Emilio 2

Nella precedente scheggia ho ricordato p. Emilio Spinelli trascrivendo l’omelia che ho pronunciato poco dopo la sua morte, nella cappella della Casa del PIME a Lecco. Ora trascrivo qui alcuni dei messaggi che in quei giorni sono stati mandati spontaneamente da confratelli ed amici al “Gruppo WhatsApp” del Bangladesh.

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“Ciao p. Emilio, abbiamo cominciato assieme la vita missionaria in BD… tanti felici ricordi di quei primi anni. Dovunque sei stato, la gente ti ha molto amato perché sei sempre stato al loro fianco e hai dato tutto per loro. La tua presenza ai nostri incontri comunitari era una festa per come ci raccontavi con tono scanzonato le tue avventure e quelle di altri confratelli. Ci lasci un grande esempio di missionario semplice, ma vero e sincero, come è stato p. Giulio. Che il Signore colmi il vuoto che avete lasciato. Prega per noi e grazie per la tua amicizia. (Gianni Zanchi)

“Carissimo p. Emilio, Sei stato presente in un pezzo della mia storia in Bangladesh. Abbiamo condiviso momenti di gioia e di fatica. Con tanta riconoscenza ti ringrazio e ti affido nelle mani del Signore. Possa tu riposare presso il tuo Creatore.” (Adolphe Ndouwe)

“Carissimo Emilio, hai compiuto il bellissimo miracolo di passare direttamente dal Bangladesh al Paradiso… parlavi bengalese anche a Rancio e alla sera preparavi la borsa per andare a visitare i villaggi… il tuo cuore era rimasto in Bangladesh… aiuta anche noi ad amare come te tutta la gente che incontreremo sul nostro cammino… un grande abbraccio…” (Quirico Martinelli)

“Carissimo Emilio, le più belle partite “al due” sono state quelle giocate con te… resterai sempre vivo nei nostri cuori… Accompagna dal Cielo il nostro servizio missionario” (Massimo Cattaneo)

“Emilio, vai. Felicitazioni per questa “nuova” destinazione meravigliosa.” (Lucio Beninati)

“Da Chandpukur la nostra preghiera e gratitudine” (Ciro Belisario)

“Caro Fabrizio, mi sei venuto in mente in questi giorni. Tu hai accompagnato Emilio in Italia per tentare le ultime cure. L’ho visto 5-6 volte sia all’ospedale di Merate che a Rancio. L’ho trovato sempre accogliente anche se confuso geograficamente e nella geolocalizzazione di persone. L’ho trovato anche sempre ottimista. Pensa che l’ultima volta che l’ho visto un mese fa, per la prima volta si era presentato camminando con le sue gambe anziché essere accompagnato in sedia a rotelle. Naturalmente il colore era sempre più pallido, ma lui stava “benissimo” come sempre. Quando è uscito dalla chiesa di Cernusco gremita e fra gli applausi, mi è venuto un nodo alla gola. Che uomo anche questo!!! Potremo criticare il PIME finché vogliamo, ma che uomini abbiamo… (Guglielmo Colombo)

“Dopo Pillon, Enzo Palladini, Ivano Tosolini è stata la volta di Vincenzo Pascale e di Emilio a partire da questo mondo… Vincenzo ha speso anche lui tutta la sua vita in Giappone nella stanza sempre ordinatissima. Una vita con pochi cristiani, come del resto in tutto il Paese. Quando l’abbiamo incontrato nella casa regionale di Tokyo, circa 10 anni fa, era cambiato molto dai tempi del seminario, meno riservato, sempre gentile, ma con tanta energia e tante prospettive. I suoi giapponesi l’avevano trasformato… Emilio si interessava anche di politica, seppure in modo indiretto, a sostegno di suo fratello che era stato eletto nelle liste dell’MPL, il Movimento Popolare dei Lavoratori. Quando ci siamo dati i giudizi a vicenda prima dell’ordinazione, lui ha scritto che ci ha visti maturati da un impegno principalmente intraecclesiale a quello più allargato del cambiamento sociale. Sono andato a trovarlo a Rohampur nel 1980 di ritorno dall’Italia per Hong Kong. Quando mi ha visto arrivare, ha aspettato che fossi vicino per innaffiarmi all’improvviso con la canna dell’acqua. Era il suo stile. Poi mi ha portato a pescare nel laghetto del boarding dei ragazzi. Tutto essenziale nella sua stanza. Mi ha fatto conoscere tra le altre suore Barbara Pereira, con la quale siamo rimasti in contatto con la spedizione delle medicine per tanti anni, fino a quando lei è entrata in clausura. La lettera di Emilio dell’anno scorso, in cui si sente contento di aver sentito il nome di cinque giovani sorelle delle sue comunità diventare novizie e quello di due altri giovani diventati preti, rivela la soddisfazione di averli visti seguire la sua stessa strada. Cinque fratelli del PIME classe 1974: SANTI SUBITO!” (Franco Mella)

