Non ero sola

Piena di energia, di attività e di sogni, aveva circa vent’anni quando un ictus l’ha costretta a un lungo coma, seguito da una ripresa lenta e parziale, che ha lasciato gravi menomazioni motorie e anche di comunicazione. È un’amica carissima, e mi ha scritto pochi giorni fa.
“Giovedì scorso tutti i vescovi si sono recati nei cimiteri per dire una preghiera a tutti quei morti che non hanno avuto nemmeno un funerale. Ricorreva spesso anche da loro l’immagine della solitudine , dell’assenza dell’affetto dei propri cari. Sì, solitudine, ma non abbandono.
Quando -anni fa – mi sono svegliata dal mio sonno durato una ventina giorni, mi sono trovata distesa in un letto, immobile –anzi muovevo gli occhi, la mano sinistra e le dita dei piedi – e incapace di parlare. Dapprima non capivo perché non mi dessero carta e penna invece di passare un sacco di tempo a recitare l’alfabeto aspettando da me un cenno del capo ad ogni lettera giusta per la parola che volevo dire. Ci ho messo mesi prima di pronunciare la prima sillaba e anni per dire una frase con diverse parole.
I primi sei anni da quando ero stata male, ho caparbiamente voluto mangiare con la bocca. Non ti dico quanto tossivo e dovevo sputare e quanto tempo impiegavo. Ad un certo punto si è rotto tutto e per continuare a sopravvivere ho dovuto mettere un sondino. Ti confido questo perché ho vissuto dentro a un silenzio oggettivo. Sarebbe potuto venire anche il papa, ma mentre mangiavo non sarei mai stata in grado di comunicare. Con nessuno, ma con Dio sì. Mi era di enorme sollievo sapere che lui sapeva. Non dovevo spiegargli nulla: lui capiva. Nemmeno il medico più bravo avrebbe anche solo intuito la mia fatica.
E allora vengo a oggi. Ogni notte penso che potrei benissimo essere una di quei contagiati. Una di quelle persone che muoiono soffocate e sono sole. Sì sole, ma non abbandonate. Mi sarebbe piaciuto sentirlo dai vescovi. Non è il bel pensierino tratto dal catechismo; io lo so per certo. Questi sono gli strumenti per parare i colpi, che Dio ti dà e di cui ti ho parlato. Non ti fermare alla logica umana è il cieco nato che rende gloria a Dio, è l’esaltazione della croce, è un crocifisso che risorge…”

Ammortizzatori

Kakoli.- È una giovane hindu senza famiglia, con una bimba di 9 anni, e l’ex marito convivente con un’altra. Faceva la domestica in una famiglia, alloggiando nel loro appartamento. La famiglia si è trasferita e Kakoli ha trovato una stanza in affitto condivisa con due altre lavoratrici, mettendoci tutti i risparmi; ma era contenta, perché le suore hanno preso la bimba nel loro ostello, e una signora, cristiana, l’ha presa come apprendista nel suo piccolo “Beauty Parlor” (non so come si chiamino in Italia i luoghi dove ti risistemano un po’ la fisionomia – no, non a pugni, ma con creme e matite varie. Saloni di bellezza?) Poi è arrivato il coronavirus e il Beauty Parlor ha chiuso. La signora le ha dato a 250 taka (due euro e mezzo) dicendole che per ricominciare aspettava tempi migliori; le due compagne di stanza se ne sono andate. La padrona della stanza ora la perseguita: la stanza è tutta per te, ora paghi tu per tutte e tre…

Prodip.- Magrolino lui, e magrolina la moglie, sono una coppia di persone molto semplici, buone e simpatiche, con quattro figli piccoli. Lui lavorava in una fabbrica di abiti che alle prime avvisaglie di crisi ha chiuso. Aveva fatto un corsetto di meccanica anni fa, e allora s’è avventurato a prendere la patente per fare da taxista su un CNG, veicoli tipo Ape della Piaggio, attrezzato per passeggeri, con motore a gas compresso (Compressed Natural Gas = CNG). Ne affittava a giornata uno, tirando insieme i soldi per mantenere la famiglia. È andata bene per tre giorni, poi è arrivata voce che il virus s’era messo in pista. Il proprietario del CNG in poche ore lo ha (s)venduto e se ne è andato al villaggio. Prodip, con moglie e figli…

