Onestà

In una scheggia precedente, intitolata “Canton Hall”, racconto di un simpatico signor Shankar, con il cognome cinese, che mi cercava per conto di un suo amico italiano, il quale poi mi ha scritto qualcosa di interessante a proposito della sua esperienza in Bangladesh: non è comune sentir parlare in questo modo stranieri che hanno lavorato in questo paese. Con il suo permesso, pubblico parte della sua lettera.

“(…) Ho avuto nella mia esperienza di lavoro in Asia (10 anni in Bangladesh e successivi 10 anni in Cina), molte opportunità’ di conoscere il PIME e alcuni dei suoi missionari. Io sono di San Donà di Piave e ho frequentato molto in Hong Kong Padre Piero Zamuner, suo confratello, anche perchè lui originario di Noventa di Piave, che si trova a 5 Km da casa mia.

Mi ha fatto piacere che abbia conosciuto Shankar. Lui è buddista, di Khulna, di nonno cinese, e abbiamo intensamente lavorato assieme 10 anni. L’azienda, si chiamava IKOS allora, si è distinta in Bangladesh perchè aveva escluso come policy aziendale di mai assoggettarsi a qualsiasi atto di concussione ed ovviamente tanto meno di corruzione. E questo fu per tutto il periodo. E lo fu anche in Cina negli anni successivi.

Devo dire che per questo siamo stati molto apprezzati dal mondo del business (tutto musulmano lì), e mai avversati o messi in difficoltà. Io personalmente ho trovato molta correttezza nel rapporto di affari con gli industriali locali, e vorrei dire anche in maniera superiore che in Italia per quegli anni.

All’interno della nostra policy, il rapporto con i dipendenti fu eccezionale… quando terminai quel periodo di lavoro sentii dire… Sir, you didn’t give us a job, you gave us the dignity… (Signore, lei non ci ha dato un lavoro, ci ha dato dignità…).

Ricordo che quando comunicai la nostra maniera di lavorare a un Direttore della allora Banca Commerciale Italiana, rimase incredulo, conoscendo lui il Bangladesh. Mi chiese di rilasciare un’intervista a dei funzionari della loro Banca, che in quegli anni stavano facendo uno studio su come diminuire/evitare la corruzione nei rapporti di affari. A loro sembrava impossibile, per me era e fu del tutto normale riuscire a lavorare all’interno di quell’etica.

Peraltro una piccola intervista la rilasciai anche a Padre Gheddo, credo nel 2001, che ebbi occasione di conoscere durante una piacevole cena proprio nella Casa del Pime a Dhaka, e che poi fu pubblicata su Avvenire. (…)

In Bangladesh l’utima volta sono tornato in ottobre del 2013 per salutare Shankar. Mancavo dal 2003. Ho notato forti cambiamenti ovviamente, per certi aspetti non era più il Bangladesh che ricordavo, salvo i visi ed i comportamenti della gente più’ povera ed umile.

Desidero manifestarle che non ho parole per esprimere il mio apprezzamento per quanto avete tutti voi fatto in Bangladesh, Paese così diverso da noi per cultura e religione, ma dove si tocca con mano tutti i giorni l’umano che risiede in ognuno di noi. Auguro anch’io a lei ogni bene, cordialmente e con molta stima. Giorgio Spinazzè”

Keralesi

Fino a circa quarant’anni fa, dire “missionario” significava dire “occidentale”: tutti i missionari in giro per il mondo erano originari dell’Europa e dell’America del nord. Con un’eccezione, i Keralesi.

Il Kerala è uno stato dell’India meridionale che ha parecchie originalità, rispetto agli altri stati. Ha una popolazione mediamente più istruita e benestante, abituata a muoversi e anche a trasferirsi all’estero, non ha divisioni di caste, ha avuto vari governi comunisti, anche quando il Congress Party dominava a livello nazionale, ha una minoranza cristiana consistente, che appartiene per lo più alla chiesa cattolica di rito Siro-Malabarese, con storia, tradizioni, riti, diritto propri. È una “chiesa apostolica”, che risale all’apostolo s. Tommaso, mentre il rito è stato elaborato con la chiesa di Siria; il rito latino è entrato più tardi, con i commercianti e missionari portoghesi, dando occasione a un penoso conflitto fra l’antica comunità locale e i nuovi arrivati. Ci sono santi e sante, monasteri, santuari, comunità religiose locali e venute da fuori. La chiesa del Kerala aveva un buon numero di preti e suore, e non pochi di loro andavano a svolgere servizio “fuori”. Si trattava di preti diocesani che si trasferivano in altri stati dell’India,in diocesi bisognose di clero, oppure all’estero, e di religiose mandate da varie congregazioni. Sapevano adattarsi, nonostante il cruccio di dover lasciare il Rito Malabarese, cui sono molto legati…

Anche il PIME, negli anni sessanta, si accordò con alcuni vescovi dell’Andra Pradesh per accogliere come membri preti del Kerala – con l’intesa che avrebbero fatto parte del PIME, ma rimanendo a lavorare nelle diocesi dell’Andhra. Si formò presto un gruppetto di una dozzina di keralesi nell’Istituto; si sperava che, grazie a loro,l’Istituto avrebbe avuto una continuità in India, nonostante gli stranieri non ottenessero più il visto di permanenza.

