Adolfo

Gli piaceva scherzare, e sorprendere. Un attrezzo elettronico nuovo, un giocattolo strano, una notizia inedita… Una volta (e non da giovanotto, ma quando aveva ormai circa 70 anni…) si vestì con cappellino bianco, barba e palandrana tipica degli anziani devoti musulmani e girò a lungo nella missione di Suihari – dove tutti lo conoscevano – senza che alcuno lo riconoscesse… Dell’ultima sorpresa che ci ha fatta parlerò con lui appena mi sarà possibile andare alla cappella del “lebbrosario” che si trova nella missione di Dhanjuri (diocesi di Dinajpur). Infatti…

P. Adolfo L’Imperio ci ha lasciati serenamente a 91 anni di età il 3 luglio scorso, nella casa del PIME a Lecco, dove in breve tempo aveva seminato un po’ del suo buon umore vivace, delle sue battute. Tutti noi che lo conoscevamo bene abbiamo commentato con rammarico: desiderava tanto morire ed essere sepolto in Bangladesh, e invece… Invece niente: chissà come gli è venuto in mente, ha organizzato tutto perché – dopo la morte – il corpo venisse cremato, e le ceneri portate a Dhanjuri, dove lui aveva iniziato il suo impegno di giovane missionario, dove era tornato poi per prendersi cura degli ammalati. E ora sono là, nella cappella del lebbrosario. Nessuno l’aveva immaginato, ma lui ce l’ha fatta.

Ci eravamo conosciuti nel seminario teologico del PIME a Milano nel 1965. Dopo due anni lui, più anziano di me di 13 anni, fu ordinato e partì per il Pakistan Orientale. Visse l’esperienza dura della guerra che segnò la nascita del Bangladesh, e del dopoguerra di miseria e fame, coinvolgendosi con tutte le energie nel programmare e realizzare progetti di aiuto, sviluppo, rilancio, in collaborazione con missionari di altri istituti, Mani Tese, organismi internazionali, partecipando alla fondazione della Caritas nazionale.

Ci ritrovammo in Bangladesh, nel 1978. Io venivo dall’Italia: studio, animazione, formazione, “teorie”… un altro mondo. Adolfo, da bravo “fratello maggiore”, mi comunicò subito un’esperienza fondamentale, e mi disse: “Tu non hai conosciuto p. Sozzi, il “guru” che mi ha introdotto alla missione in questo paese; ti passo ciò che ho ricevuto da lui. Mi ha insegnato la spiritualità senza fronzoli, da vivere qui. ‘Se non preghi – mi diceva – puoi essere molto indaffarato e anche soddisfatto di te stesso per tutta la vita, ma batti l’aria; e se davvero vuoi pregare, non girare attorno al problema: alzati la mattina presto, prestissimo; altrimenti non troverai mai il tempo. ” Presto… quanto? Quanto occorre, prima di ogni altra cosa. Così aveva fatto p. Sozzi, così fece p. Adolfo,fino all’ultimo.

Per lui il passaggio alla vita di “pensionato” non fu facile. Più volte mi disse che si sentiva inutile, che non voleva mangiare pane a ufo… ma seppe superare la crisi: si diede un orario per distribuire bene riposo, letture, meditazione (al suo posto in cappella non mancò mai “Jesus Caritas”), e anche se avrebbe potuto dire: “ho tanto tempo, me la prendo comoda”, rimase fedele al principio della preghiera prima di tutto (beh, no: prima di tutto il caffè e due biscotti possibilmente al cioccolato, di cui andava matto…). Alcune attività le continuò quasi fino all’ultimo giorno, specialmente con e per i giovani. Aveva sempre avuto un debole per ragazzi e giovani; anche a novant’anni di età gli piaceva renderli contenti: con caramelle e piccoli regali, ma anche e soprattutto leggendo e commentando con loro il Vangelo, la sorgente – credo – della serenità che era in lui e che voleva comunicare con ogni mezzo possibile… caramelle comprese.

Non so quanti edifici in Bangladesh siano stati disegnati o riadattati da lui: chiese, scuole, case di comunità, dispensari medici, ostelli, uffici, anche la nunziatura… No, non era ingegnere né architetto. Aveva frequentato l’Istituto Nautico di Gaeta, la sua città. Poi aveva lavorato come geometra, prima di entrare nel seminario del PIME dopo dieci anni di servizio alla diocesi come presidente di Azione Cattolica, a 33 anni di età.