Infine, una “risposta” di Emilio ai suoi amici…

“In questo periodo post-natalizio mi sento particolarmente euforico. Avrei voluto tanto celebrare un poco del giubileo del mio fratello don Sandro, ma proprio questo desiderio è irrealizzabile ed è giusto e bello condividere la pandemia con la mia gente, anche se mi sono accorto che il giubileo lo sto già celebrando perché il giubileo non si celebra da solo, ma con tutti, con quelli più cari e la gioia è incontenibile e non dovrò aspettare i 50 anni per celebrarlo. Infatti, in questo mese di gennaio, cinque bellissime ragazze hanno emesso voti di consacrazione. Solo cinque le nuove sisters, ma ogni volta che il cerimoniere annunciava il nome della suora con il nome della missione di provenienza (di Chandpukur) c’era come un brusio di accompagnamento, infatti le collegavano tutti a p. Emilio. Mi sono orgogliosamente sentito festeggiato con le nuove suorine e le loro famiglie e con tutta la comunità. Ma questo era solo l’inizio di questo gioioso giubileo perché due settimane dopo abbiamo avuto l’ordinazione di due nuovi preti: uno di Chandpukur e l’altro di Bhutahara e tutti e due hanno vissuto l’ordinazione e la prima messa in mezzo ai campi, all’ombra di due grandi tende, abbracciati da una folla di amici, commossi. Tutti insieme sotto quella grande tenda, nuovi figli, nuove famiglie. Per me questi due momenti sono stati un grande Giubileo. Davvero il Signore è sempre con noi! Carissimi, non sono uno scrittore di libri, magari più in là, chissà, riuscirò a scrivere qualche parola. In questo giubileo così grande, sono riuscito a ricordare anche tutti voi. (Emilio Spinelli – 26 febbraio 2021)
p. Franco Cagnasso
 

Emilio 1

P. Emilio Spinelli, un caro amico, era originario di Cernusco sul Naviglio (Milano), aveva 76 anni ed era stato missionario in Bangladesh ininterrottamente dal 1975 fino ad un anno e mezzo fa, quando fu colpito duramente dal Covid. Portato a Dhaka, si rimise a sufficienza per organizzare un rientro in Italia e tentare di curare i gravi problemi di salute che lo avevano fatto soffrire già prima della pandemia. È morto il 12 agosto scorso a Lecco, nella casa del PIME. P. Ferruccio – superiore generale – mi ha chiesto di tenere l’omelia alla celebrazione eucaristica di suffragio celebrata il 13 agosto. Ne riporto il testo qui sotto, con qualche ritocco.

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Celebrazione Eucaristica di suffragio
Lecco, 13 agosto 2022

Spesso ringrazio Dio per i doni che ho ricevuto, e quando lo faccio ricordo che la vocazione missionaria mi ha dato la possibilità di conoscere e frequentare tante persone belle. Belle nella mente, belle nel cuore e belle nelle opere – perché toccate e trasformate dalla Sua grazia.

Fra loro c’è anche p. Emilio, un dono forse avvolto in “carta da pacchi” più che in carta dorata ed elegante, ma preziosissimo. Me lo conferma un breve messaggio mandato dopo la sua scomparsa da un amico suo e mio, p. Gianni Zanchi, che ha scritto: “P. Emilio, il Signore ti dia la ricompensa, perché sei stato un servo fedele amico di tutti”: una “pennellata” proprio giusta: servo – fedele – amico di tutti.

Ho conosciuto Emilio nel 1964, quando ci incontrammo nel seminario che il PIME allora aveva a Cervignano del Friuli. Faceva parte del gruppo delle così dette “vocazioni adulte”, perché era entrato nella formazione del nostro istituto dopo un periodo di lavoro, e seguiva corsi speciali per recuperare il livello scolastico del liceo; io ero là come “prefetto”. Trascorremmo insieme l’anno scolastico 1964-65 e non fu difficile intendersi: era un giovane pieno di vita, simpatico, sereno e generoso, spesso con la battuta originale, ironica, mai cattiva.

