La mia ultima “scheggia”, “Viaggio – 1” si concludeva mentre chiacchieravo con alcuni ragazzini nella parrocchia di Satkhira in attesa che arrivasse il parroco. “Viaggio – 2” arriva con un insolito ritardo, ben più di un mese. Il viaggio è finito bene, e ne ho fatti poi altri due, ma proprio non riuscivo a continuarne il racconto.
Proprio a Satkhira mi aveva raggiunto la notizia che le condizioni della mia sorella maggiore Anna si erano aggravate: preoccupanti, anche se non di immediato pericolo. Poi, la mattina dell’8 marzo, una telefonata della mia sorella minore Mariateresa mi ha informato del suo “passaggio” proprio quella notte.
Tutto doveva continuare come prima: treni, autobus, nuovi incontri, conversazioni… la sofferenza era come cacciata nel profondo, appoggiata alle poche parole sentite. Il mio viaggio era costellato di “flash” fatti di fantasie, domande, ricordi. Sforzo di partecipare: “Che cosa stanno vivendo in questo momento i miei cari?”, ricordi antichi e recenti, belli e tristi. Solo dopo vari giorni ho rivisto nella memoria il nostro ultimo saluto, come sempre un abbraccio sulla soglia della sua casa, con il marito Aldo al fianco: “Quando ritorni?” “Se tutto va bene, fra tre anni” “Non ci vedremo più”. L’aveva sussurrato anche altre volte, e come altre volte le ho risposto: “Non è detto, ma comunque l’appuntamento è lassù”. Sorrideva dubbiosa, chiedendo “Ci andrò? Me lo merito?” E io: “Non preoccuparti, il Signore ti vuol bene come sei”.
Ricordi di quando lei, la più grande, spesso si prendeva cura di noi tre “piccoli”: Franco, Mariateresa, Giorgio. Ricordi sfocati e teneri della seconda sorella, Carla, morta a 26 anni dopo molti anni di malattia lunga, che ha inciso nel profondo di tutti noi. Mi sentii contento perché (pensate un po’…) la vigilia della consegna della tesi di laurea in lettere ero stato capace di aiutarla per tutta la notte a completare la battitura del testo con una Olivetti Lettera 22. Settembre 1962, due mesi dopo la morte di Carla; tutta la famiglia era in pellegrinaggio ad Assisi. Con Anna guardai a lungo il crepuscolo sulla pianura ai piedi della collina e le dissi: “No, non vado all’università, voglio diventare missionario”. Mi sentii fiero perché – inconsapevolmente – ero stato io l’occasione del suo incontro con Aldo che, come lei e come me, era uno scout. Erano poi venuti insieme in Bangladesh nel dicembre del 2003. Mi tornavano alla mente tanti loro commenti sorpresi, gioiosi, pieni di domande o di pena. Le avevano fatto indossare un sari, ed era stata felice. Proprio il giorno di Natale venne a trovarmi Mong Yeo, un giovane Marma che stava tentando di mettere in piedi un ostello per far studiare ragazzi e ragazze del suo popolo. Si conobbero, e fu simpatia reciproca. Tornati a casa, interessarono la loro parrocchia, s. Lucia, a Bergamo, e ne nacque un’iniziativa ancora non conclusa, che permise il formarsi di questo ostello che ha educato e sta educando bene tantissimi giovani. Mong Yeo venne poi per una breve visita in Italia, e ne ricorda ogni istante, specialmente il calore con cui era stato accolto in famiglia: “Proprio come un fratello”. Qui la chiamavano “didi”, perché la presentavo come la mia sorella maggiore, e a lei piacque tantissimo.
Insieme a questa fantasmagoria (quante gite in montagna… lei faceva anche roccia, io no: avevo fifa…) di ricordi e di sentimenti, si intrecciavano, nel viaggio, i volti nuovi che incontravo, specialmente le famiglie dei “miei” giovani: persone semplici, contente che il figlio si stia orientando alla vita missionaria, ansiosi di sentirsi rassicurati: “E’ bravo, sta facendo bene”, tutti impegnati a pregare per i figli e per noi. A loro accennavo che la mia “didi” se ne era andata, ma lo facevo di sfuggita, per non metterli in imbarazzo e neppure rattristarli. Infatti, non so quanto ancora il viaggio continuerà, ma so che l’appuntamento è “lassù”.
Archivio mensile:Aprile 2018
Viaggio – 1
1 – S’incomincia ritornando. Armato di regolare biglietto con posto prenotato e prepagato, e accompagnato da due dei volonterosi giovanotti che vivono con me (Durjoy e Martin, per la cronaca) alle 22.30 del 28 febbraio mi presento alla biglietteria dell’autobus di super lusso con aria condizionata, sedili reclinabili, acqua minerale in omaggio, in partenza alle 23.30. Mostro il documento di viaggio aspettandomi un ossequioso: “Tutto bene, s’accomodi”. “Invece mi dicono: “No, il bus a Meherpur non va” “Come non va? E’ in ritardo? Ha un guasto?”. “La corsa è cancellata. Se vuole le diamo un posto su un autobus normale che va a Kustia. Le possiamo anche restituire la differenza.” “Ma io non devo andare a Kustia: arrivo alle 3 di notte in un posto sconosciuto per andare in un altro posto sconosciuto distante 80 chilometri?” Il problema sembra non turbare l’impiegato, che senza sprecare altre parole mi mette in mano il prezzo del biglietto inutilizzato. Dopo un’ora e mezza di frenetici tentativi dei miei accompagnatori, alla ricerca di un posto su qualche altro autobus che vada dove voglio io, torniamo a casa allo scoccare della mezzanotte.