In seguito, in Bangladesh, aveva sfoderato le sue doti.

Partiva “alla grande”, di solito. Se c’era da affrontare un problema, o preparare un progetto, durante i nostri incontri comunitari sapevamo che prima o poi avrebbe detto la sua: “Bisognerebbe fare un’inchiesta”. Oppure, come variante: “Bisognerebbe fare uno studio”. Lo prendevamo in giro per questo, e lui insisteva: le cose si fanno bene, oppure… oppure si fanno come possiamo, perché poi quando la faccenda si faceva urgente, Adolfo partiva anche senza statistiche, studi e inchieste, e cercava di risolverla. Ovviamente, prendeva pure le sue cantonate, ma non ci faceva troppo caso: il bilancio, alla fine, risultava quasi sempre positivo. Il suo fiore all’occhiello? Direi il Santuario della Madonna del Rosario di Pompei, costruito in occasione del giubileo del 2000 a Dinajpur. Bello, e diventato ancora più bello con i successivi ritocchi di Fratel Caserini e di P. Baio. È il suo “inno” alla Madonna, verso cui aveva una devozione non ostentata, sobria ma viva.

Per quattro anni fu superiore regionale del PIME in Bangladesh. Negli anni settanta-ottanta tenere insieme la squadra PIME era impresa ciclopica. Fece fatica, ma sopravvisse, ed ebbe pure il coraggio di commentare, in assemblea, dicendosi grato ai numerosi confratelli che lo avevano costretto a “ridimensionarsi”, a praticare una “leadership” umile.

Non era mai stato uomo da “mofussol”, come diciamo qui, cioè da pastorale rurale, con visite ai villaggi, tempo trascorso nelle case della gente… ma apprezzava anche questo aspetto della missione, cui lo aveva introdotto p. Enrico Viganò, parroco a Dhanjuri, luogo a cui Adolfo rimase affezionato specialmente per la presenza là del lebbrosario che dava rifugio a tanti ammalati.

Fu economo generale del PIME, rettore di seminario, direttore della scuola e dell’ostello St. Philip, amministratore della diocesi di Dinajpur dove ebbe la piena fiducia del Vescovo mons. Michael Rozario: si conoscevano bene, anche nei difetti, e si stimavano molto.

Mentre era rettore conobbe Soraya, una pittrice bengalese, musulmana, a cui chiese di dipingere la via crucis del seminario. L’artista meditò profondamente ogni stazione e ne nacque un lavoro bello, toccante. P. Adolfo ne fece pure un libretto dove riprodusse i quadri per illustrare il testo della via crucis. Di idee ne aveva tante, la realizzazione era qualche volta affrettata e perciò imprecisa, ma con queste iniziative tentava di aprire piste nuove, attente alle realtà locali.

Amava molto Gaeta, dove tanti lo stimavano e ricambiavano il suo affetto. I suoi legami di amicizia erano numerosi, un altro volto della sua vocazione missionaria. Da essi ebbe origine anche “Banglanews”: opera di suoi amici che volevano informare sulle attività di P. Adolfo e far circolare le sue lettere; gradualmente allargò i suoi orizzonti dando spazio ad altri missionari del PIME in Bangladesh, poi sconfinando dal PIME e dal Bangladesh, fino ad essere, come è oggi (ha raggiunto il numero mille!), una “enciclopedia settimanale” dell’informazione universale fatta con spirito missionario.

Avrò con me tanti ricordi durante la mia sosta accanto alle ceneri di Adolfo, gli farò le mie congratulazioni: “Anche questa volta ce l’hai fatta a sorprenderci, hai trovato la strada per cavartela con una soluzione inedita per il PIME…”. E ringrazierò il Signore con il pensiero espresso da p. Zè (Giuseppe Fumagalli), che lo ha conosciuto vivendo in comunità con lui negli ultimi tempi, a Lecco: “Sapevo poco di P. Adolfo, ma mi sono trovato subito bene con lui. Davvero una persona che ti fa sentire vicino e a tuo agio: credo sia il profumo della carità che, in definitiva, è il ‘bonus odor Christi’ di cui Paolo parla ai cristiani di Corinto. Un bellissimo dono che Dio ci ha fatto gustare in p. Adolfo. Deo Gratias.”

