Sconfinamento

Il 7 febbraio scorso, 60 studenti e 4 “formatori” (più il sottoscritto) del Seminario Teologico Internazionale del PIME, con sede a Monza, sono andati con mezzi vari a Crema per partecipare, nella cattedrale, ad una veglia di preghiera per il Myanmar. È seguita la celebrazione eucaristica, nel ricordo del Beato Alfredo Cremonesi, missionario del PIME ucciso in Birmania settanta anni fa, il 7 febbraio 1953.

La Birmania (oggi Myanmar) non è il Bangladesh, ma spero che se qualcuno entrerà nel “blog” accetterà questo “sconfinamento” dal Bangladesh. La scheggia ha due parti: un profilo biografico del mio confratello beato, seguito dal testo dell’omelia che ho pronunciato la sera del 7 febbraio, a Crema.

Cenni biografici da: Piero Gheddo: Alfredo Cremonesi, un martire per il nostro tempo. EMI, Bologna, 2003

1902 – 16 maggio, Alfredo nasce a Ripalta Guerina (Crema), primo di 6 figli maschi e una femmina – A 11 anni entra nel Seminario diocesano di Crema. Durante gli anni di seminario attraversa un lungo periodo di malattia e grave deperimento. Nel 1921, contro ogni previsione, si riprende bene, e decide di farsi missionario; “forse anche martire” scrive.

1922 – Alfredo è accolto a Milano nel Seminario Lombardo per le Missioni estere, che pochi anni dopo, fondendosi con il “gemello” Seminario Romano per le Missioni estere, prese il nome di PIME. È al terzo anno di teologia.

La famiglia era in condizioni economiche buone, ma fu rovinata e ridotta quasi alla fame dai fascisti, che compirono una “spedizione punitiva” (1927) contro il papà, attivo e generoso membro dell’Azione Cattolica e difensore della democrazia; uomo intelligente, molto affiatato con il figlio. Il giovane Alfredo scrive bene e pubblica: racconti, versi, libri, commedie a tematica missionaria. Esprime il suo amore alla missione scrivendo; solo in un secondo momento ha pensato a sé come missionario.

1924 – Alfredo viene ordinato presbitero nella chiesa S. Francesco Saverio (Milano); per un anno insegna al seminario minore dell’istituto, a Genova Nervi.

1925 – 5 ottobre, riceve il crocifisso di partenza; s’imbarca a Napoli e arriva in Birmania dopo 25 giorni di viaggio. Vi resterà ininterrottamente per 28 anni.

1953 – 7 febbraio – Viene ucciso da militari birmani a Donokù (diocesi di Toungoo) mentre cerca di proteggere un capovillaggio cristiano accusato di aver appoggiato i ribelli.

La vita missionaria

La decisione di farsi missionario era stata accompagnata dal proposito fermissimo di non tornare e non voltarsi indietro, per appartenere completamente alla missione, senza distrazioni e senza rimpianti, ma… poco dopo la partenza scrive: “Ho distrutto il mio passato… e allora perché oggi non sogno che il passato? (…) mi dà fastidio… ma non ne posso fare a meno. Cambiare rotta al mio pensiero ora è pretendere di deviare il Po, quando la piena lo rende turgido…

Arriva a Toungoo (centro-sud del Myanmar) il 10 novembre 1925. Molto dotato e convinto, in otto mesi impara un poco di varie lingue locali, mentre si guarda attorno e scrive i primi commenti: “Posti incantevoli… gente pulita e ben vestita”; apprezza pure le varie opere delle missioni. Scrive: “questi Cariani e questi Birmani esercitano su di me un fascino meraviglioso. Mi piacciono, mi piacciono, mi piacciono…”

Molta fantasia e progetti… chiede alla FIAT un aereo in regalo (senza ottenerlo…), ha passione per il teatro… “ho la testa che mi sembra un vulcano”. Rammaricato perché i Birmani non si convertono, avvia una “crociata di preghiere” per la conversione dei Birmani per mezzo dei Cariani. uno dei gruppi etnici del Paese…”. Pensando allo sviluppo sociale e al miglioramento delle loro condizioni di vita, avvia fra i Cariani una lega di mutuo soccorso; dà importanza all’istruzione, progetta una scuola tecnica, varie scuole…

Dopo pochi mesi inizia le visite sui monti, anche in luoghi mai raggiunti dai missionari. Viaggia molto: a piedi, su sentieri scoscesi, restando fuori casa ogni volta per un mese e più; montagne ripide, caldo, zanzare – e malaria, la “tortura” che lo prostra fisicamente… Forzatamente medico di se stesso, si cura con pesanti e dolorose iniezioni di chinino. Vive momenti di rischio sia per i malanni, sia per le difficoltà dei viaggi.

