepoli in mezzo a tutte le categorie sociali ed economiche, la domanda è legittima. Anche per questo il PIME, a livello pre-filosofico, non ha seminari veri e propri, ma due piccole comunità formative in cui spieghiamo che il nostro obiettivo non è direttamente il formare preti e missionari, ma formare uomini e cristiani capaci di rispondere al Signore – là dove li chiama. La vita e le attività che svolgono con noi in parrocchia li aiutano a responsabilizzarsi, capire senza bisogno di tante lezioni, misurarsi con la realtà e confrontarsi non solo con noi “formatori”, ma con i fedeli della parrocchia, che li vedono, li stimano, li rimproverano quando occorre. Poi fanno la loro scelta. Per qualcuno, il motivo che li spinge ad unirsi al PIME è la gratitudine: abbiamo ricevuto tanto, voglio “ricambiare” impegnandomi come missionario. Uno di loro, già con il “Master” (laurea) in economia, non ci conosceva, ma quando ha saputo che la sua parrocchia è stata la prima fondata dai nostri missionari, nella seconda metà del 1800, e che fra i primi battezzati c’erano i suoi tris-nonni, ha scelto il PIME. E chissà che non tocchi proprio a lui di fondare una comunità cristiana in qualche altra parte del mondo, mettendo il seme per un suo “successore” come missionario, nel 2150 – o giù di lì?

Pitor

Nella scheggia “Volti e nomi”, di qualche settimana fa, c’è un’omissione di cui mi rammarico. Ho scritto tenendo sotto gli occhi la fotografia che appare nel “blog”, ma in una sua edizione “tagliata”: mancava la parte destra. Per questo non vi ho detto che l’ultima persona a destra si chiama Pitor, ed è un giovane speciale. Sorride sempre, a denti stretti. Non perché sorrida forzatamente, al contrario, ha un sorriso molto spontaneo, dolce, direi “luminoso”. Ma da anni lo tormenta una malattia che gli contrae i muscoli rendendoli duri come legno, deformandogli le ossa e impedendogli i movimenti. Peggiora giorno dopo giorno. Fino a poco fa riusciva ancora a preparare corone del rosario, ora non più; la bocca si è serrata, per cui mangia solo cibi semiliquidi e – come dicevo – sorride e parla “a denti stretti”. Non riesce a sedersi, la carrozzella con le ruote gli serve per appoggiarsi e per fare qualche passo faticoso con una lenta, strana andatura da burattino. Quando arrivo a Snehanir, è il primo che saluto, perché ha una stanza a fianco del cancello di entrata, il posto del portinaio – suo incarico ufficiale. Con lui c’è sempre qualcuno dei ragazzi della comunità, e anche qualcuno di fuori; non c’è bisogno di fare turni, non lo lasciano solo, e se qualcuno bussa al cancello uno di loro scatta (correndo, o manovrando la carrozzella) e apre – così rimane lui, Pitor, il titolare dell’incarico, e nessuno dice che bisogna incaricare qualcun altro perché lui non ce la fa più. “Pitor ciao, come va?” gli chiedo. “Bene bene, grazie!” Sembra uno scherzo, e invece lui lo dice convinto. “I tuoi dolori?”. “Ci sono” mormora, e aggiunge: “Se oggi celebri la Messa, ricordati di portare la Comunione anche a me”.