Nel 1972, subito dopo dopo una devastante guerra con il Pakistan, e la nascita del Bangladesh, si aprirono le frontiere all’ingresso di missionari. Il PIME, vedendo le enormi necessità e le possibilità di operare nel nuovo Paese, fece un grande sforzo, mandando quanti più missionari poteva in poco tempo. Erano tutti giovani ed entusiasti, pieni di idee belle e di idee campate per aria. Poi, ovviamente, si tornò alla normalità, e i nuovi arrivi si diradarono molto.
Quel folto gruppo di giovani ora è diventato un folto gruppo di anziani, pieni di esperienza e di acciacchi. Scarseggiano i successori di mezz’età. I giovani, quelli che portano a loro volta energie ed idee nuove, buone e meno buone, benchè provvidenzialmente rinforzati da missionari provenienti da Brasile, Africa, India, Colombia, sono pochi.
La nostra comunità si sta chiedendo che cosa lasciare, che cosa continuare, che cosa e come trasformare, e p. Ferruccio Brambillasca, superiore generale del PIME, recentemente ci ha visitati per un mese, anche per aiutarci a fare il punto.
Riassumo pescando fra le note del suo intervento, e le discussioni che ne sono seguite.
Dhaka colpisce subito per la sua “invivibilità” e per il grandissimo afflusso di persone; per questo è importante per noi. Abbiamo avviato e poi lasciato alla diocesi varie iniziative; l’impegno di servizio al mondo dei lavoratori richiederebbe non uno, ma due missionari, il lavoro pastorale nella parrocchia, in cui si integra la comunità formativa per giovani, andrebbe continuata. La casa del PIME, in passato era molto usata ma ora non più: che farne? P. Ferruccio assicura che cercherà di rispondere alla richiesta del seminario nazionale che il PIME ancora dia aiuto, inviando professori per tenere corsi di teologia. Apprezza lo stile pastorale che alcuni di noi praticano, di vicinanza e visite frequenti alle famiglie.
Rajshahi è la diocesi che in ogni angolo testimonia silenziosamente il grande lavoro svolto dal PIME, ma la nostra presenza si è rapidamente ridotta al minimo; è significativa però per ciò che facciamo negli ostelli giovanili, fra le minoranze etniche, per gli ammalati, con persone disabili. Terminare del tutto? Ci chiedono un prete maturo ed esperto per ritiri e direzione spirituale a preti e suore, in maggioranza giovani. In questo periodo, in varie zone si celebrano i centenari dei primissimi battesimi: sono occasioni di festa, ma anche catechesi ed evangelizzazione.
Quanto a Dinajpur, la diocesi dove siamo più numerosi p. Ferruccio si chiede come aiutare la gente a non dipendere dagli aiuti dei missionari, ma rendersi autonomi, e contribuire, anche perché i missionari sempre meno potranno aiutare economicamente come in passato. Le opere che gestiamo, Scuola Tecnica “Novara” e ospedale St.Vincent rispondono molto bene alle nostre priorità, ma bisogna cercare di passarne la responsabilità alla diocesi o a organizzazioni che ne garantiscano la continuità e la finalità: servizio a poveri e a minoranze. Il Vescovo ci guarda con stima e riconoscenza e s’aspetta molto dal PIME, specialmente aiuto per aprire nuove presenze di evangelizzazione fra le minoranze etniche, e per la formazione spirituale delle suore locali. Ha bisogno anche di sostegno economico. Sarebbe contento di mandare qualche suo prete diocesano in missione con noi come associato.
Il bilancio finale di P. Ferruccio è benevolo nei nostri confronti. Dice di avere apprezzato specialmente tre caratteristiche del nostro variopinto gruppo di missionari, decisamente difficile da inquadrare. La prima è la comune, forte passione per la gente a cui siamo stati mandati. Mi è tornato alla memoria il libro scritto da Mariagrazia Zambon dopo un attento viaggio fra noi, nel 2005: “Passione per un popolo”. Nei 12 anni trascorsi da allora, molte cose sono cambiate, ma la passione non è diminuita!