Ma il Capitolo del dopo Concilio, nel 1971, valutò che trattenendo gli indiani in India avremmo trascurato una caratteristica originaria dell’Istituto, e opo un sofferto dibattito decise di chiudere l’esperienza. Gli indiani che erano già membri rimasero, e alcuni di loro accettarono anche di essere destinati fuori dall’India. Uno, il caro amico p. Abraham Aykara, chiese il permesso e passò al St. Thomas Missionary Institute, di rito Siro Malabarese, fondato in quegli anni riprendendo quasi alla lettera le Costituzioni del PIME. Poi, nel 1989, il PIME aprì di nuovo le porta, ma con la clausola opposta alla precedente: non “con il PIME per lavorare in India”, ma “con il PIME per lavorare all’estero”. E oggi Keralesi e altri indiani, con il PIME, sono sparsi per tutto il mondo…

Della generosità missionaria della chiesa del Kerala si ebbe un assaggio anche in Bangladesh, grazie alle Suore della Carità (di Maria Bambina), che accolsero giovani keralesi e ne inviarono alcune nel Bengala, affiancandole alle italiane. Ripensavo alla loro storia il 20 maggio scorso, nella cappella del “Capitanio Convent” a Dhaka, durante la Messa funebre di suor Theonilla, keralese, 85 anni. Era venuta in Bengala (allora Pakistan) nel 1955, rimanendovi fino a oggi, e qui aveva pronunciato i voti definitivi. Anche durante la guerra (1971), pur potendo ritornare in India, rimase. Insegnante, aveva ricoperto diversi incarichi nel suo Istituto. Era una donna attiva, precisa, attenta e discreta, che trasmetteva un senso di serenità. Ho ripensato ad altre keralesi che conosco e sono ancora qui: suor Berchmans, con cui ho collaborato a lungo nel Centro Assistenza Ammalati di Rajshahi; ora, a Jessore, dirige l’ospedale S. Maria, in collaborazione con i Saveriani, accogliendo e organizzando gruppi di medici italiani che a rotazione offrono un prezioso servizio a pazienti poveri. O suor Sandra, una esperta presenza di servizio all’ospedale St. Vincent di Dinajpur, con il PIME. E altre che ci hanno lasciato, come suor Teodora, apprezzatissima infermiera, e suor Pia, morta a Dinajpur a 100 anni di età. Era stata anche insegnante elementare di Khaleda Zia, poi divenuta primo ministro. A chi le chiedeva come fosse da bambina rispondeva con un sorriso malizioso: “Carina e buona, ma… capiva poco…” Come altre loro consorelle del Kerala, hanno saputo ambientarsi in Bangladesh dall’interno di comunità formate di italiane – in passato – e ora di bengalesi. Hanno espresso doti non comuni di leadership, di impegno, di testimonianza: missionarie convinte e affidabili. Quanto a suor Theonilla, a tutte le altre doti aggiungeva il “tocco” con cui sapeva offrire una tazza di caffè veramente speciale, insieme ad un sorriso buono e tranquillo. Grazie suor Theonilla!

Canton Hall

Somor, uno degli studenti che vive con noi, mi avvicina perplesso: “Padre, c’è un tale al cancello che chiede di parlare con te. Dice che lo manda p. Canton.” “Chi?” “Padre Canton, mi pare…” P. Canton ha lasciato il Bangladesh da anni, ed è morto in Italia anni fa. Sto per dire a Somor di mandare via l’ignoto imbroglione, poi… curiosità? Compassione? Desiderio di vedere che faccia farà quando gli dirò che il trucco non funziona? “Mah, vediamo. Fallo entrare.”

Aspetto in fondo al cortiletto mentre un tipo grassottello ma agile entra deciso; la doverosa maschera antivirus nasconde un sorriso che si coglie negli occhi… Gli ingiungo severamente di lavare le mani con il sapone, rito imposto a chiunque varca il cancello, prima di mettere piede in veranda. “Giusto, giusto…”, ed esegue. Riappare con le mani gocciolanti e si ferma osservando la dovuta “social distance”. Due convenevoli, poi parto all’attacco: “Ti manda P. Canton, vero?”. Mi guarda perplesso: “Mi manda p. Canton? Ma come… lei non lo conosce? È andato in Italia parecchio tempo fa e poi, poveretto, quattro o cinque anni fa è morto!”