Dopo l’ordinazione (1974) ha trascorso 46 anni in Bangladesh: come assistente di p. Di Serio nella missione di Rohanpur, passando poi come responsabile alla missione di Chandpukur, “ereditata” da p. Ciceri; in seguito, ha creato a Bhutahara una nuova missione piena di vita e attività, e poi ancora ha ricominciato a Kodbir, con la comunità avviata da p. Sandro Giacomelli. Trascorse anche un anno come responsabile della nostra scuola tecnica a Dinajpur, la “Novara Technical School”, in un momento difficile, in cui non si sapeva a chi affidarla…

Aveva due “passioni”:

– I giovani: con loro sapeva essere esigente e allo stesso tempo farsi voler bene; gli ostelli erano un po’ “il suo mondo”: impegno ma anche soddisfazione. A chi ce la faceva, dava anche la possibilità di studi superiori. In questo, nonostante qualche frizione occasionale, ha sempre lavorato d’intesa con le Suore, per lo più della congregazione locale “Shanti Rani” e poi con le Missionarie dell’Immacolata.

– Gli ammalati: ne ha fatti curare tantissimi, appoggiandosi al “Centro Assistenza Ammalati”, voluto dalle suore di Maria Bambina e dal PIME, di cui era il “cliente” più fedele – in “concorrenza” con p. Buzzi. Quando poteva, andava a trovarli, per i bambini portava un giocattolino… Riteneva che occuparsi degli ammalati fosse il gesto missionario più diretto, perché applica alla lettera la parola di Gesù, che manda i suoi nei villaggi e raccomanda anzitutto di visitare gli ammalati. Nella malattia non ci sono divisioni religiose, la sofferenza tocca tutti in modo uguale, e l’aiuto in quel momento è più eloquente di tante prediche o dialoghi. Suor Mariagrazia, dell’Istituto di Maria Bambina, che lo incontrò molti anni fa nel nascente “Centro ammalati”, mi ha detto: “L’ho visto poche volte, ma nella memoria m’è rimasto impresso il ricordo del primo incontro con lui, mentre entrava nel Centro portando lui stesso, sulle sue braccia, una donna ammalata”.

Giovani, ammalati… voglio ricordare anche le piante. Dove andava, trasformava zone spoglie in boschi. Raccontava sorridendo di quel vescovo che gli aveva detto: “Sono troppe, nascondono la vista della chiesa…” ma dall’anno seguente – durante il gran caldo di maggio – aveva preso l’abitudine di trascorrere qualche giorno proprio là da lui, cercando l’ombra e il silenzio del bosco…

Ha sempre operato fra i tribali di vari gruppi, appassionandosi alla loro vita, accettando e condividendo le loro abitudini che cercava di capire, lucidamente, con affetto e rispetto anche quando rilevava debolezze e difetti. Osservava, parlava, rifletteva… le sue valutazioni partivano dall’esperienza e non da pregiudizi o luoghi comuni – che sapeva rimettere in discussione e su cui spesso si confrontava con altri missionari.

Aveva esperienza concreta delle difficoltà che le minoranze tribali incontrano, perché spesso oppresse, ingannate e sfruttate dalla maggioranza, e faceva il possibile per stare al loro fianco; ma sapeva creare una rete di rapporti personali amichevoli e di collaborazione, anche con non pochi bengalesi musulmani. Emilio non parlava di “dialogo”, ma lo faceva nella vita quotidiana, senza classificazioni né ostilità preconcette.

Amava la compagnia. Non mancava mai agli incontri dei missionari del PIME in Bangladesh, momenti di gioia spontanea, con interessanti chiacchierate, scambio di esperienze e consigli, animatissime partite a carte.

D’altra parte, l’abitudine a far da sé, insieme con l’originalità di certi suoi metodi e stili di vita (si alzava sempre prestissimo, si trascurava, era a volte impulsivo…), potevano rendere difficile lavorare con lui nella stessa missione. Ha dovuto accettare anche periodi di solitudine, e questo gli pesava. Quando lasciò Chandpukur per andare a Bhutahara, passò da un ambiente a prevalenza Santal ad un ambiente a prevalenza Orao (altra lingua, altra cultura, altri stili di vita…).Doveva organizzare e costruire tutto da zero, in una località che a suo parere non era stata scelta bene e dove non conosceva nessuno; fu per lui un grande sacrificio, come una lunga quaresima che seppe comunque affrontare senza vittimismi.

