Sogno

Siamo tutti in giardino, a gustare cibi e canti camerunesi (e non solo), in una serata dal clima perfetto. Al seminario internazionale del PIME a Monza, celebriamo la giornata dell’unità del Camerun che – mi dicono – non sottolinea tanto l’indipendenza, quanto il giorno in cui la nazione decise di rimanere unita, e di non separare le zone di lingua francese e di lingua inglese. Decisione ora rimessa in discussione da movimenti anglofoni separatisti che preoccupano…

Siamo cinque missionari del PIME (un indiano, un camerunese, tre italiani) e sessanta seminaristi in cammino per entrarvi. Provengono dai quattro angoli del mondo quanto ad origine e anche per servizi ed esperienze fatte: Camerun, appunto, ma anche Costa d’Avorio, Guinea Bissau, Zambia, India, Bangladesh, Myanmar, Filippine, Brasile…

Per la prima volta nella nostra storia, quest’anno fra i giovani che intendono entrare al PIME non c’è neppure un italiano.

Non è una bella notizia questa, certamente, ma mi fa ritornare alla memoria un pensiero scritto dal piccolo gruppo di giovani missionari che 170 anni fa, nel 1852, presero parte alla prima “spedizione” organizzata dal nuovissimo “Seminario Lombardo per le Missioni Estere” che più tardi, unendosi al quasi gemello “Seminario Romano”, formò il PIME. Dopo aver espresso la loro volontà precisa di lavorare fra coloro che non conoscono il Vangelo, dove non c’è presenza della chiesa, dove ci sono povertà, sofferenza, disagi e nessuno se la sente di andare, questi giovani – preti e laici missionari – si augurano di offrire ai più lontani la ricchezza dell’incontro con Gesù. E azzardano, timidamente, come fosse una speranza troppo ardita, un quadro ”da sogno”: un giorno questi popoli ora lontani e privi di tutto, ai quali ci rivolgiamo perché sono ultimi e trascurati, saranno a loro volta non solo membri della chiesa, ma missionari, e condivideranno il nostro desiderio di andare sempre più lontano, diventando a loro volta missionari.

Eccola qua, la profezia “da sogno”, la speranza “ardita” e quasi incredibile è davanti ai nostri occhi. Quando, tanto tempo fa (il prossimo 7 ottobre si compiranno esattamente 60 anni), entrai al PIME come seminarista proprio qui a Monza, c’era una bella varietà di giovanotti di liceo: milanesi, bergamaschi, trevigiani, lodigiani, vicentini, e anche qualcuno un po’ più esotico, toscano o piemontese come il sottoscritto… tutti comunque provenienti da paesi “cristiani”. Ora ciò che mi impressiona non è tanto la varietà di provenienze, ma l’entrata in campo di coloro che pensavamo dovessero ricevere – e ora stanno ricambiando.

Questo non ci esime dal chiederci perché non abbiamo vocazioni italiane. Bisogna riflettere e cercare di capire; però ritengo che il cammino della chiesa debba essere orientato da valutazioni attente, revisioni, riforme, ecc. ma soprattutto da una grande apertura e docilità allo Spirito, che non si lascia chiudere nelle nostre valutazioni, statistiche, programmazioni. Un vescovo indiano che ha lavorato moltissimo fra i tribali del Nord India – Thomas Menamparampil – ha fatto notare che la chiesa in vari paesi asiatici (e il Bangladesh è fra questi) non è formata da persone che appartengono alla maggioranza, ma per lo più da minoranze tribali: e questo in un certo senso ci riporta agli inizi, quando il messaggio di Gesù incominciò a circolare per il mondo affidato agli Ebrei, un popolo allora minoritario e oppresso. Tuttavia il vangelo di strada ne ha fatta, anche se era stato affidato a gente che agli occhi del mondo contava poco. Secondo mons. Thomas, saranno proprio queste realtà umane piccole, ignorate e di poca importanza dal punto di vista politico, economico, culturale, ecc. a far conoscere il vangelo in Asia.

Allora, che cosa concludo prima di andare a dormire al termine della festa del Camerun? Niente, nessuna conclusione; tutto è aperto, non ci sono bacchette magiche né ricette sicure. E non ci sono realtà senza problemi, limiti, errori. C’è però, senza negare gli aspetti preoccupanti e di rammarico, il desiderio di accettare con gioia questo panorama inatteso, con la fiducia che sia l’inizio di qualche cosa di nuovo e bello.

