BRAC

20 dicembre 2019. Sul cancello di casa mi avvicina il nostro ex autista, attualmente noleggiatore del pulmino… ex nostro. Imbarazzato, mi mostra una fotografia che tiene nel portafogli e dice: “È Fazle Hasan Abed, l’uomo più buono che io conosca. È morto oggi, poco fa.” E prosegue: “Ho lavorato come autista al BRAC, di cui era il presidente. Un giorno ci siamo trovati alla soglia dell’ascensore affollato, c’era posto per uno soltanto. Volevo lasciarlo entrare, ma mi prese per un braccio dicendo: entra tu, che sei autista e devi render conto se sei in ritardo, io non ho questo problema e posso aspettare… Era fatto così.” Ha gli occhi lucidi; e sì che non è proprio un tipo dalle emozioni facili…

BRAC significa… Dal suo nascere, l’acronimo è rimasto uguale, ma il significato è cambiato più volte: da “Bangladesh Rehabilitation Assistance Committee”, a “Bangladesh Rural Advancement Committee”, poi… poi non lo so. Ma il BRAC è il BRAC, e questo in Bangladesh lo sanno tutti, anche chi non sa che è la più grande “Organizzazione Non Governativa”al mondo, fondata proprio qui e presente ora in 11 nazioni povere del mondo. Quando, nel 1970, un tifone spaventoso uccise trecentomila persone nel Pakistan Orientale (poi divenuto Bangladesh) e nel 1971 scoppiò la sanguinosa guerra di liberazione, Fazle Hasan Abed – che risiedeva e lavorava a Londra – si diede da fare con altri emigrati per raccogliere fondi e mandare aiuti. Poi decise di fare di più: vendette l’appartamento, ritornò in Bengala e impiegò i soldi per avviare operazioni di aiuto alle vittime attraverso due piccole organizzazioni. In breve tempo si fece conoscere per il successo delle sue iniziative, non clamorose ma accurate, spesso originali, e affidabili. Dopo un disastro, o considerando situazioni di estremo bisogno, non si precipitava a distribuire coperte, medicinali e soldi: sembrava avere un’abilità speciale per cogliere le necessità di una determinata situazione e inventare soluzioni efficaci. A chi gli chiese come facesse, rispose: “Vado in un villaggio, mi siedo con le donne anziane, e ascolto quali sono i loro problemi: loro li conoscono”.

A Dhaka ci sono alcuni grandi negozi molto eleganti di abiti, artigianato e altro, la catena Aaron, frequentata da ricchi e da stranieri. Sono una delle iniziative del BRAC, avviata per dare sbocchi commerciali a prodotti artigianali vari, di qualità: dai ricami tradizionali al sapone al nim, dal “prêt-à-porter” ultima moda, ai soprammobili in bambù. È il BRAC che ha contribuito a diffondere la coltivazione del mais, adatto a periodi in cui il riso non viene coltivato, che ha fondato e gestisce scuole rurali di buona qualità, che sta diffondendo la produzione di latte e prodotti caseari, che ha avviato una banca al primo posto per affidabilità, una università seria, una scuola per infermiere di ottima qualità, che aiuta organismi per la difesa dei diritti civili… Già negli anni settanta, alcuni nostri giovani missionari si misero in contatto con il BRAC perché si occupava di alfabetizzazione di adulti, adattando alle popolazioni del Bangladesh il metodo creato da Paulo Freire in Brasile; rimasero impressionati dalla sua serietà. Il primo impegno all’estero del BRAC fu preso in un posto non precisamente facile: l’Afganistan, dove fra l’altro si è dedicato alla creazione di una università femminile.

La mente aperta di Fazle lo portava a cercare sempre: consigli, esempi, metodi, aiuti da qualsiasi parte; allo stesso tempo era noto per la prontezza e generosità con cui aiutava e collaborava con altre organizzazioni e iniziative non sue, quando ne vedeva la validità, senza monopolizzare o mettersi in mostra. Quando il BRAC era ancora ai primi passi, chiese aiuto alla Caritas, e per un certo tempo il missionario americano p. Timfu una specie di consigliere speciale.