La seconda caratteristica consiste nel rispetto, accoglienza e dialogo sincero che ha trovato fra noi, nonostante le grandi differenze di carattere, stile e anche idee che abbiamo. La terza, il buon rapporto con il clero diocesano e con le religiose, specialmente le missionarie dell’Immacolata (PIME), le Suore di Maria Bambina (le prime a raggiungerci in Bengala, nel 1860), e le suore locali “Shanti Rani”, fondate da un vescovo PIME.
Infine, tre raccomandazioni. 1. Una grande attenzione alla formazione delle vocazioni locali, anche se, per molti di noi, prendersi cura di un piccolo gruppo di giovani costa molta fatica. 2. Nonostante il calo numerico, che è in corso e continuerà, “non tirate i remi in barca, rassegnandovi a gestire quello che c’è. Pensate a qualche cosa di nuovo per la nostra presenza, per quanto pochi possiate essere.” 3. P. Ferruccio ci invita a continuare a collaborare con le opere e iniziative dell’Istituto, come in passato, e “siate di esempio per la vita fraterna, il desiderio di lavorare per le popolazioni più discriminate, e il servizio umile alla chiesa locale, tre pilastri importanti del nostro carisma,”
A lui, un grazie cordiale.
Archivio mensile:Novembre 2017
Furbi
Come camminare nella schifosissima fanghiglia che ricopre le strade del bazar dopo la pioggia?
C’è chi indossa scarpe alte e pesanti, per non sporcare i piedi con il concentrato di decenni di rifiuti di ogni natura, su cui è decenza tacere.
C’è chi toglie le scarpe e cammina a piedi nudi per salvare il cuoio o la plastica delle scarpe dai componenti corrosivi della melma.
I furbi (non faccio nomi) vanno al bazar con i sandali. Così inzaccherano piedi e scarpe…
Paura
E’ già buio, e fra poco arriva l’ora della cena. Nel cortiletto di fronte alla chiesa alcuni parrocchiani chiacchierano e prendono il fresco seduti sulla lunga panchina in cemento. Mi trovo al computer, quando arriva un giovane con la faccia tra lo spaventato e lo stupito. “Padre, c’è un gruppo di hujur vicino al cancello, alcuni giovani e uno o due anziani. Dicono che vogliono parlare con te”. Hujur è termine rispettoso che indica un musulmano solitamente vestito nel tradizionale abito arabo che distingue una persona religiosa: calzoni larghi in tela bianca, tunica bianca fin quasi al ginocchio, cappellino bianco. Vado e me li trovo davanti, una quindicina, che si accalcano per stringermi la mano, mentre uno che sembra essere il “capo” mi dice che provengono da una madrassa (scuola coranica) del quartiere vicino e vorrebbero vedere la chiesa. Appartengono ad una corrente di spiritualità conosciuta come “tablig”, quella che organizza ogni anno un gigantesco pellegrinaggio con un milione di partecipanti, proprio vicino a Dhaka. Sono “fondamentalisti” cioé seguono e vogliono praticare l’interpretazione assolutamente letterale del Corano, e hanno per scopo l’islamizzazione di tutti, ma con mezzi pacifici, attraverso la predicazione e il buon esempio. Inizio a spiegare che cosa è una chiesa, come preghiamo la domenica nell’Eucaristia. Ogni accenno a qualche cosa o qualcuno di cui si parla anche nel Corano suscita cenni soddisfatti del capo o esclamazioni di consenso, seguiti spesso da sguardi perplessi perché, se i nomi quasi sono uguali, in molti casi i contenuti non lo sono, e allora scatta in loro la risposta che avrei dovuto dare e non ho dato. Me la dicono – a volte in arabo – delusi di non potermi persuadere: “Ma come, è scritto nel Corano!” Poi viene la domanda che li preoccupa: “Che sarà di voi? Chi non segue il Corano va all’inferno, e voi che cosa dite?” Il mio tentativo di spiegare si disperde in vari rivoli, rincorrendo altre domande che si accavallano; capisco che più che spiegare, sto complicando loro la vita. Interviene l’anziano: “Andiamo a vedere la chiesa, si può?”. Chiedo se sono veramente interessati e un ragazzo mi dice: “Vogliamo vedere se rispettate il Corano o no”. Qualcuno lo ascolta con disappunto, e io mi avventuro in una lezioncina storica per far capire che – essendo la Bibbia stata scritta prima del Corano, non poteva né parlar male né parlar bene di ciò che è venuto dopo. Il concetto è chiaro, ma difficile da accogliere. “Ma insomma, ci sarà o no per voi un giudizio? E come sarete giudicati? E cosa troverete all’inferno, o caso mai in paradiso?”. Racconto la parabola del giudizio finale, “avevo fame e mi avete dato da mangiare”; sembrano interessati, ma non convinti: “Ma il Corano dice…”, e soprattutto vogliono sapere come descriviamo il paradiso. Su questo li deludo proprio, sorvolando sulle pittoresche descrizioni coraniche e cercando (invano) di spiegare che non possiamo semplicemente proiettare sull’aldilà le cose che conosciamo qui.
