Fratelli

Il PIME sta vivendo un “anno sulla vocazione missionaria laicale nel PIME”, dedicato ai “Missionari Laici a Vita”, comunemente noti come “Fratelli”, che sono laici, celibi, membri dell’Istituto a pieno titolo con impegno a vita. Ci sono sempre stati, fin dalla prima spedizione (più di 160 anni fa) verso l’attuale Papua Nuova Guinea. Allora piaceva chiamarli “catechisti”. Sulla loro vocazione e sul loro ruolo, da allora molte idee sono cambiate – come sono cambiate sul laicato e la sua posizione nella Chiesa, sulla missione, sul modo di essere missionari, sui rapporti con le chiese locali (che agli inizi erano inesistenti nei luoghi affidati all’istituto), ecc. Il PIME, pur faticando a precisarne l’identità, ha ribadito che la vocazione dei Fratelli non è di seconda categoria, all’ombra di quella dei preti; è una vocazione piena e completa al servizio del Regno, e che laici (Fratelli) e preti devono lavorare fianco a fianco ciascuno con il proprio ruolo, quasi sempre identificato sul campo, meglio che nelle discussioni teoriche. Noi del Bangladesh abbiamo esperienze positive e stimolanti di presenze missionarie dei Fratelli, e vorremmo averne di più mentre, purtroppo, il loro numero sta calando. In occasione di questo anno, pubblichiamo in bengalese un libretto con la vita di alcuni di loro, per presentarli con i fatti più che con le teorie. P. Arturo Speziale – il “letterato” della nostra comunità – scrive queste vite, e io ho preparato l’introduzione, che lui tradurrà. Ho cercato di “contestualizzare” il tema, rispondendo alle domande che si sentono o si intuiscono fra chi conosce il PIME qui in Bangladesh. Poi, ieri sera, m’è venuto in mente che – perché no? – questa introduzione potrebbe essere una scheggia. Eccola.

“Nel PIME ci sono anche i Fratelli?”
Ogni tanto noi missionari del PIME in Bangladesh sentiamo questa domanda, e ne siamo un poco rattristati, perché noi sappiamo che i Fratelli ci sono, la loro vocazione è molto bella, e il loro servizio missionario molto significativo. Abbiamo deciso di pubblicare questo libretto perché vogliamo che tutti sappiano che: sì, nel PIME – fin dall’inizio – ci sono i Fratelli e i Preti, che hanno la stessa vocazione missionaria, per tutta la vita, per andare e lavorare specialmente dove Gesù non è conosciuto, dove c’è maggiore povertà o sofferenza, e dove la chiesa ha molto bisogno di aiuto. Noi speriamo che questo libretto aiuti tutti a capire la vocazione missionaria, e incoraggi molti giovani a venire con noi, a condividere la nostra vocazione missionaria come Fratelli Laici.
Come mai i Fratelli del PIME sono poco conosciuti?
Perché purtroppo non sono molto numerosi; ma c’è anche un altro motivo, che spiego con un esempio. Due missionari del PIME vanno insieme in un villaggio, dove uno di loro celebra la Messa; tutti lo vedono e capiscono che è un Padre. L’altro invece partecipa alla Messa insieme alla gente, prega con loro, riceve la Comunione, poi esce e chiacchiera, fa amicizia, lavora (forse aiuta i malati, oppure insegna, o aggiusta un motore rotto, o ripara le finestre della missione…) tutti lo vedono, ma subito non capiscono se è un tecnico, un visitatore, se ha con sé la famiglia, se è missionario e anche lui del PIME oppure no. Il Fratello svolge il suo compito missionario non predicando o presiedendo la liturgia (dove tutti lo vedono e capiscono), ma soprattutto con la vita e con il suo lavoro, un lavoro che appare “ordinario”, che anche altri laici possono fare. Il Fratello però lo compie mandato da Gesù, nel nome di Gesù, per far conoscere Gesù. Come Gesù a Nazareth, come Giuseppe che era falegname, come Maria che era donna di casa, il Fratello sta in mezzo alla gente e alla sua vita normale, ma con un cuore diverso, dona la sua vita, lavora per amore, è disposto ad andare nei posti più difficili.
Che cosa fa un Fratello del PIME?