Il mondo delle ONG è accusato di essere corrotto e opportunista, e il continuo pullulare di nuove ONG qui in Bangladesh purtroppo conferma che molte sono una copertura di interessi personali o di gruppi. Ma pare proprio che non sia il caso del BRAC, il cui fondatore comunicava come valori fondamentali l’integrità, l’onestà, l’umiltà. Tutti dicono che vivesse lui per primo queste virtù, anche quando divenne famoso, apprezzato, pluripremiato, membro di un’incredibile numero di commissioni e comitati internazionali, e si trovò in un giro di capitali impressionanti: soltanto il settore del microcredito BRAC gestisce tre miliardi di dollari ogni anno. Il BRAC, dicono i giornali, coinvolge in vari modi circa 200 milioni di persone. Devono essere state le donne di qualche villaggio a dirgli, pochi anni fa: “Mio marito lavora a Dhaka, ma non sa come mandarmi i soldi in modo sicuro…” La risposta è stata una iniziativa di “banca telefonica” che si è diffusa rapidissimamente in ogni angolo del Bangladesh: il suo nome “Bikash”, bianco e nero su fondo rosso, si vede ovunque, specialmente nei quartieri poveri delle città e nei villaggi remoti: dal marito che lavora alla moglie che aspetta i soldi per mandare il figlio a scuola, anche in un villaggio sconosciuto.

Finisco qui. Speravo che, scrivendo, mi venisse in mente il significato attuale dell’acronimo BRAC. Non è venuto. Dite che basta andare in internet per trovarlo? Bene, andateci; a me basta sapere che il BRAC è il BRAC, che ha fatto bene, con intelligenza ed efficacia, e può essere un vanto di questo Paese, che non è solo corruzione.

Pasticceria acrobatica

L’autobus si chiama VIP, cioè “Very Important Persons”, come dice una scritta sul fianco, scrostata e impolverata. Appare in condizioni generali pericolosamente al di sotto della media cittadina, ma scorgo qualche posto disponibile e, messe da parte le paure (avrà i freni?) e gli scrupoli (posso infiltrarmi fra le “Persone Molto Importanti”?) salgo a bordo. L’autista è degno del veicolo: partenze a strappo, arresti a blocco, zigzag arditissimi fra buche, rikscia, pedoni… no, i pedoni no: sono loro che devono scostarsi se vogliono salvare la pelle… Due o tre fermate, e sale al volo un giovanotto che regge sul palmo di una mano un largo vassoio con… che cosa diavolo è quella roba? Sembra una polenta appena scodellata da una grossa forma per torte. Gialla è gialla, ma come fa a essere polenta? Non ne ho mai viste in Bangladesh… Il giovanotto sembra perfettamente a suo agio. Parlotta con le passeggere della prima fila, mentre io aspetto (desidero?) il momento in cui, per uno scossone più violento degli altri, rovescerà la polenta sulla testa di una di loro o, in alternativa, sollevando il vassoio per far passare chi entra o esce nel corridoio fra i sedili, raggiungerà le pale del ventilatore provocando una tempesta di polenta. Ad un certo punto, abbassa il vassoio, e tira fuori dalla polenta una specie di grosso sigaro avvolto in una foglia verde. Lo porge con un sorriso ad una robusta signora in “burka”, che gli dà qualcosa (soldi?) e si mette a mangiare sotto il velo. Guardo meglio: la presunta polenta, rotonda, dall’altro lato è bianca, e qua e là sui fianchi ben rifiniti occhieggiano le punte di altri simil sigari verdi. Mi viene un dubbio: che sia una torta alla crema? Malvagiamente mi dico che potrò scoprirlo quando si rovescerà, o finirà nelle pale del ventilatore. Ma il giovanotto, agilissimo, ondeggia, molleggia, si piega, si alza e si gira secondo le esigenze del viaggio, e la polenta/torta rimane saldamente sul vassoio, che a sua volta rimane saldamente sul palmo della sua mano. Altri passeggeri comprano e mangiano altri presunti sigari con evidente soddisfazione, e io mi avvicino pericolosamente alla decisione di comprarne uno per assaggiarlo. Poi, il pensiero di moltitudini di germi e batteri mi assale, e vigliaccamente rinuncio. Il mio vicino di posto sembra non mostrare interesse alla faccenda finchè si alza, sfiora la torta e scende. Il giocoliere tortifero s’illumina di gioia, e si siede accanto a me. “Bravo – penso io – così si rovescia adesso, mi devasta i calzoni e mi riempe i sandali…”Ma non succede, e ho modo di guardare da vicino. Non è polenta, nè torta alla crema, potrei chiamarla uno sformato di cocco grattugiato, colorato di giallo, o bianco, certamente con “colori consentiti dalla legge” e rigorosamente biologici… Conversazione: fra i rumori del bus e della strada, i clacson, e la pronuncia del giovanotto, non capisco quasi niente, se non che lui stesso è autore del capolavoro, e che quello che resterà della montagnetta di cocco grattugiato ha come destinazione una festa di nozze. Vuole che compri un “sigaro”, e al mio “no” sorridente non s’arrende: prende un grosso pizzico di cocco e me lo mette in mano: “Assaggia, te lo regalo io!” Sì, è proprio cocco con un po’ di zucchero e tanto colore, oltre all’invisibile legione di germi e batteri. Il pasticcere acrobatico scenderà poco prima che scenda io, dicendo che si augura di rivedermi, e che senza dubbio la prossima volta comprerò il “sigaro”. Probabilmente ha ragione.

