“Cinquant’anni di amicizia con Gesù”, “cinquant’anni di servizio come Gesù”, e “cinquant’anni di frutti e di potature.”
Queste riflessioni e condivisioni in occasione del cinquantesimo ci hanno aiutato a far emergere pure un aspetto legato non solo alle parole di Gesù ma anche alle circostanze in cui le ha dette. Per Gesù era arrivato il momento di “consegnarsi”, e di affrontare il passaggio della morte. Abbiamo ricordato i compagni che ci hanno preceduto su questa strada, e abbiamo preso coscienza di un’importante “ovvietà”: se non possiamo conoscere il momento e l’ora – siamo comunque sicuri che per noi “il tempo si è fatto breve”. Che significa? Significa prendere sul serio la promessa di Gesù: “Vado a prepararvi un posto” (Gv 14, 2). Vorremmo pensare alla morte non, come rispose Piero Angela a chi gli chiedeva come la vedesse, una inevitabile “grande scocciatura” da posporre il più possibile, nè semplicemente come una caduta nel nulla, che cancellerebbe il nostro io, spentosi come una scintilla fugacissima. Non dovrebbe bastarci neppure soltanto la consolazione di un’incerta e rassegnata speranza che “di là ci sia qualcosa”. Vorremmo piuttosto vederla come una completa assimilazione al Signore Gesù, un diventare partecipi della sua morte per partecipare in pieno a quella vita che già ci ha dato e già abbiamo gustato nella missione cui ci ha inviati. Frutti e potature sperimentati lungo il nostro cammino ci stanno preparando alla consegna totale di noi stessi al Padre, insieme all’Amico che ci ha chiamato per condividere tutto con noi, anche l’ultimo passo terreno: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”(Lc 23, 46).
Certo, il modo di guardare alla morte e il credere la resurrezione sono una sfida alla nostra fede, e rileggendo nei Vangeli i racconti delle primissime esperienze di fede nella resurrezione, ci siamo anche detti che dubbi, equivoci, resistenze di quei primi discepoli ci aiutano a non stupirci dei nostri dubbi e dei nostri passaggi nel “deserto”.
Come ho accennato, sono le donne le prime a intravvedere l’incredibile, l’indicibile, e senza dubbio la loro testimonianza ha aperto la strada, anche se alcuni non vi hanno dato peso. Ci siamo chiesti: nei nostri 50 anni di vita celibe, quale spazio hanno avuto le donne? Siamo semplicemente scapoli a vita, tenuti lontani da un amore che Dio ha donato fin dall’inizio all’essere umano perché uomo e donna insieme siano immagine sua? O persone che sanno amare, accogliere, camminare insieme come ha fatto il Maestro?
Infine, a darci forza per accogliere dalla mano del Padre il tempo che ancora ci resta, abbiamo ricordato un capolavoro della delicatezza di Gesù, le tre domande che ha rivolto a Pietro dopo che si era tuffato in acqua per raggiungerlo sulla riva del lago, dove li attendeva. Dopo aver gustato insieme il pane e il pesce, arriva la sua domanda, che sfonda un muro di sofferenza: “Mi vuoi bene?”. Gesù aiuta Pietro a non rimanere invischiato nella vergogna del suo fallimento, e nella sfiducia in se stesso; lo mette alle strette costringendolo a ripetere per tre volte: “Sì, ti amo, anche se ti ho rinnegato tre volte; la mia debolezza non cancella l’amore, lo rende più umile, più indispensabile, più consapevole. Il mio amore è tuo dono!”
Così il Signore ha detto anche a ciascuno di noi: non fare troppi bilanci, fidati di nuovo: “Vieni e seguimi… Sì, proprio adesso, dopo cinquant’anni…”
Infine, ci siamo chiesti se nella nostra posizione di “veterani” abbiamo qualche raccomandazione da offrire all’Istituto di cui siamo parte da tanti anni e che è la nostra “famiglia”.
Ci proponiamo di non essere brontoloni elogiatori del passato, e di ricordare piuttosto chi erano e come erano gli anziani che durante la nostra giovinezza ci hanno aiutato. Sono stati per noi modelli non perché idealizzavano il passato, ma perché erano criticamente aperti a vivere in pieno il presente… come Paolo Noè, Cesare Colombo, Angelo Gianola, Luigi Pinos, Enzo Corba… – tanto per ricordare qualche nome fra i molti.
Onestamente, abbiamo riconosciuto che ci sembrano poco chiari i recenti cambiamenti strutturali nell’Istituto, e ci chiediamo come possano aiutare efficacemente a realizzare le buone intenzioni di chi le ha volute. Ma non ha senso criticare ora: per quanto sta in noi, faremo il possibile perché tutto funzioni bene – anzi meglio.
Per concludere, però, ci permettiamo due raccomandazioni fraterne.
La prima è presto detta: proponiamoci e pratichiamo una sobrietà che qualche volta sembra un po’ dimenticata.
La seconda è nata da una nostra chiacchierata “a ruota libera”: considerando che il processo di internazionalizzazione dell’Istituto sta avvenendo in modo molto rapido e investe tutte le nostre presenze missionarie, attività, ecc. quasi senza accorgercene abbiamo avviato un paragone fra stili, metodi, idee e orientamenti “degli italiani” e “dei non italiani”. Per fortuna ci siamo fermati subito, riconoscendo che si trattava di una “scivolata” in categorizzazioni che non hanno senso. Ma proprio la nostra “scivolata” in analisi superficiali e generalizzazioni infondate ci ha suggerito di presentare una benevola raccomandazione a tutti i confratelli: stiamo attenti a non ragionare a base di paragoni generici e superficiali. Non esistono i “non italiani”, neppure esistono i “non africani” o i “non asiatici, “non americani”, ecc. come categorie. Certo ci sono culture diverse, ma le diversità si colgono, capiscono, e gestiscono fruttuosamente solo se non prendiamo la scorciatoia dei luoghi comuni, delle osservazioni superficiali, delle classificazioni…
Mi trovo a Monza da un anno, e ancora mi sento attirato dal Bangladesh come da una calamita, eppure mi riempie di gioia essere qui, nella nostra comunità “multiculturale”, dove almeno un poco partecipo al cammino di tanti giovani diversi, tenuti insieme da quell’amicizia che Gesù ha offerto a noi tanti anni fa, facendocela gustare fino ad oggi, e che ora offre anche a loro. E se qualcuno di noi fa notare con rammarico che: “Questi giovani sono in buon numero, ma… non c’è neppure un italiano…”, non è perché gli italiani facevano o farebbero meglio, ma perché la chiesa italiana che ci ha dato vita e ci ha sostenuto con generosità per oltre un secolo e mezzo sembra ora diventata sterile; e questo certo è motivo di rammarico. Ma non di scoraggiamento. Un PIME come è quello di oggi, cent’anni fa (e anche molto più recentemente, quindici anni fa) nessuno lo avrebbe immaginato. Ma c’è, e di questo ringraziamo il Signore, che ci chiama “amici”.
E chissà, forse c’è un vantaggio anche nella crisi: se gli italiani sono pochi, saremo più disposti ad accogliere chi proviene da altre terre, e il nostro doveroso e necessario appello alle tradizioni dell’Istituto sarà libero da atteggiamenti saccenti e da spirito di superiorità.
P. Franco Cagnasso – Monza, 7 luglio 2023