Camaleonte

Riprendo il filo di due “schegge”, “Canton Hall” e “Onestà”, apparse sul blog il 9 e il 28 giugno scorso. Parlano del mio incontro con il bengalese Shankar Hui (origini birmane), e dalla corrispondenza con l’italiano Giorgio Spinazzè, che hanno collaborato per 10 anni in una ditta di nome IKOS, tra l’altro, facendo in quel periodo amicizia con p. Angelo Canton. Come molte altre ditte, la Ikos faceva da “ponte”: dall’Italia partono ordini di acquisto di vestiario (magliette, camicie, ecc.), in Bangladesh si selezionano le ditte che le producano bene, in tempo, e a prezzo conveniente. Shankar e Giorgio si stimano molto, e mi hanno presentato con entusiasmo questa loro collaborazione.
Sento spesso lamentele sulla disonestà e la corruzione che imperversano in Bangladesh (varie volte in testa nella classifica dei “Paesi più corrotti al mondo”), e sull’affidabilità del personale: mali ritenuti inevitabili, a cui bisogna adattarsi se si vuole concludere qualcosa. Ma questi due amici “cantano fuori dal coro”. Shankar mi ha parlato della loro amicizia, nata qui lavorando insieme; Giorgio mi ha confermato che si è trattato di un’ottima esperienza nel campo della correttezza dei rapporti, con tutto il personale, e con industriali locali.
Incuriosito, ho invitato Shankar per una chiacchierata. Per quasi tre ore (compreso il pranzo al rinomato “Ristorante PIME”) mi ha fatto entrare in un mondo che non conosco, spiegandomi il lavoro che svolgevano. I particolari tecnici mi sfuggono, ma la sostanza penso di averla colta. Ho percepito l’entusiasmo con cui ha lavorato: i principi del loro lavoro furono esplicitati fin dall’inizio: onestà, dedizione, responsabilità, puntualità, disciplina. Vi aderì cordialmente, li praticò e li vide praticati quotidianamente.
Poi ho di nuovo interpellato Giorgio: “Le poche righe che mi hai scritto, e che ho riportato nel blog, sono estremamente positive. Il racconto di Shankar pure lo è, ma la positività fa un lungo percorso: Shankar è partito dal proposito fermo e convinto di essere onesti in tutto, e poi ha illustrato le non poche difficoltà incontrate per esserlo davvero, questo perché (e non me ne stupisco) c’è chi approfitta della fiducia che riceve, o addirittura ha come metodo e obiettivo quello di “fare il furbo”. A quanto ho capito, Shankar è stato come uno “scudo protettivo” perché nel vostro lavoro e nei rapporti interni alla ditta non entrasse il veleno della disonestà. Ne risulta un’impressione meno ottimistica circa molti bengalesi, ma identica per ciò che riguarda la vostra esperienza, che è risultata vincente.”
Ed ecco il commento di Giorgio: “Nel periodo dei 10 anni della Ikos, tutti i dipendenti (esclusi 2 disonesti che nel tempo non abbiamo tenuto con noi, come Shankar ha riferito), hanno accettato ben volentieri il codice di comportamento etico e si sono sentiti, secondo me, per la prima volta, responsabili del proprio lavoro e soprattutto autonomi e fieri di farlo in maniera così chiara e trasparente.(…) Non esistevano compromessi, da una parte richiedevamo ai fabbricanti qualità, dall’altra pagavamo loro e giustamente, un prezzo maggiore di quanto il mercato diceva.
I nostri ispettori dovevano solo seguire le linee guida chiare date, che erano:

– prima di tutto istruire e assistere su linea di cucitura il personale della factory, cercando da loro la massima collaborazione e dando loro il massimo dell’incoraggiamento
– poi chiedere soprattutto solo qualità dopo aver ben spiegato ogni dettaglio tecnico

Dovevano rispondere solo alla IKOS e non ad altri, sicuri che la Company avrebbe sempre provveduto a loro e in maniera anche premiante. Un ottimo team, affidabile e fiero, che ha sempre lavorato con molto entusiasmo e tanta professionalità.
Per quanto riguarda il mio rapporto con i titolari delle factories, anche questo fu buono.
Tutti musulmani e molto corretti, però qui scrivo, che secondo me si era verificato quello che io chiamo “effetto camaleonte”.
Se la controparte (io) era di schiena diritta, loro facevano come il camaleonte, e cioè si disponevano a specchio, usando lo stesso linguaggio e comportamenti come esattamente li impostavo io.
Mi viene da pensare che forse per la prima volta, e forse con loro sorpresa, nessuno chiedeva loro un ritorno di commissione, solo per aver passato un grosso ordine.
Nè alcuno tirava troppo giù il prezzo, mettendoli così in difficoltà nel realizzare la qualità massima (nel tessile una percentuale di capi difettati è fisiologica, ma noi non accettavamo nessuno di questi capi alla fine, per questo pagavamo un prezzo corretto che considerava anche il loro “scarto”).
Mi sono quindi sempre trovato molto bene con loro, e anche meglio di quanto ci si possa trovare, in affari, qui in Italia con contro parti simili.”
Un commento? Tiro acqua al mio mulino, dicendo che senza voler mettere etichette, pure questo è un modo di fare missione, cercando, testimoniando, collaborando con il Regno di Dio che è giustizia e fiducia. Congratulazioni ai due amici!