I compiti di un Fratello possono essere tantissimi. Nel PIME ci sono stati e ci sono Fratelli che dirigono scuole tecniche, che si occupano dei bambini abbandonati e di strada, che assistono i malati come infermieri o come medici, che svolgono i compiti di “manager” di una missione, o di catechista, che insegnano, e tanto altro. In questo libro troverete alcuni esempi pratici della vita di un Fratello del PIME, ma ce ne sono moltissimi altri! Un fratello del PIME nel nord del Brasile ha insegnato disegno e pittura a ragazzi e ragazze poveri per oltre trent’anni, e moltissimi di loro hanno trovato lavoro. Fratel Pasqualino in India ha fondato una missione grandissima, con scuole, ospedale, abitazioni… era sempre indaffarato, sempre in mezzo alla gente, e tutti gli volevano bene. Fratel Colleoni a Hong Kong era amministratore della diocesi, e capo del movimento educativo degli scout di tutta la città. Fratel Brun, qui in Bangladesh, ha aiutato silenziosamente e fedelmente altri missionari, sostenendoli e facendo loro da aiutante, consigliere, compagno; la gente ammirava la sua semplicità, e spesso confidava a lui quello che non osava confidare al Padre.
Il Padre è più importante! E’ meglio farsi missionario prete?
Qualche Fratello ha sentito questo consiglio: “Tu sei istruito, hai molte doti, è meglio per te diventare prete, perché vuoi fare solo il Fratello?”
Questa domanda rivela una mentalità molto umana, e non secondo il Vangelo. Se mi domandano: “ Che cosa è meglio: prete o fratello?” rispondo: “E’ meglio andare dove il Signore chiama, fare la sua volontà, non la tua!” Secondo il Vangelo il più importante è chi serve gli altri, chi è umile e sa di essere un “servo inutile”, ma svolge con gioia il compito che il Signore gli propone nel suo Regno. Dunque, se pensi di poter vivere con gioia la vocazione di missionario Fratello, e se la chiesa (i responsabili dell’Istituto) confermano che ne hai la capacità, segui quella via! Se pensi di poter vivere con gioia la vocazione di missionario prete, e se la chiesa (i responsabili dell’Istituto) confermano che puoi farlo, segui quella via!
Il Vangelo si diffonde con parole e opere, ma soprattutto con la santità: servizio umile, sacrificio in unione con Gesù, amore, pazienza, tanta preghiera… In queste cose, padri e fratelli sono proprio uguali: uno non è più santo perché celebra la Messa, ma perché prende parte alla Messa (come celebrante o come partecipante) con fede e amore. Sbaglia chi pensa che per essere Fratello sia sufficiente una vita spirituale superficiale! Per essere missionari occorre cercare il Signore in tutta la nostra vita, e in questo non c’è differenza fra prete o fratello, o suora…
Chi mi aiuta a capire la mia vocazione?
Se ti sembra che il Signore ti stia chiamando alla vita missionaria, non decidere subito, da solo, che cosa fare! Prendi tempo, prega, confidati e chiedi consiglio, possibilmente a un missionario del PIME. Stai bene attento: non desiderare di farti missionario per ricevere stima, onore, lodi dalla gente. Qualcuno sogna di indossare la veste per essere onorato, di diventare prete per sentirsi chiamare “reverendo”, o di avere una considerazione speciale e un posto speciale perché è un Fratello… queste sono idee che ci mette in testa il diavolo, per rovinare l’opera di Dio in noi. Il diavolo vuole vederci orgogliosi, superbi, contenti di comandare sugli altri e di farci servire, e riverire. Ma questa non è la strada di Gesù!
Incomincia subito!
“Io voglio fare il missionario… quando sarò missionario aiuterò i poveri, servirò la gente, insegnerò…”
Bravo! Ma questo è un pensiero per il futuro. E adesso, che cosa fai? Chi pensa al futuro ma non migliora il suo presente, è come uno che spera di avere un buon raccolto di riso, ma… non semina niente: non è possibile, il riso deve essere coltivato! Cambia oggi la tua vita, rendila più aperta agli altri, servi con gioia, condividi, prega, correggi i tuoi difetti, perdona e sii gioioso… vedrai che il Signore ti indicherà la strada: missionario fratello? Missionario prete? Tutte e due sono strade magnifiche, vicine vicine… anzi: sono la stessa strada percorsa con due biciclette diverse, ma viaggiando insieme!