Franco Cagnasso
Monza, 21 giugno 2022

Sono io

Sto viaggiando verso Roma su un treno “superveloce”. In stazione mi guardavo attorno fra il sorpreso e il sospettoso: tutto troppo bello, ma verrà il momento… Non è venuto. Niente ressa, sgomitate, spinte, impossibili arrampicate su gradini altissimi, con la borsa che scivola sulle rotaie… Ora una giovane signora seduta accanto a me (ohibò, sarà vero? una donna e un uomo che neppure si conoscono, seduti fianco a fianco per oltre tre ore?) brontola, sostenendo con leggera indignazione che l’altro treno ha i sedili più comodi e lei mai più viaggerà su questo. Sarà, ma a me così va bene: anche se sono migliorate, da qualche tempo non usavo più le ferrovie del Bangladesh, non per colpa dei treni, ma per le sgomitate – anzi, i combattimenti corpo a corpo che sono necessari per salire e scendere: non sono più cose che fanno per me…
Sul biglietto avevo letto che la partenza sarebbe avvenuta alle 10.15, tuttavia il treno è partito proprio alle 10.15; strano, davvero strano.
Ora, sul mio sedile “scomodo”, poggio il computer portatile sul tavolinetto (pulito), e poiché di scosse ce ne sono proprio poche… posso concentrarmi, e ripensare ancora una volta a ciò che da tempo mi chiedo: continuare a scrivere “Schegge di Bengala” anche ora che non sono più in Bengala? Smettere? Scrivere di cose sentite da altri, rifilando ai lettori “schegge” di seconda mano? Oppure mi aggrappo ai ricordi e li rispolvero?
La mia sorpresa perché il treno è partito all’ora giusta, e la mia soddisfazione, che viaggia a fianco dell’insoddisfazione di una giovane signora che trova scomodo il sedile, accendono nel mio cervello un pensiero nuovo: perché mi interrogo su schegge di Bengala? Sono io una scheggia di Bengala!
Quando si parte per un altro Paese, ci si prepara a lasciare tante cose: lingua, abitudini, luoghi, persone, tutto ciò a cui si è abituati fin da bambini, e che per te sono “il mondo”. Si rimane ciò che si è, certamente, ma bisogna fare spazio a tante cose diverse e nuove, che gradualmente trovano posto in te, diventano normali, mentre neppure ti accorgi di averle assorbite. I teologi direbbero che il missionario deve fare una “kenosi”, parola greca che significa “svuotamento” e che s. Paolo usa per spiegare come il Verbo di Dio, pur restando Dio, si è come “svuotato”, assumendo l’umanità e diventando uomo, accettandone tutte le conseguenze. Ma non ha smesso di essere Colui che era da sempre.
Un pochino, questo accade – deve accadere – anche a un missionario. Ma ora che sono ritornato in Italia, devo fare il processo inverso, e svuotarmi di ciò che ho acquisito, ritornando a essere italiano e basta? Fino ad un certo punto, ovviamente, sì: altra lingua, persone, cibi, modi di fare… Ma non del tutto. In venticinque anni di Bengala, lo “svuotamento” non mi ha fatto buttar via chi ero, mi ha aperto un altro mondo, e mi ha “riempito” di tante cose delle quali ora devo fare “kenosi” – ma senza buttarle via. Ciò che ho imparato, vissuto, sentito non è scomparso, e non è surgelato in qualche frigorifero: c’è ancora. Sono – e rimango – un italiano rientrato e un bengalese acquisito. Come cercavo di non infastidire i bengalesi parlando sempre dell’Italia, ora cerco di non infastidire gli italiani parlando ad ogni piè sospinto di Bangladesh. Ma non sono diventato un altro, anche se tante cose (compresi i treni superveloci e i loro sedili) non posso non vederle da un altro punto di vista…
Dunque, siamo d’accordo: la “scheggia di Bengala sono io”, e questo l’ho scoperto oggi.
Ma già qualche giorno fa, mentre preparavo l’omelia della festa dell’Ascensione, cercavo parole e immagini che svegliassero negli ascoltatori la consapevolezza che la fede non si limita a ripetere formule che riguardano realtà passate e lontane, e avevo intuito che questa “doppia appartenenza” (italiano sì, ma bengalesizzato e ora rientrato dal Bengala…) avrebbe forse potuto aiutarmi. Così, alla Messa delle 9.30 nella parrocchia Beata Vergine di Loreto a Bergamo, ho detto che “Il Verbo s’è fatto uomo”, cioè ha come nascosto la sua divinità, imparando ad essere uomo (non scandalizzatevi, questo “imparando a essere uomo” lo dicono la lettera agli Ebrei e pure qualche “Padre della Chiesa”). Poi, dopo la morte, è risorto e salito al Cielo… buttando via la sua umanità ormai diventata inutile? Niente affatto! Se l’è portata dietro, facendola partecipe (tutto, compresi i segni della passione) della condizione inimmaginabile in cui il divino assorbe, ma non cancella, l’umano, anzi lo divinizza. E oso dire che una pallidissima idea di questi passaggi si ritrova nell’esperienza dei missionari.
Poi, sempre nell’omelia, ho tirato in ballo anche le farfalle, che da giorni, passando in un corridoio del seminario teologico del PIME – dove vivo ora – non cessano di affascinarmi: in tante vetrinette pazientemente allestite da p. Carlo, esperto cacciatore e collezionista, gli occhi si stupiscono per una splendida fantasia di ali e di colori che, anche se immobilizzata, con la loro bellezza e varietà mi ricordano che la farfalla può essere simbolo della risurrezione a una vita nuova. È molto diversa, ma non è “altra cosa”; è proprio lui, il bruco scuro e senza ali da cui è emersa dopo la pausa nel bozzolo.
Dunque pure io sarei una farfalla? No, no: questo verrà dopo, quando davvero e in modo completo riaffideremo tutto al Padre, come Gesù. Per ora sono un bruco che spera, e che si fregia del titolo di “scheggia di Bengala” …
Dopo la Messa, due persone mi hanno ringraziato – e come sempre in questi rari casi, ho pensato che se il ringraziamento è sincero – anche questa è una “opera di misericordia spirituale”; poco praticata ma di grande valore…

p. Franco Cagnasso
Cursi (Otranto), 7 giugno 2022