Dopo pochi minuti chiacchiero con questo simpatico signore di mezz’età, bangladesci, buddista, con cognome forse cinese, come con un vecchio amico. Mi dice che per circa 10 anni era stato “Managing Director” di una ditta italiana, e che insieme al signor Giorgio, un italiano della ditta stessa, aveva fatto amicizia con P. Canton, che abitava proprio in questa casa. “Ci ha invitato a pranzo varie volte. Gli volevamo bene, era pieno di attività e anche di buon umore. Abbiamo visitato la chiesa che stava costruendo a Faucal, e siamo andati alla sua Messa… Siamo stati anche a Borni, dove aveva lavorato per vent’anni. Abbiamo saputo che a Borni vogliono costruire una “Hall”, un centro per incontri intitolato a lui. Il signor Giorgio , ora in Italia, desidera sapere se la notizia è vera e se il progetto si realizza, perché vorrebbe partecipare, offrendo un aiuto in memoria di p. Canton. Sono venuto a nome suo; avevamo collaborato molto bene e siamo rimasti amici.” Gli spiego che, per quanto ne so, la costruzione è fatta e finita, e il Centro funziona. Si assicura che io possa farla pervenire al Parroco di Borni, e poi mi consegna una bella cifra in contanti, “in onore di P. Canton”.

La “Hall” è bella, con tanto di fotografia di P. Canton sulla facciata; c’è persino un suo busto accanto all’entrata – fra il nuovo edificio e la grotta di Lourdes. Non lo do per certo, ma ho il sospetto che qualche anziano abitante di Borni, detta un’“Ave Maria” alla grotta, si scusi con la Ascoltatrice e si sposti poi subito davanti al busto del “loro” padre Canton per un’ulteriore raccomandazione: era specialista nel risolvere i problemi, e di un ferreo ottimismo. Non appariva un “santerellino”, ma era un cristiano e un missionario serio.

Funny man

Sembra che il virus non sia arrivato – finora – nel “Chittagong Hill Tracts”, area collinare nell’estremo sud-est del Bangladesh, sede di molti gruppi aborigeni che fino a pochi anni fa costituivano la maggioranza della popolazione. Tuttavia la proibizione di viaggiare, e l’ordine di rimanere in casa sono applicati anche là, e gli ostelli studenteschi hanno mandato a casa tutti. Mong Yeo Marma, fondatore e direttore dell’ostello “Hill Child Home”, che raccoglie 150 aborigeni in maggioranza Marma, ha scelto di non mandare a casa nessuno: molti dei suoi ragazzi e ragazze non hanno famiglia, o abitano lontanissimo: meglio rimanere insieme: l’ostello è abbastanza isolato e ha ampi spazi boschivi intorno.

Ma l’ordine di chiusura è arrivato quando Mong Yeo si trovava a 150 chilometri di distanza dall’ostello, per un’urgente necessità famigliare. Come ritornare? Ormai tutti i mezzi erano fermi, i servizi di trasporto bloccati, i controlli numerosi e severi. Mong Yeo, in ansia, dopo inutili tentativi di avere il permesso è partito a piedi, in piena notte. Ogni tanto un pezzo in riksciò, o su una moto, poi di nuovo a piedi, su un carro… quando lo fermavano, tirava fuori i documenti di identità, e poi l’arma segreta: le fotografie dell’ostello, dei ragazzi e – spiega, spiega – lo lasciavano passare. All’ottavo “Alt, che cosa fai in giro?”, dopo due ore di domande hanno fatto ricorso ad un ufficiale superiore, che è intervenuto di persona facendogli un interrogatorio severo e sospettoso. Poi ha controllato fotografie e documenti, “scoprendo” che c’era anche il passaporto, valido ma con i timbri di un unico viaggio all’estero, e questo estero è niente meno che l’Italia. “Sei stato in Italia???”. L’ufficiale passa ad usare l’inglese e gli intima di stare lontano perché certamente infetto. Mong Yeo fa notare che si è trattato di una permanenza di un mese, oltre 5 anni fa, e lo tranquillizza, ma lui s’incuriosisce: “Che cosa sei andato a fare in Italia per un mese? Non mi dirai che eri un turista!” Mong Yeo ricomincia a sperare, e spiega con entusiasmo che tutto quello che fa all’ostello è possibile perché gli italiani lo aiutano. Racconta del viaggio, di come sono stati gentili con lui, di come vogliono bene ai ragazzi anche se non li conoscono. “E questi amici lontani – aggiunge – non solo mandano aiuti, ma anche pregano per noi!” Poi prende coraggio: “È vero che stanno passando momenti terribili, per questo preghiamo ogni giorno per loro, più del solito. Se non mi lasci ritornare all’ostello, che cosa racconterò loro? Che non v’importa nulla dei bambini che loro aiutano?”. L’ufficiale pare perplesso, e Mong Yeo fa l’ultimo salto: “Io sono sicuro che tu capisci e mi lasci passare, ma non basta, ti chiedo anche di più: anche tu devi pregare per gli italiani!”.

“You are a funny man – Sei un uomo buffo” commenta l’uomo –e gli dà il via libera. Mong Yeo ringrazia felice, fa qualche passo, poi si volta: “Hai promesso di pregare, ricordalo!” “Va bene, va bene…”