Canapa

La foglia, quando è ancora tenera, si cucina ed è un’ottima verdura, da fare invidia agli spinaci… È un arbusto elegante, dritto, sottile e piuttosto alto che cresce su terreni allagati (tipo risaie). In inglese è “jute”, in italiano “canapa”, in bengalese “pat” (“t” palatale, per favore…). Seminato fittamente, colma di verde intenso grandi estensioni pianeggianti: da oltre due secoli fa parte del panorama del Bengala, specialmente nella parte centro meridionale.

La coltivazione richiede cura, e fatica. Al momento del raccolto, immersi nell’acqua, i lavoratori tagliano gli arbusti alla base, legandoli in fasci che lasciano sul posto a macerare, diffondendo un caratteristico odore acre. Quando la fibra inizia a staccarsi dal tronchetto centrale, i fasci vengono “battuti” con forza, ripetutamente, sulla superficie dell’acqua, con un ampio movimento del torso e delle braccia, finché si separa completamente. Allora si fa asciugare disposta in sostegni sulla riva; poi, legata in grandi, pesanti matasse dorate, la portano a stabilimenti (“jute mills”) per farne corde, tappeti, tessuti grezzi, sacchi, ecc. Il tronchetto centrale, privato della fibra esterna, è liscio, leggero e fragile; con pazienza, donne e bambini lo dividono in pezzi lunghi circa 40-50 centimetri, mescolano sterco di vacca con pula di riso e appiccicano l’impasto intorno agli steli, facendo insoliti “spiedini”che espongono al sole. Ben secchi, costituiscono un ottimo combustibile per cucinare.

La Gran Bretagna, nel periodo coloniale, ha incoraggiato e diffuso la coltivazione della “jute” perché trovava qui clima e terreno ideali, e buoni mercati d’acquisto in varie parti del mondo. Si coltivava pure l’indaco, che cresceva molto bene in bengala e veniva usato per produrre coloranti; ma quando venne sostituito da altri prodotti sintetici, non ci fu più convenienza, e rapidamente la canapa ne prese il posto. Però anche per questo prodotto non è sempre andata bene. Ci fu una crisi al momento dell’indipendenza (1947) quando India e Pakistan si separarono: la canapa veniva coltivata nella parte che divenne Pakistan Orientale, mentre le fabbriche per la lavorazione si trovavano nella parte che rimase India, verso Kolkata: li separava il nuovo confine politico che fu ben presto chiuso. Fu crisi per gli industriali in India e per i coltivatori in Pakistan Orientale – poi divenuto Bangladesh (1971). Non so che cosa successe in India, ma in Pakistan/Bangladesh gradualmente crearono nuovi stabilimenti (jute mills) e gradualmente la crisi fu superata.

Ma arrivò il tempo della plastica e delle fibre sintetiche, che rapidamente diminuirono l’importanza e il valore della canapa. Questo fatto, unito alla concorrenza di altri paesi (specialmente Cina), ad una politica ondivaga e contraddittoria e a tanta corruzione, mantennero il settore in perenne situazione di crisi, anche se si produceva e si esportava, e la canapa costituiva, dopo il riso, uno dei prodotti principali del Bangladesh.

Ora le industrie ci sono, e la canapa ha perso importanza, ma ha ancora il suo posto nell’economia del paese. Fra l’altro, il Bangladesh ha creato centri di ricerca di tutto rispetto, che sperimentano, selezionano e diffondono qualità di canapa migliori, per produrre tessuti che facciano concorrenza alle fibre sintetiche e al cotone. Sono anche molti i prodotti artigianali a base di canapa, spesso sostenuti da Organizzazioni non Governative e da gruppi ecologisti, mentre alcuni paesi e ditte europei hanno creato corsie preferenziali per usare prodotti in fibra naturale, e quindi canapa, sia come componenti di alcune parti delle automobili, sia come borse per la spesa, sacche e altro.

Ma gli stabilimenti statali per la lavorazione della canapa non sono mai riusciti a far quadrare i bilanci. Per questo, a fine giugno il governo ha drasticamente deciso la chiusura completa di oltre venti “jute mill”, a partire dal primo luglio. Ai lavoratori fissi sono state promesse liquidazioni “dorate”, ai precari (alcuni continuano come precari da trent’anni…) nulla. A tutti, per altoparlante, è stato comunicato che devono sgombrare alla svelta le case dove abitano, di proprietà governativa; la polizia presidia le aree vicine agli stabilimenti; due sindacalisti sono stati incarcerati con l’accusa di atti di vandalismo commessi due anni fa durante una manifestazione per avere gli stipendi arretrati…

Commercianti, produttori privati, esportatori non sembrano troppo preoccupati: la parte gestita dallo stato non era più di grande rilevanza, e loro sperano di poterla assorbire, ridando vitalità alle proprie ditte che stavano vivacchiando. Quanto ai 25 mila dipendenti, sarebbe stato difficile trovare un momento peggiore per informarli che non avevano più lavoro né casa. Siamo devastati dalla pandemia e dalla miseria. Ci mancava proprio questo…