Confusione

Qualche tempo fa ho trasformato in ben nove schegge un viaggio Dhaka-Dinajpur e ritorno – con varie deviazioni e tappe. Più tardi, P. Gian Paolo, mio compagno di viaggio (e autista), ha colto l’occasione di un mio cenno al fatto che gli anziani dimenticano e fanno confusione (parlavo, naturalmente, di altri…) per informarmi con delicatezza che nelle 9 schegge aveva notato una “piccola confusione, ma senza importanza, la sostanza c’era…”

Infatti.

Scheggia “Viaggio- 6”, del tre aprile 2021. Verso la fine, scrivo che arriviamo alla missione di Khalisha, dove incontriamo le suore del PIME che ci offrono il pranzo, poi mi faccio un sonnellino, poi visito una famiglia amica di p. Gian Paolo e faccio cenno alla presenza di tanti gruppi cristiani evangelici nella zona di Khalisha.

Scheda “Viaggio-7”, del tre maggio 2021. Il racconto ricomincia da Khalisha, e prosegue fino a Dinajpur…

Tutto bene. Il problema è che la tappa non era stata a Khalisha, ma a Boldipukur, e quindi persone e avvenimenti vanno geograficamente spostati di qualche chilometro.

Poi, con l’aiuto (sempre molto discreto) di p. Gian Paolo, scopro il motivo della confusione: noi eravamo effettivamente andati insieme a Khalisha, però durante un altro viaggio, avvenuto poche settimane prima. Pian piano, mi sono reso conto che le immagini dei fatti che racconto (es. la visita alla famiglia) effettivamente non entravano nel panorama di Khakisha, e quindi neppure i commenti: tutto vero, anche i dettagli, ma tutto va riferito ad altra località e altro “panorama”.

Insomma, è come se io vi dicessi: sono andato a Firenze e ho visitato il Colosseo, magari aggiungendo che a causa delle nuvole non ero riuscito a vedere il Vesuvio…

Per chi legge, Khalisha o Boldipur fa lo stesso – e magari si sta chiedendo perché mai perdo tempo a spiegare ciò che da lontano si riduce a una questione di nomi. Domanda giusta.

Ed ecco la risposta: voglio prevenire. Se un giorno su una scheggia leggerete per esempio che “Nel mezzo del cammin di nostra vita”, – come scrive Eugenio Montale ne “I promessi Sposi” – è la famosa frase pronunciata da Garibaldi prima dello sbarco in Normandia, e della successiva battaglia delle Termopili con la vittoria di Pirro…” non fateci caso e non preoccupatevi: solo un poco di confusione dovuta all’età…

Moschee – 2

Il contesto in cui si collocano le affermazioni fatte dalla Primo Ministro il 10 giugno scorso, in occasione dell’inaugurazione di 50 moschee “modello” finanziate dallo stato, è quello di una massiccia maggioranza islamica, di quasi il 90%, cioè circa 150 milioni di persone.

Non si tratta però di un blocco unico e compatto. A parte alcuni gruppi che l’Islam sunnita considera “eretici” (come gli sciiti, l’Ahmadia, vittima di periodici attacchi, e altri), ci sono rumorose e pericolose frange violente orientate al terrorismo, che vogliono imporre varie forme di “Stato Islamico”. Nei loro confronti, dal 2016 il governo ha agito con grande fermezza, mettendo al bando partiti e movimenti estremisti e dando efficacemente la caccia ai loro membri in clandestinità. Fa loro da contrappeso un’altra frangia, piuttosto varia, che – a volte rischiando – critica l’Islam tradizionale mal sopportandone le discordanze con la mentalità moderna; o musulmani di cultura e nome, ma di fatto non praticanti, indifferenti, e agnostici o atei, anche se raramente si definiscono tali.

Frange a parte, la grande maggioranza dei fedeli musulmani può essere distinta, con tante sfumature, fra i fedeli di orientamento spiritualista (influenze sufi), e quelli che aderiscono a un Islam dogmatico e tradizionale che unisce religione e politica, e che in questi anni è stato attivamente proposto e sostenuto dall’Arabia Saudita che finanzia scuole, corsi, visite.

L’area “spirituale” sembra stia perdendo terreno, mentre a sostenere l’area “fondamentalista” s’è fatto avanti in questi ultimi anni il movimento “Salvare l’Islam”: dichiara di non perseguire il potere politico, ma esige che si introducano leggi rigidamente fedeli alla Sharia; si contrappone con efficacia, anche sulle piazze, a movimenti “progressisti” o laici, e sa infiltrarsi negli organismi statali per influenzarli.