Sembrava a volte trascurato; certo con se stesso e con la sua salute lo era. Ma aveva una vita interiore intensa e sensibile. Una volta mi chiese di aiutarlo, perché alcune sue battute scherzose erano state interpretate come ostili da un confratello, che aveva reagito scrivendogli una lettera molto dura. I miei tentativi di chiarire l’equivoco in un primo momento non ebbero successo, e questo causò ad Emilio un profondo disagio: “Bisogna che ci capiamo, non riesco a sopportare un rapporto così…” mi diceva.

Non credo che abbia mai contato quante persone, e nemmeno quante famiglie o villaggi abbia accompagnato al battesimo, certamente tante, ma non sottolineava i “successi”, cercava di andare alla sostanza; mi confidò: “Può capitare di intuire come il Vangelo cambia davvero l’interno, il cuore delle persone, e scoprirlo mi dà una grande gioia.” Una volta ascoltò – non visto – una conversazione fra due anziani, uno dei quali spiegava all’altro perché aveva deciso di avvicinarsi al cristianesimo: “Diceva cose molto semplici, ma vere e profonde; avevo avuto l’impressione che le mie spiegazioni non fossero capite; infatti non le ripeteva come le avevo dette io, ma le rielaborava molto meglio, in modo più concreto e adatto a loro!”. Sosteneva che l’elemento essenziale di una vera conversione consiste nell’entrata della preghiera nella vita delle persone: non lunghe orazioni, ma preghiera semplice, personale, segno di un rapporto con Dio.

Credo che fosse quello che cercava anche per se stesso. A parte le celebrazioni eucaristiche e momenti di preghiera comune, non sembrava pregare molto. Ma un seminarista diocesano che aveva trascorso con lui alcuni mesi mi disse: “Sembra che non preghi molto, ma sono sicuro che lo fa, perché la sua vita lo dimostra”. Un apprezzamento indiretto, ma rivelatore, e prezioso!
p. Franco Cagnasso

Futuro

Dopo 20 anni in Bangladesh, arrivando al “Seminario Teologico Internazionale” del PIME a Monza, ho trovato un’entusiasmante varietà di giovani da Africa, Asia, America del Sud, che si sentono chiamati ad essere missionari secondo i tre criteri che il PIME si è dato e che propone nella sua formazione. Per esprimerli in breve, l’Istituto ha persino rispolverato un poco di latino: ad gentes, ad extra, insieme(ai non cristiani, all’estero, insieme) – sempre dando precedenza alle situazioni di sofferenza, emarginazione e povertà – spirituali e non.

Questo modo di descriverci è stato formulato in tempi relativamente recenti, ma noi ci pensiamo così fin dai primi passi dei nostri fondatori e predecessori. Ora, insieme agli altri “educatori” di questi giovani, devo aiutarli a capire se il PIME fa davvero per loro oppure no, e per quali motivi; dovranno anche chiedersi con quali risorse spirituali andare avanti, appassionati del Vangelo, e nella fiducia che il loro cammino è e sarà accompagnato dal Risorto, che li chiama ad essere suoi testimoni.

Non si tratta di poca cosa: come realizzarla? Tra l’altro, mi domando anche: se mi riferisco all’esperienza dei “miei tempi”, e dei missionari che mi hanno preceduto, quanto posso farmi capire dai giovani e quanto io posso capirli? I contesti sono diversi, e anche le parole hanno significati in parte differenti.

Per tentare di rispondere ci vuol tempo, e bisogna conoscersi meglio. In questa scheggia mi limito a indicare qualche intuizione.

I missionari che hanno accolto nelle missioni quelli della mia generazione, approssimativamente e superficialmente classificabile come “sessantottina”, erano eredi di una tradizione che fin dai primi giorni si era rivolta con grande impegno alle povertà più evidenti: malattie, mancanza di istruzione scolastica, situazioni di denutrizione croniche o ricorrenti, soprusi dei colonialisti, dei grandi proprietari terrieri, delle maggioranze religiose ed etniche, e anche superstizioni e tradizioni, alcune delle quali tenevano la gente nella paura e creavano discriminazioni… Fra noi giovani, in qualche modo influenzati dalla così detta ”contestazione”, c’erano tante domande, anche molto critiche, su come questi problemi venivano affrontati e su come collegare l’evangelizzazione, che comportava l’insegnamento di dottrine nuove, con l’abbandono di tradizioni e religioni, per convertirsi al cristianesimo. Si cercavano “strade nuove”, ci si interrogava se a fronte di situazioni evidenti di povertà e di “sottosviluppo”, fosse giusto annunciare un vangelo “spirituale”. “Evangelizzazione o sviluppo?”. La domanda circolava insistente nel mondo missionario e nella Chiesa, dando per scontato che noi fossimo gli sviluppati, e che fra vangelo e sviluppo ci fosse una sorta di alternativa: o, o… “Non si può annunciare il vangelo a chi ha la pancia vuota” si sentiva dire, con l’aggiunta che “A chi ha fame non bisogna dare un pesce, ma insegnare a pescare”. Spesso queste semplificazioni venivano accettate come un’ovvietà, e portavano a dare la precedenza allo sviluppo, convinti che questo dovesse essere compito primario dei missionari.