Natale insolito

In Bangladesh ci sono quindici centri della Ramakrishna Mission. Ne conosco due, uno è a Dinajpur, confinante con l’area dove si trovano la casa del vescovo, scuole e ostelli vari, ospedale diocesano, casa madre delle suore locali, parrocchia; l’altro è a Dhaka, non lontano dal prestigioso Notre Dame University, “fiore all’occhiello” della Chiesa cattolica nel campo educativo. In entrambi, accanto al tempio con la statua di Ramakrishna, il fondatore di questo movimento riformato dell’induismo, ci sono scuole, monastero, noviziato, iniziative per i malati e i poveri. Ero stato una volta al Centro di Dhaka, per un incontro fra cristiani, musulmani, indù su “la ricerca di Dio”. L’intervento cristiano sottolineò la ricerca nel povero e nella carità, il musulmano nella sottomissione e nell’obbedienza, l’indù nella meditazione. Molto interessante. A Dinajpur, l’anno scorso il Vescovo era stato invitato a parlare del Natale proprio la mattina della festa, e quando ho saputo che quest’anno p. Francesco era invitato a presentare lo stesso tema la sera della vigilia, a Dhaka, ho colto l’occasione. Arriviamo verso le 18. All’ingresso ci accoglie un poster molto grande che annuncia l’evento, con un’immagine di Maria e del Bambino incoronati, stile ottocento europeo. All’interno del tempio campeggia un’altra immagine, molto bella, di Maria e Gesù, circondata di fiori, frutta, bastoncini di incenso. Per mezz’ora circa, un piccolo coro canta nenie in una lingua a me sconosciuta, mentre pian piano arrivano i fedeli, e un monaco accompagna le melodie facendo ondeggiare lentamente la fiamma di una candela, o un braciere di incenso, davanti alla statua. Poi invitano Francesco al tavolo dove siedono due monaci, che presentano l’iniziativa: “Noi seguiamo la nostra religione ma rispettiamo e onoriamo le altre. Il nostro fondatore ha voluto che si celebrassero ogni anno la nascita di Gesù, e quella di Budda.” A quanto so (purtroppo molto poco) la Ramaskrishna Mission eil Ramakrishna Moth (monastero) hanno avuto origine alla fine del 1800 da alcuni indù che, al seguito della spiritualità del monaco Ramakrishna, desideravano rinnovare l’induismo a partire dalle sue Scritture, anche accogliendo elementi buoni e validi da altre culture e religioni; di grande importanza, fra l’altro, il completo superamento della struttura culturale e mentale delle caste, e l’attenzione viva e concreta ai poveri, e ai sofferenti.

Dopo le presentazioni e altri brevi interventi, sono ripresi i canti, in bengalese, e pure di “carrol” natalizi in inglese. P. Francesco ha parlato poi per 45 minuti. In un intervento molto denso e vivace ha spiegato il senso dei termini Gesù, Cristo, Messia, Signore, Figlio di Dio; l’attesa del popolo ebraico, la risposta dei discepoli all’annuncio di Gesù che “il Regno è giunto a voi”. Erano circa 300 le persone ad ascoltarlo, con interesse e attenzione. Una preghiera finale, i ringraziamenti, e poi non poteva mancare (siamo in Bangladesh!) il taglio di una torta, più tante fotografie. Siamo ritornati a casa con pacchi e pacchettini di regali, soprattutto frutta, e contenti. Una veglia natalizia insolita, ma bella. Ho pensato che quest’anno i Magi non sono andati da Gesù, ma Gesù è andato dai Magi…