Promozione

La faccenda non sembra interessare molto il bengalese medio o, se preferite, l’uomo della strada, e nemmeno la donna, a dire il vero… Ma da mesi se ne parla su giornali, riviste specializzate, convegni, tavole rotonde, dibattiti, comizi: il Bangladesh sta per passare (forse il passaggio sarà completato nel 2024) dalla categoria di “paese sottosviluppato” alla categoria di “paese in via di sviluppo”, o da paese povero a paese a reddito medio-basso. In barba a qualcuno – ha detto la Primo Ministro – che al momento dell’indipendenza (1971) sentenziò: “Il Bangladesh sarà sempre come un cesto sfondato: continui a buttarci dentro aiuti, ma non rimane niente”. Si trattava di Henry Kissinger.
Buona notizia dunque, ma con un risvolto. La promozione non è un complimento gratuito di cui compiacersi, o la decisione di usare un linguaggio “politicamente corretto”, incoraggiante. Nel complicato mondo delle relazioni internazionali di commercio, banche, esportazioni e importazioni, tariffe, tasse, esenzioni, privilegi, sanzioni… che possono essere frutto di accordi vari… a volte c’è anche una sezione dedicata ai “poveri”, cioè a paesi che entrano nella categoria da cui il Bangladesh sta per uscire. La qualifica infatti non è decisa a occhio ma (almeno così ci fanno intendere) in base a precisi parametri che riguardano il reddito complessivo e il reddito medio, la produttività, la soglia di povertà, il tasso di scolarizzazione, l’età e la durata media della vita, le risorse naturali e umane, la densità di popolazione, le infrastrutture, le riserve auree e di divisa estera, la bilancia commerciale… le alleanze politiche, e via calcolando. Fatti i conti, si colloca il paese in questione nella categoria che gli spetta e, nel caso sia la categoria più bassa, scattano alcune regole che dovrebbero favorirne la crescita. Per esempio, le magliette fabbricate in Bangladesh sono esenti da tariffe di importazione nei paesi dell’UE, così, dico a caso, i maltesi le preferiscono e ne comprano di più, lasciando sugli scaffali le più costose magliette cinesi. Anche i tassi di interesse sui prestiti variano in base a queste classificazioni.
Tutto bene. Ma quando si fa un passo avanti, i parametri migliorano, e si sale alla categoria “superiore”, insieme a chi si rallegra ci sono – appunto – i fabbricanti di magliette (e molti altri), che invece si preoccupano. Si ricorre allora agli esperti, i quali sentenziano che ci sarà un crollo di produzione e tutti compreranno magliette vietnamite o birmane, oppure che bisognerà passare dalla manodopera non qualificata alla meccanizzazione provocando disoccupazione, o che occorre migliorare la qualità delle magliette così che facciano gola anche ai francesi nonostante il costo più alto. Ma altri insistono che tutto questo è acqua fresca, le infrastrutture, i trasporti, il sistema di credito sono la vera risposta al problema!. No, bisogna mettere l’IVA, o passare alla produzione di biciclette (richiestissime negli USA e a S. Marino) lasciando le magliette al Vietnam… Insomma, ce n’è abbastanza per rallegrarsi e per preoccuparsi insieme. Dicono.

Lieto fine

Dal 2003 – appena ritornato in Bangladesh dopo 19 anni di assenza – fino al 2011 sono stato incaricato di insegnare e accompagnare spiritualmente i giovani del seminario teologico nazionale del Bangladesh, in Dhaka. Mi occupavo anche dei numerosi stranieri abitanti nella zona (Banani), ma spesso si rivolgevano a me anche cristiani bengalesi… senza pastore. Pian piano li conobbi: abitavano nella zona nord di Dhaka, oltre l’aeroporto, nella “città satellite” di Uttora, e non sapevano dove trovare una chiesa per la Messa, un battesimo, un prete per sposarsi. o per chiedere un aiuto. Avevo un bel dire: “Andate alla parrocchia di Tejgaon!” Mi guardavano come parlassi della luna: Tejgaon è lontana, il traffico intensissimo e spesso bloccato, i trasporti costano… insomma, meglio rimandare il battesimo, il matrimonio, la messa… aspettando tempi migliori.