Era scontato che i missionari venissero da un mondo “cristiano”, che era un mondo “sviluppato”, e dunque avesse il dovere di fare giustizia per superare il “sottosviluppo”. Il passato coloniale era un peso di cui sbarazzarsi – ma come? Era caduta una posizione del tutto negativa e chiusa nei confronti delle religioni; c’erano risposte nuove alle domande sulla “salvezza dei non cristiani” e sulla libertà religiosa, accompagnate spesso da riflessione teologica che affrontava temi nuovi, e pure da teorie sociali, politiche e ideologiche che cercavano di re-interpretare motivazioni religiose e di fede o anche di lasciarle da parte. C’era un certo “senso di colpa” per il fatto di appartenere a paesi e culture che erano stati e tuttora erano sfruttatori. La grande distanza esistente fra le condizioni di vita quotidiana dei paesi da cui partivano i missionari e le condizioni di vita dei “paesi di missione” poneva interrogativi angoscianti – come io stesso ho sperimentato in Bangladesh. Si può forse dire che in alcuni c’era una sorta di “versione laica” dello zelo che aveva spinto i missionari del passato a scegliere i luoghi più lontani e trascurati e a desiderare anche il martirio; l’obiettivo non era più espresso come “annuncio del Vangelo”, “salvezza”, “conversione”, ma piuttosto come “fare giustizia”, “restituire” il mal tolto. C’era anche, in termini diversi ma con un atteggiamento psicologico analogo, una specie di “eroismo romantico” che in passato sfidava il paganesimo, in tempi più recenti sfidava la “ingiustizia” e il “sottosviluppo”, con una certa dose di sopravvalutazione di ciò che i missionari potessero effettivamente fare, di quanto la loro attività potesse incidere su questi problemi. Con tutto ciò, la mia valutazione sulla missione svolta dai miei coetanei è positiva, e ho ammirazione riconoscente per molti di loro.

Ma oggi, come sono le prospettive?

I giovani con cui vivo per lo più non partono da “paesi cristiani” per andare a “paesi non cristiani”. Non vengono da “paesi sviluppati” e non si dirigono a paesi “in via di sviluppo”. La diversità economica e storica (colonialismo, ecc.) tra paese di partenza e paesi di destinazione, che ci poneva tanti interrogativi e creava sensi di colpa, ora non c’è.

I seminaristi di oggi sono forse più vicini alle condizioni in cui si trovavano i missionari della Chiesa nei suoi primi anni, ai suoi primi passi, che non distingueva paesi di missione e non, sviluppati e non, e nemmeno aveva esperienza di “paesi cristiani” e di società “scristianizzate”. Il loro obiettivo era che la Parola di Dio non si fermasse, “corresse”, e poi avrebbe dato i suoi frutti. L’espressione “conquistare il mondo a Cristo”, spesso usata da p. Manna, era sconosciuta, mentre era vivo il desiderio di dare a tutti la possibilità di ascoltare l’annuncio – a cui avrebbero risposto “coloro che erano stati scelti dallo Spirito”.

La generazione di missionari che si sta facendo avanti ora, non propone rotture con il passato: anzi, molti di loro attribuiscono la loro vocazione al fascino che hanno esercitato i missionari della generazione che li ha preceduti; però si muove in un contesto diverso, per cui credo che emergeranno modelli di vita missionaria in parte diversi.

Non ho mai apprezzato la “futurologia”, né chi scrive libri per dirci come sarà il mondo fra 20 o 50 anni; neppure do importanza allo studio di grandi, globali nuove “strategie della missione” con visioni onnicomprensive che prevedono rinnovamenti radicali di tutto. Perciò non pretendo di spiegare in anticipo come andranno le cose. Ma penso che dobbiamo, con umile fiducia, stare attenti alla silenziosa opera dello Spirito, che instancabilmente rinnova, ricrea, rilancia, approfittando anche dei nostri fallimenti, sbagli, dubbi. Non è detto che tutto ciò che sta cambiando, e forse ci preoccupa molto, sia premessa di guai, decadenze, invito a rimpiangere il passato.

Franco Cagnasso
Esino Lario, 18 agosto 2022