Sette per sette

Le “PIME Sisters” (Missionarie dell’Immacolata) che operano in Bangladesh, hanno iniziato presto ad accogliere vocazioni locali, per lavorare con loro qui, e ormai le “straniere” sono quasi scomparse; poi hanno “fatto il salto” e ora 16 suore di nazionalità bangladeshi sono in missione in altri paesi. Il PIME ha incominciato molto più tardi, ma subito ha chiarito che entrare nel PIME significa anche essere inviati come missionari in altri paesi. Con gli ultimi due recenti “acquisti”, sono sette i suoi missionari di nazionalità bangladeshi, assegnati a sette diverse nazioni di quattro continenti: 7×7!

Uno dei due è Tipu Panna, prete della diocesi di Dinajpur, associato a noi per qualche anno che trascorrerà in Guinea Bissau. L’altro, Dominic Dafader, terminata la preparazione in seminario, non è venuto in Bangladesh a causa della pandemia, ed è stato ordinato prete a Monza. Quando finalmente è arrivato, ha celebrato la sua Messa di ringraziamento e ha ricevuto dal Vescovo di Khulna il Crocifisso della partenza il 14 gennaio, nella parrocchia di Bhoborpara – una delle prime aree del Bengala evangelizzate dal PIME nella seconda metà del 1800. Circa 800 i presenti, fra cui oltre cento musulmani. P. Dominic aveva invitato me a tenere l`omelia, che ora riciclo come “scheggia”, con qualche tentativo di risposta a domande espresse e inespresse che circolavano fra gli ascoltatori.

Parrocchia di Bhoborpara, 14 gennaio 2022 – Omelia

Ho celebrato la mia prima Messa dopo l’ordinazione il 29 giugno 1969, quasi 53 anni fa; erano presenti tanti amici, ma P. Dominic – chissà perché – non c’era… Io invece sono venuto molto volentieri alla “sua” Messa… Ci siamo conosciuti quando lui studiava al College, e stava nella comunità vocazionale del PIME a Dhaka. Mi sembrava un giovane sereno, allegro, di cui ci si poteva fidare. Quando fu chiaro che voleva diventare prete missionario nel PIME, pensai: “Completerà la formazione fra nove o dieci anni: sarò ancora vivo? probabilmente no, però… però mi piacerebbe”.

Ed eccomi qui. Molto contento di celebrare con lui questa Messa, di sapere che andrà in Giappone, e riconoscente perché mi ha invitato a tenere questa omelia.

L’omelia comunque non è per lui: ciò che dirò lo sa già molto bene. È per voi che siete venuti a festeggiarlo, e forse vi chiedete: perché si è fatto missionario? Perché in Giappone?

Cerco di rispondere condividendo la mia esperienza, ormai molto lunga.

Punto di partenza: essere contenti. Di che cosa? di avere ricevuto la fede, di essere amici di Gesù.

Fede: credere che Gesù ci fa conoscere e incontrare Dio – che nessuno vede o tocca o sente. Attraverso Gesù, noi conosciamo Dio come nostro Padre, che ci vuol bene, ci perdona, ci dà luce per vivere in modo giusto, ci offre motivazioni e prospettive, ci dà forza per superare le sofferenze e le tentazioni, ci perdona quando sbagliamo… E ciò non basta: Gesù offre ai suoi discepoli anche una confidenza molto personale: “voi siete miei amici. Non vi chiamo servi perché un servo non sa ciò che fa il padrone, vi chiamo amici perché vi ho comunicato tutto ciò che ho ricevuto dal Padre.” E promette che vivremo sempre con lui nella gioia.

Questa fede è un regalo che il Signore ci ha fatto e ci fa ogni giorno. L’abbiamo ricevuta attraverso i genitori, chi ci ha istruiti, la Chiesa… ma viene da Dio stesso per mezzo di Gesù.

Solo chi è contento di questo regalo può capire la partenza di un missionario. Infatti, se abbiamo ricevuto tanti doni, sarebbe sufficiente dire: “grazie mille”, e non pensarci più? No di certo, e questo è il mio secondo punto: se siamo contenti di quanto riceviamo, diventa spontaneo essere riconoscenti: alle persone che ci hanno aiutato a camminare su questa strada, ma in ultima analisi a Dio, e a Gesù che ce lo rivela e ci accompagna a Lui.