Così mi venne in mente di anticipare questi tempi migliori e prendere in affitto un piccolo appartamento a Uttora, Incoraggiato dal Rettore, e silenziosamente, educatamente considerato un donchisciotte da vari colleghi del seminario, misi gli occhi, a Uttora, su un appartamentino, la cui proprietaria, una distinta, attempata signora si chiese: “E’ giusto che io – musulmana – dia in affitto il mio appartamento a cristiani che ne faranno un posto di preghiera?”. La notte le portò consiglio, e decise di darcelo, a patto che promettessimo di pregare per lei. Promisi, e incominciai a trascorrrere qualche ora nell’appartamento due volte al mese, celebrandovi la Messa, facendo nuove conoscenze, interessandomi dei malati. Pian piano la voce si sparse, e la minuscola comunità crebbe, celebrammo feste, insegnammo il catechismo. Per avere qualcuno che facesse da custode diedi una stanza in uso ad una giovanissima coppia di strapelati, con bimbo e senza casa, musulmana lei e cristiano lui, rifiutati dalle rispettive comunità. Divennero famosi per le loro epiche zuffe, ma intanto mettevano su qualche chilo e tenevano pulite le stanze. Poi ci sfrattarono: vendevano la casa per farne un palazzone. Trovammo un altro posto che era come un fungo in una foresta: circondata da incombenti edifici di dieci, quindici piani, era una casetta con un unico appartamento, ma in ottima posizione “strategica”. Diversamente dalla signora scrupolosa, il proprietario, non ebbe dubbi: conosco preti e parroci a Londra e mi fido, so che non mi sfascerete la casa. Fu l’inizio di un “miracolo”: pur di avere noi nella casa in cui sperava di passare la non lontana vecchiaia, per dieci anni non aumentò il prezzo d’affitto neppure di un centesimo!
La comunità prendeva in qualche modo forma, con cristiani venuti da tutte le parti del Paese, poveri in canna e ricchi, e anche non cristiani ansiosi di farsi battezzare sperando in qualche buon vantaggio economico, non importa se in moneta o in beni immobili, o lincenza di commercio, e via dicendo. Erano quelli che sprizzavano devozione da tutti i pori, e ancora oggi ogni tanto uno di loro mi telefona: “Padre, ma non mi conosci? Ma vengo sempre nella chiesa di Uttora! Sì, forse sono mancato qualche volta, però… ah, non ci vai più da sette anni? Beh, sai, ero molto occupato, ma tu però aiutami lo stesso…”.
Insomma, mi feci un’esperienza, ed ebbi pure una promessa del vescovo di allora: “Bravo, vai avanti ancora un poco, compro un terreno, tempo tre mesi e facciamo una parrocchia”. Il Vescovo morì piamente quattro anni dopo, e la parrocchia non c’è ancora.
Il suo successore, quando lasciai il seminario, accolse ben volentieri la notizia che alcuni amici italiani mi avevano promesso di pagare l’affitto finchè necessario, ed erano disposti a continuare anche se non ero più io l’incaricato. Sono rimasti fedeli fino ad oggi! L’incarico pastorale della piccola comunità venne affidato allo staff del seminario, P. Louis se ne prese cura per bene, e io non ci misi più piede.
Poi, mentre anche il nuovo vescovo s’affannava invano a cercare un terreno a prezzi abbordabili, Uttora cresceva a dismisura, e cresceva pure la convinzione che “non ce la faremo”, come nei migliori western americani di una volta, “arrivano i nostri!”. I “nostri” furono i Salesiani indiani, che – non si sa come – misero le mani su un bel pezzetto di terra e in poco tempo ci fecero una cappella con l’intento di costruire un seminario per i loro studenti di teologia. Il Vescovo, che in realtà è arcivescovo, e persino cardinale, non si lasciò scappare l’occasione e chiese loro di prendere la responsabilità della piccola comunità “di p. Franco” per farne poi una parrocchia. Ecco perché domenica 25 febbraio alle 17 concelebrai su quel terreno, con il Cardinale e due salesiani, la Messa delle Palme, presente una piccola folla di fedeli, e alle finestre dei palazzi vicini, innumerevoli occhi spalancati e orecchie tese per vedere e sentire “che cosa fanno i cristiani”. Da giugno il signore che vive a Londra potrà riprendere possesso della sua casetta, e io mi rallegro per il “lieto fine” della mia modesta, artigianale iniziativa pastorale, finita in ottime ed esperte mani.
E i due sposini che s’azzuffavano? Li ho rivisti volentieri, dopo qualche fatica a riconoscerli. Ora i figli sono due, grandicelli; lei ha voluto ricevere il battesimo, la crisi economica è superata, si sistemeranno altrove senza problemi. “Vi azzuffate ancora?” chiedo a ciascuno, separatamente. La risposta è uguale: “Sì, moltissimo, ma siamo felici!”.