2 – Giro al contrario. Ritento due sere dopo, e dopo aver riorganizzato il viaggio partendo dalla fine: prima tappa non sarà Meherpur, ma Satkhira, anche questo un posto nuovo per me, a sud di Khulna. Voglio visitare le famiglie di alcuni missionari, seminaristi e studenti del PIME. Questa volga parto, alle 22.15, e m’addormento per risvegliarmi parecchio tempo dopo a causa del troppo silenzio. C’è una fila lunghissima di autobus e camion che attendono il proprio turno per salire sul traghetto e attraversare il fiume Padma, poco a sud della confluenza di Gange e Brahmaputra. Passano cinque ore, mi riaddormento, e quando mi sveglio mi trovo dall’altra parte del fiume, in attesa che si liberi il pontile. Poi, finalmente, si sbarca e si riparte mentre il sole si dà da fare per scaldarci dopo il fresco della notte. Sfilano i campi di riso, la juta appena tagliata, canali, mercati e moschee, stagni grandi e piccoli tutti popolati di anatre e anatroccole, animali che mi mettono allegria. La strada è parecchio malconcia; alle 11 del mattino siamo ancora lontani dalla meta, e una telefonata m’avverte di non andare fino a Satkhira per poi tornare indietro: fermati a Kolaroa e qualcuno ti dirà cosa fare. Caccia al tesoro? Scendo in mezzo ad un bazar e mi guardo attorno perplesso per qualche minuto, quando un ometto in bicicletta si accosta e chiama: “Padre!”. E’ lo zio di un nostro seminarista, che contratta per me e per il mio borsone un posto su un motocicletta. Le motociclette/taxi da queste parti sono molto numerose; per fortuna il mio autista è fiero di dirmi: “Niente paura, sei vecchio, e la strada è akabaka (tortuosa), ma io vado adagio”. E’ vero, e si meriterà pure la mancia. A mezzogiorno sono alla meta: papà e mamma mi attendono ansiosi e l’accoglienza ricompensa ampiamente le fatiche del viaggio.
3 – Villaggi cristiani. A quanto capisco, in queste zone evangelizzate dai Saveriani a partire dagli anni ‘50, alcuni gruppi piuttosto poveri ed emarginati hanno formato le prime comunità cristiane: battiste, cattoliche e di altre denominazioni. Il villaggio che visito ha una minuscola chiesetta, ben tenuta, accanto a un gruppetto di case in terra, paglia e lamiere, con qualche parte in muratura; le cucine sono esterne, in terra. Gli anziani continuano il lavoro tradizionale, fabbricano cestini con strisce di bambù, mentre i bambini vanno a scuola e i giovani sono quasi tutti fuori, per studiare o per lavorare in città. Una realtà apparentemente immutata, ma in realtà in profonda e rapida evoluzione. Gente semplice, che spesso mi parla di quanto abbiano fatto per e con loro i vari missionari che hanno operato in queste zone. Una signora mi dice: “Siamo poveri e anche acciaccati, mio marito soffre di asma e io faccio finta di non averli, ma ho dolori un po’ dappertutto. Ma tantissime volte mi domando: come mai il Signore ci ha dato tante grazie e tanti favori? non riesco a trovare le parole per ringraziare, e continuo a stupirmi”. “In questi villaggi piccoli – chiedo – come vi trovate fra i musulmani?” “Da queste parti è molto forte il Jamaat-ul-islam, il partito islamista” “Dunque avete problemi? Vi sentite in pericolo?” “Beh, problemi ne abbiamo ma non con i musulmani, li abbiamo fra noi che bisticciamo facilmente…”
A pranzo mi offrono, con il riso, un pesce tilapia, il più grosso che mai sia approdato sul mio piatto… “Deve mangiarlo tutto – raccomanda il papà – perché ho girato tutto il mercato per trovarlo…” Riposo e poi la mamma mi organizza un’altra tappa in motocicletta. Sale anche lei a far da guida, e a pochi chilometri visitiamo la famiglia di una suora del PIME. Avanti ancora, e arriviamo da una terza famiglia, di un ex seminarista, che ha parenti all’estero: lo si vede dalla casa in muratura e da qualche comodità in più. Poi lei ritorna a casa, e io proseguo sempre in moto fino a Satkhira, che subito mi appare più grande e animata di come immaginavo. Alle 17 approdiamo alla missione, dove accanto alla chiesa ci sono casa dei padri, casa delle suore, ostelli per bambini e bambine, chiesa, locale per incontri e catechesi, campo di calcio… manca solo il parroco, che è andato a celebrare in un villaggio. Lo aspetto, chiacchierando con qualche marmocchio incuriosito… (continua)