H – B – N – D – ?

Tutti sanno che cosa sia Hollywood.
Beh, forse esagero: magari c’è pure qualcuno che non lo sa. Nel caso, chieda.
Hollywood è in America – del Nord. Cioè negli Stati Uniti d’America. Mi pare che sia a Los Angeles. Se sbaglio, fatemi sapere.
Quando l’industria cinematografica Indiana decollò rapidissimamente, e si sviluppò avendo il centro a Bombay, qualcuno ebbe un’idea veramente geniale, destinata ad avere risonanza mondiale e a durare nel tempo: perchè non chiamiamo il centro produttivo cinematografico di Bombay “Bollywood”? Certo il nome evocherà qualcosa, e tutti capiranno che anche noi siamo importanti, moderni, emancipati, artistici, disinibiti, e ricchi. Il nome ebbe fortuna, e crebbe una galassia di giornalisti che nutrivano giornali, radio e TV – ora anche internet – di “gossips” (per chi non sa l’inglese: pettegolezzi) sugli attori e le attrici di Bollywood, proprio come quelli di Hollywood. Forse la risonanza è un poco minore, ma non tanto, se non altro perchè l’India quanto a popolazione non ha da invidiare nulla a nessuno! Difficile invece capire dove sia maggiore la stupidità.
Poi il governo indiano disse che Bombay era un nome spurio, dato dai colonialisti, e lo cancellò sostituendolo con Mumbay. Ma Bollywood non divenne Mollywood, rimase Bollywood…
I particolari non li conosco, ma so per certo che un bel giorno anche in Nigeria ci si chiese: non potremmo anche noi avere un’idea geniale, originale, moderna, tale che basti pronunciare un nome per capire il valore della cinematografia nigeriana? Forse che siamo da meno di americani e indiani? Fu così che si iniziò a parlare di Nollywood. E si va avanti, e tutti capiscono quanto valgano attori, attrici, registi, produttori, costumisti, e comparse nigeriani.
Il Bangladesh non sta a guardare. Vero è che competere con la gigantesca India sarebbe presuntuoso, e che il pubblico bengalese continua a preferire le telenovele e altri programmi televisivi indiani a quelli locali… ma, insomma, forse un nome originale, moderno, trasgressivo, innovativo, emancipato, evocativo potrebbe aiutare – vero? Fu così che si cominciò a parlare di Dhollywood. Per favore, cogliete l’originalità del nome: pur essendo l’iniziale del Bangladesh B, qui noi non abbiamo Bollywood (che si confonderebbe con l’India), ma prendiamo le due (non solo una!) prime lettere del nome dell’immensa capitale Dhaka, e le appiccichiamo al bestione con tante teste che ci chiama “ollywood” + una iniziale.
E allora lasciatemi sognare. In Italia, riusciremo un giorno a liberarci del provincialissimo, banale, ovvio, decrepito nome “Cinecittà”? Ma non ci vergognamo? Che bello sarebbe poter dire con giusta fierezza: Iollywood!

ImmiEmigrati

ImmiEmigrati

Ovviamente, ogni immigrato è anche un emigrato.

Allora, chi è’ che lascia il Bangladesh come emigrante per diventare immigrato altrove?

Partono famiglie benestanti, che vogliono stare ancora meglio. Normalmente hanno le carte in regola perchè – proprio in quanto benestanti – sono accettate volentieri in alcuni paesi. Vedo per non pochi cattolici un processo graduale di trasferimento, magari iniziando dal figlio che riescono a far studiare in Canada, Australia o Malaysia, e poi pian piano ricompongono la famiglia nel nuovo paese.

Partono persone che si mettono in evidenza per capacità professionali; ci sono società internazionali che si fanno avanti offrendo loro un buon stipendio, buon posto, viaggio pagato, visa facile da ottenere e quant’altro occorre. Spesso la meta è un paese del Golfo, dove si lavora a contratto, non si può portare la famiglia e, finito il lavoro, si torna a casa. Le infermiere sono richieste; una scuola per infermiere a Uttara (vicino a Dhaka) fondata e gestita da Americani, accoglie solo ragazze che andranno a lavorare negli USA – ovviamente se passano gli esami.

Partono lavoratori qualificati con appositi corsi relativamente brevi (anche la Caritas organizza corsi di un certo prestigio, in vista di un lavoro all’estero, così pure il governo e vari enti) e anche non qualificati. Ma solo se hanno, o possono procurarsi, i mezzi per pagare intermediatori, biglietti di viaggio, documenti, cioè parecchie migliaia di dollari o euro. Parecchi partono dopo aver venduto l’ultimo campo che avevano, o dopo aver contratto debiti (con le carte in regola, o presso strozzini), garantiti da qualche parente.