Dopo i primi violentissimi scontri di piazza, con cui il movimento aveva reagito a movimenti studenteschi giudicati atei e anti islamici, il governo aveva scelto il compromesso, concedendo a“ Salviamo l’Islam” completa autonomia nella gestione delle migliaia di scuole coraniche che possiede, dando ai loro diplomi equipollenza con quelli governativi, accettando consistenti ritocchi ai testi scolastici ufficiali (dove ogni riferimento a scrittori, pensatori, personaggi positivi ma non islamici è stato eliminato), ritoccando leggi secondo le indicazioni del movimento o bloccandone altre non gradite. Ne è seguito un periodo di “luna di miele”, nonostante che questa scelta avesse irritato da un lato membri di “Salviamo l’Islam” dall’altro membri del partito di governo, che non gradivano questa alleanza molto improbabile. Alla morte dell’anziano fondatore (2020), è seguito un periodo di lotte interne, e vari elementi di partiti radicali fuori legge sono entrati nello “stato maggiore” del movimento.

Il cambiamento è diventato evidente nel marzo scorso, quando il Primo Ministro indiano Modi è venuto in visita per celebrare l’indipendenza del Bangladesh dal Pakistan islamico, ottenuta 50 anni fa anche grazie ad un decisivo intervento indiano. Contro Modi e contro la sua politica considerata anti islamica, sono scoppiate proteste violentissime animate da “Salviamo l’Islam”, con distruzioni e vittime. Dopo una prima reazione sconcertata, che sembrava voler ignorare chi fosse all’origine di queste ribellioni, il governo ha scelto la linea dura. In poche settimane ha incarcerato i più radicali, sia per i fatti recenti, sia rispolverando accuse e denunce pendenti da anni, e ha sfasciato la struttura direttiva del movimento per ricomporla con uomini di proprio gradimento.

Il discorso di inaugurazione delle moschee – che mi pare una sintesi dell’apologetica islamica moderata – permette di intuire la linea politica che ora si persegue: contenere l’estremismo violento e terrorista senza riproporre la “laicità”, sempre sospetta di essere nemica dell’Islam, e d’altra parte senza patteggiare con le forze fondamentaliste; piuttosto, affermare che l’Islam, in quanto maggioranza, ha diritto a una posizione di privilegio, ma deve trattarsi del “vero Islam”, che sta lontano da un fondamentalismo privo di aperture verso concezioni moderne della società. Hasina non promuove reinterpretazioni del testo sacro, né invita ad abbandonare le tradizioni islamiche. Semplicemente dà per scontato e afferma che l’Islam “autentico” già contiene in sé gli elementi che occorrono per accettare, anzi favorire e proporre alcune riforme.

Per questo auspica che le nuove moschee contribuiranno a ridurre, ad esempio, il matrimonio dei minori, il costume che la donna paghi la dote, la droga, la violenza sulle donne, e aiuteranno a tenere le nuove generazioni lontane dalla “militanza” che “deturpa l’immagine dell’Islam”. L’Islam è la religione migliore del mondo – afferma Sheikh Hasina – ed è riprovevole che “un gruppetto di persone, creando la militanza, ne abbia diffuso un’immagine negativa che contrasta con la santità della nostra religione.”

La primo Ministro ha aggiunto che l’Islam “è la religione più tollerante al mondo, perché permette a tutti di godere dei propri diritti e insegna a trattare tutti come esseri umani.” Non è mancato un riferimento alla “gloriosa storia dei Musulmani nel campo della conoscenza e della scienza: in passato la comunità musulmana era progressista, in ogni campo della conoscenza. Allora perché i Musulmani oggi sono arretrati?”

Grazie a queste moschee modello non solo si propagherà l’essenza dell’Islam e delle sue pratiche, ma “il Bangladesh potrà contribuire in modo sostanziale alla predicazione e alla diffusione della nostra santa religione.”

Dunque, se ho ben capito, non si ripropone un compromesso con l’Islam radicale, né una “laicità” che volesse essere “neutrale”; si cerca appoggio ad alcune scelte “progressiste” perseguendo una via che non separa stato e religione, ma li integra – alle proprie condizioni.