Foyzur Islam, un giovanotto di Sylhet, era da tempo irrequieto e preoccupato perché l’islam è in pericolo. Non solo per colpa degli infedeli, ma anche per il gran numero di musulmani che non seguono fedelmente le dottrine del “salafismo” (diffuso in Arabia), che aveva imparato in una madrassa. Come restare inerti di fronte a questo orrore? Il 3 marzo scorso, tornando a casa in bicicletta dopo una partita al pallone, Foyzul nota un cartellone interessante: proprio in quel giorno, e proprio nella sua città, si tiene una manifestazione con la presenza del noto professore universitario Muhammad Zafar Iqbal, musulmano ma – come chiaramente rivelano i suoi “blog” – pericoloso nemico dell’islam. Un’occasione da non perdere! Foyzur torna a casa, fa la doccia, indossa una maglietta nera. Sa che cosa deve fare, essendosi “autoradicalizzato” bazzicando su internet, dove legge infiammati sermoni, e ha imparato come si può ammazzare una persona senza spendere troppo. Pochi giorni fa ha acquistato un coltello del tipo consigliato in un sito specializzato in materia; ora non c’è che da metterlo in tasca, riprendere la bicicletta e affrettarsi prima che termini la manifestazione. Partendo dal fondo, e facendosi strada tra la folla, si accosta al professore, fino a giungergli alle spalle. Attende un attimo, conta fino a 3 (suppongo) e lo pugnala. Malamente. Infatti il professore cade gravemente ferito ma non muore, mentre lui prende un sacco di botte dalla folla, soprattutto di studenti, inferocita. Lo conciano al punto che la polizia – pur non nota per le sue delicatezze – deve aspettare 10 giorni prima di poterlo interrogare. Alle domande risponde con arroganza, dichiarando di aver anche frequentato una palestra dopo aver letto che un “jihadista” dev’essere fisicamente in forma, e che non è affatto pentito dell’assalto, anche se fallito, perché: “sono pronto per qualunque risultato: lavoro per l’islam, io!” Alla fine, gli chiedono se si è reso conto che la folla non lo ha ammazzato soltanto perché il professore, ferito e sanguinante, mentre lo soccorrevano ha implorato che non lo picchiassero e non gli facessero del male. Foyzur tace per un momento, poi scoppia in un pianto dirotto, irrefrenabile, per una quindicina di minuti.
Il professor Zafar, dimesso dall’ospedale, ha detto che farà il possibile per incontrarlo, per potersi spiegare l’uno con l’altro.
Una mia domanda: quando mi chiedono che cosa pensano “i musulmani”, come reagiscono “i musulmani”, perché “i musulmani” sono violenti… io che cosa rispondo? Parlo di Foyzur, o parlo di Zafar Iqbal?
Archivio mensile:Marzo 2018
Brontolone
Avremmo voluto celebrare nel novembre 2017, ma arrivò la notizia che il Papa desiderava venire a trovarci: non ci è parso gentile dirgli di rinviare, e abbiamo rinviato noi, scegliendo il 3 febbraio 2018 per festeggiare.
Che cosa? Nessuno ricorda esattamente, ma certamente sono passati almeno 25 anni da quando, nella missione di Rohanpur, un papà disperato consegnò alla parrocchia un bimbo di 4 mesi gravemente denutrito, la cui mamma era morta. Suor Gertrude, p. Baio e p. Mariano decisero di tenerlo, sistemarlo e trovargli poi una mamma adottiva. Ma arrivato a 9 mesi lo colpì la poliomielite. Il bimbo, Robi, rimase completamente paralizzato dal collo in giù: muoveva solo la testa. Iniziò una lunghissima, ostinata lotta di suor Gertrude, una bengalese della congregazione locale “Regina della Pace”, che con incredibile tenacia e anni di fisioterapia e cure, cambiò la situazione di Robi, che ora si sposta bene in carrozzella, gioca a cricket, ha completato un Master in economia. Mentre lui lentamente progrediva, altri papà o mamme, o parenti portavano i loro bimbi con qualche disabilità. La prima, Flora, anche lei colpita da polio, lavora ora in un progetto della Caritas per bimbi di strada. L’attuale comunità, che ha 43 membri, prese forma strada facendo. Vedendo con quanta naturalezza bimbi “normodotati” si mescolavano con i “disabili”, si decise di dare spazio anche a qualcuno di loro, creando una comunità molto varia: maschi e femmine, con disabilità differenti o normodotati, gruppi etnici diversi, educando i più anziani farsi carico dei piccoli. Denominatore comune, la povertà; obiettivo comune, l’aiuto reciproco, la convivenza gioiosa e senza complessi, l’impegno di dare il meglio per costruirsi un futuro se possibile indipendente.
Negli ultimi 6 anni sono stato io a svolgere il ruolo di “chairman” di questa iniziativa, recentemente battezzata “Snehonir”, Casa della Tenerezza. Per questo mi informarono che si avvicinava il venticinquesimo anno dalla informale fondazione,che occorreva ricordare con la dovuta solennità. A me venne la pelle d’oca… Il Bangladesh ha una specie di “culto” per gli anniversari più svariati, da celebrare in modo solenne e pomposo, senza badare a spese e senza risparmiare elogi e paroloni. Un giorno sì e l’altro anche arriva un invito: secondo anniversario del battesimo del bebè, dieci anni dall’entrata in convento, quindici anni dalla laurea, sette anni e mezzo dall’incontro con il primo amore… dico sempre no, spiegando che se vado da uno dovrei andare da tutti, e non farei altro che commemorare… E ora toccava a me organizzare un giubileo? Feci di tutto per scamparla, minacciai il taglio dei fondi, studiai proposte alternative, “innovative” direbbe qualcuno. Ma le tradizioni, qui, contano – e molto: i membri dell’apposito comitato mi ascoltarono rispettosamente, e poi fecero a modo loro.
Per fortuna.
Arrivando a Snehonir qualche giorno prima della festa, mi colpì l’entusiasmo con cui i ragazzi si preparavano, senza stancarsi di provare e riprovare danze, canti, sfilate, storielle… sempre più eccitati e ansiosi, fieri di poter mostrare quello che sapevano fare. Ero contento, ma ho tardato a capire che stavo… convertendomi. Pensavo sempre meno alle spese e ai discorsi, mentre la loro gioia mi contagiava, anzi, mi conquistava. La sera della vigilia, dopo una bella processione eucaristica dalla casa dove abitavano prima a quella attuale, e un’adorazione in un piccolo campo da giochi dei nostri vicini, è arrivata la cena “piatto in mano”, dopo la quale è partita una raffica di pezzi musicali che hanno trascinato tutti, uno dopo l’altro, sul palco appena allestito. La prima – c’era da aspettarselo – è stata Susmita, la più immediata nell’espressione dei sentimenti, poi il più piccolo, Sivajit che ha danzato per tre ore di fila sul palco con i suoi occhietti ciechi che sembravano prendere vita, e Urmilla, sordomuta, che seguiva a perfezione il ritmo, e via via tutti gli altri – a rischio di sfondare il palco. La festa è festa, ragionarci non serve… hanno trascinato su anche me, brontolone pentito, e ho respirato la loro gioia di vivere, di stare insieme, di sentirsi accolti, di voler bene, di muoversi, non importa se aiutati da una stampella. Il giorno dopo? Ancora meglio!