Ma allora, fra i partenti non ci sono i poveracci, quelli “veri”? Quelli che non riescono a mantenere la famiglia e tanto meno a far studiare i figli, che non hanno un campo da vendere? Ci sono. Di solito si tratta di giovani che si spostano dal villaggio e affollano zone portuali, stazioni, aree industriali alla ricerca di un lavoro qualunque. Qualcuno li tiene d’occhio, poi un bel giorno li accosta e offre loro di andare a lavorare in Malaysia, Medio Oriente, Taiwan e altrove, in cambio di una somma decisamente modesta in rapporto ai costi di mercato. Diciamo 36.000 taka, circa 400 euro. Il giovanotto o la ragazza ce la mette tutta, vende quello che ha, chiede aiuto a destra e a sinistra e poco dopo si trova con in mano un passaporto (falso), e viene portato in un luogo – solitamente isolato – gestito dai mediatori, dove aspetta di partire. Strettamente proibito allontanarsi. Dopo un po’, gli diranno che l’occasione di lavoro è sfumata, però c’è un’alternativa: un buon posto in Libia. Veramente, per averlo occorrono 5.000 euro, ma niente paura: se non li hai, li restituirai lavorando nei primi due anni – o poco più…

Si parte. Verso un’isola disabitata del Golfo del Bangala, ad esempio, o un luogo nascosto nella foreste della Thailandia orientale: sequestro dei documenti, impossibilità di fuggire, cibo scarsissimo, malaria, e botte. Botte che vengono registrate e mandate al suo villaggio perchè la famiglia le veda e si affretti a pagare un riscatto, altrimenti la va male. Ci sono gruppi organizzati soprattutto nelle zone costiere del Bangladesh, che si occupano di questo compito umanitario: mandare notizie alla famiglia perchè paghi, e loro si incaricano di passare i soldi agli aguzzini. Se pagano, a volte tornano a casa, altre volte vengono riaffidati ad un altro gruppo che ricomincia la storia daccapo; altri ancora proseguono e arrivano in qualche paese ben lontano da quello che gli avevano promesso, senza documenti, né lavoro, né la minima idea di che cosa possa fare. Per molti, alla fine arriva anche la Libia, dove non dormiranno su un letto di rose…

Un’inchiesta, condotta per tre anni da due enti per i diritti civili della Malaysia, ha confermato quello che riempì per qualche settimana le pagine dei giornali negli anni 2014-15: barconi rifiutati dalle guardie costiere di Thailandia, Malaysia, Indonesia, carichi di Rohingya soprattutto, ma anche Bengalesi, portati via con una promessa di lavoro e poi ridotti in schiavitù. Si scoprirono fosse comuni dove venivano gettati quelli le cui famiglie non pagavano, o che morivano di stenti. Poi la Thailandia fece inchieste, scoprì’ che non pochi pezzi grossi malaysiani e thailandesi erano coinvolti, fermò alcune di queste organizzazioni, e non se ne parlò più. L’inchiesta sostiene che dal 2012 al 2015 oltre 170mila persone incapparono in questa rete. Il fenomeno non è finito, e ogni tanto i giornali bengalesi pubblicano la notiziola che un gruppo di ragazzi o ragazze, che era in attesa di essere deportato, è stato scoperto e liberato…

Secessione

Secessione

Il 26 marzo, giorno della proclamazione dell’indipendenza del Bengala Orientale (Pakistan Orientale) dal Pakistan, e della nascita del Bangladesh, si celebra con intensità crescente ogni anno. Si mette sempre più in evidenza il ruolo di Sheikh Mujibur Rahman, padre dell’attuale primo ministro Sheikh Hasina e “Padre della Patria”, popolarmente e affettuosamente noto come “Bongobondhu”, “amico del Bengala” – ucciso in un attentato nel 1975. Si insiste perchè la storia non venga distorta, e qualsiasi contraddizione o critica alla storia ufficiale è distorsione. Si dà importanza ai termini: il prossimo obiettivo è che l’ONU riconosca come “genocidio” la strage effettuata dai Pakistani nella notte fra il 25 e il 26 marzo 1971 – quando l’esercito entrò silenziosamente e senza preavviso nelle università e nei principali luoghi di cultura, uccidendo a freddo tutti i leader e potenziali leader politici e culturali del Bengala.- Quest’anno, il quotidiano “The Daily Star” s’è preso il gusto di festeggiare l’indipendenza dando i numeri. Offre ai lettori alcuni fondamentali dati economici, e sociali, per confrontare la situazione del Pakistan Occidentale e del Pakistan Orientale nel 1971 con quella del Pakistan e del Bangladesh oggi. Il commento è sobrio, ma le cifre sono evidenti: l’indipendenza ha portato il Bangladesh (che fino al 1971 era il “fratello piccolo e povero” del Pakistan Occidentale) a sorpassare il Pakistan in molti campi rilevanti.

Attuale numero di abitanti : Pakistan Occidentale, 207 milioni / Bangladesh, 170 milioni

Aspettativa di vita nel 1972-73: P. Occidentale 54 anni / Bangladesh 47 anni (7 anni in meno)

          Nel 2018-19: Pakistan 66 anni / Bangladesh 73 anni (7 anni in più)

Reddito medio per abitante nel 1972-73: P. Occidentale 180 dollari / Bangladesh 120 dollari

          Nel 2018-19: P. Occidentale 1.641 dollari / Bangladesh 1.827 dollari

Esportazioni nel 1972-73: Pakistan Occidentale 760 milioni di dollari / Bangladesh 377 milioni di dollari

          Nel 2018-19: Pakistan 23 miliardi di dollari / Bangladesh 36,6 miliardi di dollari

Prodotto interno lordo nel 1972-73: P. Occidentale 10,6 miliardi di dollari / Bangladesh 6.28 miliardi

          Nel 2018-19: P. Occidentale 320 miliardi di dollari / Bangladesh 300 miliardi

Dicevo che i commenti del quotidiano sono pochi e sobri: parlano le cifre… Ma un cenno ironico non poteva mancare: riguarda la “infame” affermazione dell’allora Segretario di Stato Americano Henry Kissinger, che nel 1974 affermò: “Il Bangladesh è un cestino senza fondo”. I fatti gli hanno dato torto.