Mahmud.- Pur essendo vecchio (circa 45 anni) ce la fa ancora a pedalare sul rikscio, per mantenere la famiglia nonostante la concorrenza dei tricicli a motore e delle motociclette gestite da Uber. Chiuse le scuole a causa del virus, i passeggeri sono drasticamente diminuiti; poi è stato proclamato un lungo periodo di vacanza straordinaria obbligatoria, insieme con il divieto di circolare se non per casi urgenti e indispensabili, e i passeggeri sono scomparsi. Quasi. L’altro giorno – mi diceva – il padre di uno degli alunni che lui era solito trasportare a scuola (una corsa, 60 taka), verso il tramonto gli ha chiesto di portarlo alla scuola del figlio. Era il primo e unico passeggero della giornata. All’arrivo, gli ha dato 30 taka: “Non ti va? Benissimo, la prossima volta trovo un altro, che mi porta per 20 taka”.

“Ammortizzatori sociali” credo che si chiamino, i sistemi per cui chi perde il lavoro non si trova immediatamente sul lastrico. Qui non hanno un nome, perché non esistono.

Persuasione.- Anche nelle zone più periferiche e vicino alle baraccopoli, il divieto di circolare viene osservato abbastanza. Vista la gravità del problema e l’estensione di Dhaka, hanno chiamato l’esercito a pattugliare, e il sistema funziona; infatti sulle strade principali non si vedono veicoli né pedoni. Come mai tanta disciplina? I militari non sono autorizzati a dare multe, né ad arrestare, ma… “armira mare”, dice la gente, cioè “i soldati picchiano”: se trovano due, tre o più persone a spasso insieme, le pestano senza tanti complimenti.

Casi.– La televisione ieri ha annunciato con soddisfazione che da due giorni non si sono registrati altri casi positivi di coronavirus. Poi ha aggiunto, di sfuggita, che erano stati fatti test su 110 persone. In verità non molti, per una popolazione di 160 milioni di abitanti.

Soccorso.- In tante zone, in Dhaka e altrove, è iniziata la distribuzione di pacchi di cibo fra i più poveri, e di questo c’è davvero bisogno. La TV di stato mostra insistentemente funzionari, amministratori, e politici del partito al potere che si affollano per farsi riprendere mentre mettono i sacchetti in mano ai poveri. La voglia di farsi pubblicità è più forte della paura di trasmettersi il virus.

Italia.- Sono tanti che mandano messaggi e telefonano per chiedere come va in Italia, e per assicurare preghiere. È vero, parecchi dei casi di esami positivi al coronavirus sono stati attribuiti al contagio causato dal rientro in Bangladesh di persone che lavoravano in Italia; è anche vero che nei campi dei profughi Rohingya hanno proibito a cinesi ed europei di circolare, perché vengono additati come “untori” e correrebbero gravi rischi. Ma il buon nome dell’Italia in Bangladesh c’era e rimane, assieme a riconoscenza. Speriamo che le promesse di preghiere siano vere.

Cugini

Per il secondo anno consecutivo, i missionari Saveriani in Bangladesh rischiavano di non trovare un predicatore che accompagnasse il loro ritiro spirituale. Cercando qua e là, sono incappati nel sottoscritto – ultima spiaggia. Ho colto l’occasione per “costringermi” a fare una cosa che da tempo desideravo, cioè approfondire un po’ il significato dell’affascinante preghiera di Gesù, il “Padre Nostro”, e trascorrere qualche giorno con i “cugini” saveriani, con i quali mi ero trovato bene guidando un ritiro parecchi anni fa (per la cronaca, sul profeta Elia). Così, dal 18 al 21 febbraio scorso ho inflitto loro le mie elucubrazioni, che hanno sopportato coraggiosamente. Abbiamo pregato insieme, scambiato qualche esperienza, gustato frutta e verdura del loro orto, superbamente coltivato da p. Marcello – che consideravo un intellettuale e invece… lo è, ma sa anche coltivare pomodori e fare marmellate.