Deve essere una riconoscenza profonda. Gesù ci chiama “amici” – come vi dicevo – e la vera amicizia non è da prendere alla leggera: si ricambia con l’amicizia. Lui ci ha scelto, e noi rispondiamo scegliendolo, o se preferite, accogliendolo; vogliamo anche noi poter dire: siamo tuoi amici. Gli amici si conoscono, stanno volentieri insieme, si aiutano, se necessario si correggono. Noi, amici di Gesù, cerchiamo di capire che cosa gli piace, che cosa desidera. Lui per noi ha dato la vita, e noi vogliamo fare qualche cosa che lui ama e desidera.

Fra i cristiani ci sono vocazioni diverse. Molti sono chiamati a sposarsi, quindi a ringraziare Gesù formando una buona famiglia. Ci sono anche altri cammini, e qualcuno è chiamato ad una speciale vocazione missionaria: Gesù lo sceglie e gli dà un compito speciale – come ha fatto con i profeti.

Vedi la prima lettura, chiamata del Profeta: Geremia 1, 5-10

L’amicizia “conosce per nome”, forma un rapporto profondo e fiducioso, si esprime nella condivisione. Nel vangelo si legge che Gesù, vedendo le folle che vanno a cercarlo, vogliono ascoltarlo, essere perdonati, guariti… “si commuove”. E subito condivide con i suoi amici questa commozione dicendo: “Guardate quanti! Sono come pecore senza pastore. Come comprenderanno che il Regno di Dio è vicino? Come accoglieranno l’amore del Padre?”

Gesù ha questa ansia. Quando la gente di un villaggio lo accoglie bene, è contento. Ma se gli dice “non andar via, stai qui ad aiutare noi…” e vuole tenerlo con sé, allora risponde: “no, devo andare, voglio raggiungere altri villaggi” e fa tanta strada, sempre cercando quelli che ancora non lo hanno conosciuto. Dice pure: “Sono venuto a portare fuoco sulla terra, e non sono tranquillo finché questo fuoco non è acceso!”

Ma non può fare tutto da solo, occorre aiuto. E allora li invita a pregare, e poi ne sceglie alcuni e li manda a precederlo nei villaggi: andate, anche voi insegnate la mia parola, fate conoscere il Regno di Dio, date perdono, libertà, coraggio. Andando, anche i suoi amici devono guardare sempre più lontano, a chi non conosce Gesù e il suo messaggio. Devono parlare del Regno di Dio, non solo, ma offrire i segni di questo Regno, che è in mezzo a loro ma può sfuggire, se non lo cercano con attenzione.

Il primo segno è la fede, con la gioia di credere, e con l’amore per gli altri, e il servizio. Amore, servizio… a chi? Il missionario – proprio perché amico suo – cerca coloro che Gesù stesso mette al primo posto: chi non lo conosce, e quelli che sono sempre trascurati, i più piccoli, i peccatori… non va dove è più facile, e tutto è comodo, dove lo applaudono, ma dove altri non vanno, dove ci sono situazioni che rendono difficile la comunicazione. Sa di fare una cosa che Gesù ama, se dà importanza a coloro a cui nessuno dà importanza.

Gesù durante la sua vita terrena manda ai villaggi di Galilea, Giudea… poi, dopo la sua morte e la sua risurrezione per noi, Gesù chiama e manda non solo verso i villaggi di Israele, ma verso i villaggi di tutto il mondo!

Cfr. Vangelo, andate in tutto il mondo: Mc 16, 14-20

Gesù vuole che tanti, tantissimi possano conoscere e ricevere i doni di Dio. Ma se non c’è chi annuncia, come possono conoscere? Questa è la domanda che si fa un missionario appassionato e instancabile, l’apostolo Paolo, nella seconda lettura che abbiamo ascoltato

Cfr. Seconda lettura: Romani 10, 14-17;

Tutto il mondo! Ma come mai proprio in Giappone? Il Giappone non è povero, è ricco, che cosa farà Dominic in Giappone?