Alla fine apro la chiesa e accendo le luci, mi chiedono se devono togliere le scarpe: “Sì, e per favore, rispetto!”. Non c’è male, si comportano decentemente anche quando dico di no alla loro richiesta di avere in regalo una Bibbia: prima vi spiego che cosa è, mi ascoltate bene, poi se volete ve la do da leggere.”
Ci avviamo all’uscita, e m’accorgo, che mentre ero immerso in questa sarabanda di domande e risposte, nel cortile era arrivata altra gente: alcune donne, la cuoca, gli studenti di college che abitano con noi, qualche giovanotto che vive nelle case vicine, due membri del Consiglio pastorale con il cellulare in mano… Mi guardano quasi stravolti mentre esco circondato dalla piccola nuvola di hujur, e finalmente capisco che sono accorsi, pronti a intervenire per salvarmi. “Stavo rientrando in casa dall’ufficio e mi hanno avvisato che un gruppo di studenti del corano era entrato da noi…” Tento di tranquillizzarli, ma restano persuasi che io sia un incosciente. Li ringrazio di cuore di essersi preoccupati per me. Mi raccomandano di non farlo più, perché – dicono – l’atmosfera da un anno e mezzo a questa parte è cambiata.
Sì, hanno ragione: ora, ben nascosto nel profondo, non c’è più soltanto sospetto, c’è paura.
Domande papali
Il 30 novembre prossimo, a Dio piacendo, Papa Francesco metterà piede sul suolo del Bangladesh per la prima volta in vita sua, per effettuare la seconda visita papale della storia; la prima e finora unica fu di Papa Giovanni Paolo II nel 1986. Francesco arriverà dal Myanmar, dopo una visita di tre giorni programmata “in tandem” con la visita di tre giorni in Bangladesh; presumo che i politici e i diplomatici (laici ed ecclesiastici, cristiani, buddisti e musulmani) nel decidere le date non prevedessero che nel frattempo i i rapporti fra i due paesi (che hanno un tratto relativamente breve di confine in comune) si sarebbero complicati enormemente a causa del problema dei Rohingya…
Chissà che ci abbia pensato invece la Provvidenza, mettendo il Papa nei pasticci per guidarlo a fare qualcosa che aiuti a districare la matassa?
Nel frattempo, i cristiani si preparano. Dall’Italia, alcuni mi chiedono se c’è attesa per la sua visita anche da parte di fedeli di altre religioni. Posso dire di sì, ma è necessario capirsi bene. Ecco perché ho collezionato alcune domande chfe mi hanno rivolto, per offrie un’idea delle “attese” che circolano fra la gente comune.
– Ma il Papa, è capo dei cattolici o dei battisti?
– E’ vero che il Vaticano confina con l’Italia? E’ più grande o più piccolo?
– Come vi trovate con un papa africano? Ho sentito dire che viene dall’Argentina…
– Vorrei parlargli direttamente, mi prenota un incontro?
– E’ lui che ha fatto costruire una moschea in Vaticano?
– In Italia, c’è un presidente come da noi, o fa tutto il Papa?
– Ci sono più abitanti in Bangladesh o in Vaticano?
– E’ lui che vi dà i soldi per convertirci?