Avevo 19 ascoltatori. Fra loro, un “outsider”, il missionario diocesano di Alba p. Renato Rosso, che ha nel cervello (o nel cuore?) un’insolita bussola, con la lancetta che infallibilmente si dirige verso gruppi e gruppetti di nomadi di qualsiasi etnia; in qualsiasi posto si trovino, li scova: dalle Filippine, all’India, al Brasile, a non ricordo dove, ultimamente pure in Israele – e naturalmente in Bangladesh, dove i Saveriani gli offrono un “pied à terre”. La sua vita è per i nomadi ed è nomade pure lui.

E i Saveriani? Se ricordo bene, due sono messicani, uno bengalese, gli altri italiani – per lo più “stagionati”, come noi del PIME. Potrei cavarmela dicendo che sono gli “omologhi” del PIME: noi nel nord ovest e loro nel sud ovest del Bangladesh. Storicamente, quando il PIME mandò il primo gruppetto di missionari in Bengala (1855), la Santa Sede ci aveva assegnato un territorio estesissimo, a ovest del Brahmaputra, che andava da Khrisnanagar, poco lontano da Kolkata, fino all’Assam, ai confini con il Buthan e il Nepal, e che era parte della colonia inglese dell’India. All’inizio, i missionari del PIME si interessarono agli hindu di lingua bengalese, e con tanta fatica aprirono alcune piccole iniziative, soprattutto scuole, e qualche comunità cristiana cattolica – magari attirando gruppetti già in parte evangelizzati da Battisti e Anglicani. Pian piano, nei primi 50 anni di lavoro si misero le basi di alcune parrocchie/missioni, tutte a sud del Gange. Ma verso la fine del XIX secolo si aprì un orizzonte nuovo, avviando contatti con gli aborigeni a nord del Gange, che si mostrarono aperti all’annuncio, e l’attenzione si spostò verso di loro. In pochi anni, nel 1927, venne fondata la diocesi di Dinajpur, nel nord ovest. Della parte sud si presero cura Gesuiti e Salesiani. Nel 1947 l’indipendenza dalla Gran Bretagna tracciò un confine di inimicizia fra Pakistan e India, tagliando quasi a metà il territorio missionario del PIME, e anche del sud dove, nel 1952, venne fondata la diocesi di Jessore, affidata ai Saveriani. I nuovi missionari lavorarono sulle basi lasciate dagli altri, PIME e post PIME, naturalmente facendo anche molto altro: missioni nuove e iniziative nuove. La diocesi spostò la sede nella città più grande della zona, Khulna, dove si trova ora. I Saveriani si dedicarono specialmente ai “fuori casta” conciatori di pelle, chiamati “Risci”, dedicando molte energie e ricerche a questo gruppo disprezzato e poverissimo. Fondarono un Centro Catechistico Nazionale, scovarono aborigeni anche nel sud, in particolare il gruppo Munda, si dedicarono a interessanti studi su vari temi, tutti in qualche modo collegati con l’argomento evangelizzazione e dialogo, con lo sforzo di entrare dentro e apprezzare la cultura di questo popolo. Sono loro che hanno fatto conoscere il premio nobel bengalese Robindronath Tagore in Italia, con eccellenti traduzioni. Andarono oltre la diocesi, nella diocesi di Chittagong, ma il lavoro nelle zone degli aborigeni nel sud est venne bloccato da disposizioni governative, che non permettono agli stranieri di operare in quelle regioni – e, ultimamente, neppure di andarci… Aprirono iniziative fra le donne più povere, fra i bambini di strada, una missione in diocesi di Mymensingh. A Jessore avviarono e gestirono il “Fatima Hospital”, in passato uno dei pochi ospedali decenti di tutto il Bangladesh; a Khulna l’originale iniziativa- realizzata con le Suore di Carità (Maria Bambina) – dell’ospedale S. Maria, dove gruppetti di medici italiani – soprattutto chirurghi – si recano a turno, curando e operando gratuitamente molte migliaia di ammalati poveri. Con loro ho vissuto giornate ottime, insieme abbiamo sfiorato la bellezza e la profondità del Padre Nostro.