Cercherà di far conoscere Gesù, perché è lui la luce, la vita eterna, il perdono… vi sembra che questo non sia abbastanza? chi non riceve queste cose, è povero anche se ha tanti soldi e se vive in un paese moderno. Vi ricordate di Zaccheo? Molti pensavano: Zaccheo è ricco, non ha bisogno di niente, ed è un peccatore, quindi anche se ha bisogno, non merita aiuto! E invece Gesù con sorpresa di tutti gli dice: Scendi dall’albero, voglio andare a casa tua. E lui scende, incontra Gesù e cambia vita: distribuisce i suoi beni per fare giustizia, riparare alla sua disonestà, aiutare chi ha bisogno…

Il missionario vuole anche annunciare che Gesù è venuto a portare unità, pace fra i popoli. I missionari del PIME lasciano il loro Paese e vanno a vivere in un altro, per annunciare questo con la loro presenza ed esperienza, prima che con le parole: dobbiamo formare tutti una grande famiglia. Ci sono tante diocesi, tante comunità cristiane nel mondo, ma la chiesa è una sola. Tanti popoli, lingue, culture, religioni, che spesso si fanno guerra. Ma Gesù vuol portare la pace, vuole che diventiamo tutti figli di Dio, fratelli suoi: italiani con africani, americani con indiani, giapponesi con bengalesi. Dobbiamo imparare gli uni dagli altri, non guardare solo ciò che occorre a noi, ma essere amici di tutti, perché Gesù è amico e fratello di tutti.

Ecco, questo è il messaggio che p. Dominic porta non sé. Non dentro la valigia, ma dentro il cuore e dentro la mente. Pregherà per i giapponesi come prega per voi della sua parrocchia. Imparerà tante cose e potrà condividerle con voi. Ne insegnerà tante condividendole con i giapponesi. Dovrà fare dei sacrifici, certo, e cercherà di farli con pazienza e gioia, sapendo che tutti nella vita dobbiamo affrontare sacrifici, e sperando che anche voi pregherete per lui. Li farà con l’aiuto del Signore, non da solo. E il bene che farà sarà anche per voi, perché il bene non ha confini.

Ecco perché gli facciamo tanti auguri, preghiamo per lui, e lo ringraziamo, perché ci dà un segno piccolo, ma molto significativo che Gesù è presente e attivo anche oggi, la sua missione continua, il Regno di Dio è già in mezzo a noi.

Grazie, Dominic. Dio ti benedice, ti benediciamo anche noi, e chiediamo la tua benedizione – con gioia e con riconoscenza

p. Franco Cagnasso

Bicittra 3

CALCIO. La nazionale maschile di calcio del Bangladesh, da anni non dà che delusioni, indirettamente compensate dai progressi nel cricket che ogni tanto porta momenti di gloria mondiale, battendo il calcio in popolarità. Anche la nazionale femminile combina poco, ma le ragazze più giovani si stanno facendo onore con ottimi risultati; fra loro, diverse aborigene. L’allenatore spiega che vuol dare la scalata ai grandi trionfi a partire dal basso. I primi, sorprendenti successi, sono arrivati dalle “under 14”; poi, di anno in anno crescevano la giocatrici, e le vittorie internazionali. Siamo arrivati alle “under 19”, e nei prossimi anni brillerà la stella del calcio femminile adulto. No, non giocano indossando il burka.

RIMESSE. Nelle scuole elementari, il mio maestro spiegava che l’economia italiana dipendeva in larga misura dalle “rimesse degli emigranti”. In Bangladesh il tema torna molto spesso sui giornali, perché, nonostante stiamo vivendo un “boom” economico che mi ricorda l’Italia degli anni sessanta, queste “rimesse” sono ancora determinanti. La pandemia sta danneggiando alla grande, ma dal suo inizio, per mesi e mesi, con sorpresa di tutti le rimesse sono notevolmente aumentate. Si dice che i lavoratori all’estero fossero più generosi con le loro famiglie in difficoltà, ma anche che – perdendo o temendo di perdere il posto di lavoro – mandavano a casa tutto il possibile. Per quelli partiti recentemente si trattava anche di non tornare e trovarsi indebitati: si calcola che ogni emigrante “regolare” mediamente impieghi almeno un anno e mezzo per ripagare i debiti fatti per documenti, viaggi, bustarelle varie.

ELEZIONI. Sono in corso, distribuite zona per zona su diverse settimane, elezioni che in Italia chiameremmo comunali. Fino ad oggi (5 gennaio 2022) un buon numero di candidati sono saliti sulla poltrona senza elezioni, perché privi di concorrenti. Una circoscrizione ha visto la vittoria del partito al potere con il 100% dei voti, calcolando fra gli elettori anche coloro che negli ultimi sei mesi sono defunti o si sono trasferiti all’estero. Nella lotta per la vittoria hanno perso la vita 76 persone: pugnalate, nel corso di pestaggi, o durante sparatorie fra gruppi rivali, anche all’interno dello stesso partito, o con le forze dell’ordine. 
Aggiornamento: da ieri ad oggi (6 gennaio) alla lista degli uccisi si sono aggiunte altre dieci vittime, e siamo ad “almeno” 86 morti.

CRESCITA. ll Bangladesh è passato dalla categoria di “Paese sottosviluppato” a “Paese in via di Sviluppo”, acquistando fiducia in sé. Dopo il momento di soddisfazione è venuto quello dei “conti”: il passaggio comporta la perdita di parecchie facilitazioni per esportare e per avere prestiti a tassi di interesse e tempi favorevoli. Ci sono preoccupazioni, e si invocano nuove trattative per non rinunciare ai privilegi, ma indietro non si torna. Al contrario, si preannuncia per il 2040 l’ingresso nella categoria di “Paesi sviluppati”. Per quest’anno, diversi avvenimenti indicano che la direzione sembra giusta: inaugurazione della metropolitana sopraelevata a Dhaka, del ponte sul fiume Padma (oltre 6 chilometri), molte strade rinnovate e allargate, in progettazione la metropolitana a Chattogram e la elettrificazione delle linee ferroviarie, e tanto altro. Come in altri paesi in situazioni analoghe, una forma politica di tipo democratico con forti connotazioni autocratiche sembra dare risultati economici rilevanti. Chi incassa non ha obiezioni, ma non tutti sono d’accordo…

p. Franco Cagnasso
          

Vita nuova

Vita nuova
“Anno nuovo, vita nuova” è una delle banalità che si dicono nei giorni di fine e inizio anno, non fanno male a nessuno, ma certo non mi entusiasmano…Però quest’anno, forse… qualcuno avrà esperienza di un po’ di “vita nuova” reale e non solo augurata. Lo spero, e mi spiego prendendola alla larga.

Mi ha dato varie volte fastidio mons. Thetonius Gomes, vescovo emerito di Dinajpur, nonché ex ausiliare di Dhaka perché – conoscendo la sua passione e le sue iniziative per persone che hanno forme diverse di disabilità – quando ci incontriamo lo aggiorno sulla comunità “Snehonir”. Ascolta con un leggero sorriso, fa un cenno di assenso e inevitabilmente commenta: “Però, non trascurare le disabilità mentali…”. Una pulce nell’orecchio.

Pochi anni fa, vidi entrare nel cortile della parrocchia di Mirpur una donna sui 35 anni, in lacrime, seguita da un bambino che la guardava perplesso. “Ho due figli – mi disse – uno è qui, e l’altro è a casa; non gli funziona la testa. Venivo tutti i giorni con lui, al vostro “Centro di assistenza” pomeridiano nei locali della scuola. Sono musulmana, ma ci stavo benissimo, erano momenti di respiro, di amicizia con altre mamme, di giochi, di sfoghi e confidenze, e preghiere. P. Quirico era un papà… Ora la mia famiglia deve trasferirsi nel quartiere di Uttora, e non potrò più venire. Ho cercato ovunque nella zona… ma iniziative così non ne ho trovate. Venga, venga a vedere dove eravamo chiusi mio figlio e io, prima di conoscervi…” L’ho seguita; nel palazzo vicino, dove due stanze piccole piccole ospitano i genitori, la suocera, i due figli, la cucina e gli attrezzi del papà, elettricista. Spazi per muoversi, zero. Dalla finestra si contempla il muro del palazzo accanto: meno di un metro e mezzo di distanza… Più tardi, quando il PIME ha consegnato alla diocesi la parrocchia, la scuola, e il modestissimo “Centro” che quella donna frequentava, il nuovo parroco lo ha chiuso – non so perché.

Così, alla pulce del monsignore nel mio orecchio s’è aggiunta quella della mamma privata del ristoro che trovava da noi.

Conosco da anni Naomi Iwamoto, missionaria laica giapponese con cui occasionalmente ho collaborato alla Comunità dell’Arche a Mymensingh: tre gruppi, in tutto 24 giovani e adulti con disabilità mentale. Nella nostra prima conversazione mi aveva detto: “Le persone con disabilità mentale sono le più vicine a Dio. Perché capiscono subito, e spesso capiscono soltanto il linguaggio degli affetti, dell’amore. E Dio è amore”. Un bel giorno Naomi mi informa che, dopo 23 anni, sta per lasciare l’Arche, perché – mancando qualcuno che potesse sostituirla – i termini di tempo fissati dalle regole sono già stati da tempo ampiamente superati. Mi confida che non sa che fare: lasciare la vita con persone disabili, per restare in Bangladesh, o restare in Bangladesh lasciando i disabili mentali perché non c’è un’altra comunità?

Ed ecco arrivata la terza pulce: tre sono insopportabili; che si possa fare qualcosa?

Ne parlo con p. Francesco, il quale subito mi dice: certo che si può, va avanti. In seguito, altri missionari esprimono simpatia e disponibilità, e così nasce un progetto insolito perché, contro ogni raccomandazione, norma, metodo, delle ONG (Organizzazioni Non Governative) non è assolutamente preciso e dettagliato: costruzioni, metri quadri, tempi di consegna, previsioni di spesa, fotografie, sostenibilità nel tempo, ecc. ecc. Il progetto ha un obiettivo, che Naomi ha subito descritto inventando il nome: “Joy Joy” (in inglese: “gioia gioia”, e in bengalese “vittoria vittoria”). Il progetto vuol portare gioia in situazioni che tutti considerano infelici, disgraziate, sfortunate, di emarginazione e anche di pregiudizio e disprezzo. Ma come? Prima di tutto cercando, nelle “pieghe” della società di Dinajpur e dintorni, famiglie alle prese con i problemi della disabilità di un loro membro, che spesso cercano di tenere nascosto. Partiamo dai piccoli, meglio dalle piccole, perché sono le bimbe le prime vittime dei numerosissimi abusi sessuali su disabili, perpetrati spesso senza il minimo ritegno o scrupolo; ma inevitabilmente arriviamo subito alle mamme, le persone che oggettivamente soffrono di più, condannate non tanto ad assistere la bimba inabile, quanto al disprezzo e all’isolamento, spesso a partire dai loro stessi mariti.

In sostanza, si vuole mettere a frutto esperienza, preparazione, conoscenze e vocazione di Naomi, che si occuperà anzitutto di cercare queste persone. Informate a proposito di “Joy Joy”, alcune delle 1200 donne dell’area di DInajpur, tutte con disabilità fisiche, che da anni sono unite in una associazione di aiuto reciproco, si sono offerte a fare da apripista, perché ad una giapponese, dunque straniera, e cristiana, dunque di altra religione, si aprano le porte di famiglie bengalesi, musulmane, o aborigene. Speriamo che il progetto prenda forma, plasmato dalla scoperta delle situazioni quotidiane delle famiglie, nonchè dai consigli e dalla collaborazione delle mamme – che dovranno esserne protagoniste. Ipotizziamo un semplicissimo Centro come quello che c’era a Mirpur e di cui ho parlato all’inizio, che potrebbe avere sede nei locali delle scuole o ostelli parrocchiali che il PIME gestisce a Dinajpur. Se, conosciuta la situazione, ci sembrerà che ci siano iniziative migliori da prendere, lo faremo. Per ora immaginiamo già i pasti di venti bambine disabili e rispettive mamme, insieme a centinaia di coetanei che mangiano, giocano, corrono accanto e con loro, e presto impareranno che anche la disabilità è “normale”. Altri venti bimbi e bimbe vorremmo seguirli a casa loro. Con le mamme che si aiutano e che – gradualmente – prenderanno sempre maggiori responsabilità fino a poter continuare senza di noi. Tutto ciò richiede tempo, impegno, persone competenti, e anche soldi. Da dove? Il PIME con i suoi progetti ci darà una mano, e vari amici dal Giappone faranno altrettanto.

Tornando al capodanno, mi auguro che per quelle donne, e per le loro famiglie, sarà davvero “anno nuovo, vita nuova”: non un augurio generico e privo di contenuti, ma una realtà, per quanto modesta. Poi, il modo per andare avanti si troverà. Auguri, Joy Joy!

p. Franco Cagnasso