A un benefattore scrive: “quasi un mese fra i villaggi, e devo ripartire domani… Però il Signore sembra benedire queste mie fatiche, perché anche in questo ultimo giro ho avuto l’immensa fortuna di assicurare tre nuovi villaggi alla fede. Ma Gesù è grande, Gesù è buono!”.

Stima e simpatia per la gente. “Guarda a questi meravigliosi cristiani. Battezzati da solo due o tre anni ma molto più ferventi dei nostri cattolici… Anche i catechisti… vita esemplare che mostra la bellezza della nostra fede, tengono il popolo unito, risolvono i loro problemi, conquistano nuovi pagani alla fede…”

Alfredo viene trasferito più volte, anche in posti dove deve iniziare da zero, e spesso esprime il desiderio di avere qualcuno che risieda e lavori con lui, per condividere idee, fatiche, responsabilità, ecc. Ma due anni di esperienza con un missionario di carattere e comportamenti molto difficili e imprevedibili, con cui nessuno riusciva a stare, lo induce scrivere al Vescovo e chiedere di essere trasferito; Alfredo conclude però che, se ciò significa che il Vescovo manderà un altro, il quale a sua volta “soffrirà come me o anche più di me” è disposto a restare e fare del suo meglio.

Nella tragedia della Birmania

1937 – inizia un lungo e tormentatissimo processo di autonomia e indipendenza della Birmania, con ricerca dell’identità nazionale di un paese che è colonia della Gran Bretagna, formato da vari gruppi etnici spesso in lotta, e da varie religioni, con la presenza influente dei britannici, e di immigrati cinesi e indiani.

1939 – Seconda guerra mondiale: dal 1940 gli Inglesi mandano in campo di concentramento molti missionari italiani, in quanto cittadini di una nazione nemica… poi distruggono ciò che può servire al nemico e lasciano la Birmania ai Giapponesi che conquistano tutto. Alla fine del 1943, l’Italia cambia alleanze e diventa nemica dei Giapponesi, che di conseguenza se la prendono con i missionari italiani; poi a loro volta distruggono tutto e si ritirano in Thailandia, per tornare in Giappone. Si formano in Birmania due partiti comunisti rivali, mentre truppe del partito nazionalista cinese, sconfitto dai comunisti di Mao, si rifugiano in Birmania occupandone alcune regioni del nord – dove si trovano ancora oggi in situazione non ufficiale di semi autonomia.

1948-1952 – Rivolta dei Cariani, il gruppo etnico più sviluppato e coinvolto in politica, contro il governo nazionale che si sta formando. La ribellione è appoggiata da molti cristiani battisti, perciò comunemente si pensa che tutti i cristiani siano ribelli, anche i cattolici che in realtà da tempo sono in conflitto con i battisti, e per lo più non appoggiano la ribellione. I missionari fanno quello che possono per portare pace, soccorrere le vittime della violenza, calmare gli animi, salvare le opere delle missioni.

Le guerriglie dei gruppi etnici contro il governo, e a volte fra loro, continuano, con momenti più o meno intensi, fino alla vittoria elettorale di Aung San Suu Kyhi, pochi anni fa. Riprendono con grande intensità coinvolgendo sia i birmani sia i tribali, con il colpo di stato militare del febbraio 2022.

OMELIA

Letture per la celebrazione Eucaristica: Is 52,7-10 – Gv 10, 1-16

“Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annunzia la pace, del messaggero di buone notizie che annunzia la salvezza…” (Is. 52, 7). Con queste parole inizia la prima lettura che abbiamo ascoltato questa sera, tratta dal profeta Isaia. È un’immagine poetica simpatica, ma a dire il vero i piedi del nostro missionario certamente non erano belli. P. Alfredo non si lamentava mai delle difficoltà, però le raccontava nelle numerose lettere e negli articoli che scriveva ai suoi famigliari, agli amici, a pubblicazioni missionarie. Descriveva, tra l’altro, la sua vita di viaggiatore ed esploratore su e giù per montagne ripide, coperte da foreste, senza strade e spesso nemmeno sentieri… sempre a piedi, perché il cavallo costava troppo, e senza mai trovare un paio di scarpe adatte, costretto ad usare solo scarpe di pezza che non proteggevano da sassi e spine, e si laceravano subito lasciandolo a piedi nudi, quindi doloranti, pieni di escoriazioni e di ferite. Quando finalmente la famiglia riesce a mandargli un paio di scarpe da montagna di buona qualità, è soddisfatto e grato… ma gli durano meno di un anno.

I suoi viaggi, spesso in luoghi del tutto inesplorati, erano a volte rischiosi… Alfredo narra che una volta lui e la guida persero l’orientamento e, dopo affannosi tentativi, si resero conto di essersi del tutto smarriti: il buio sarebbe presto calato trovandoli soli in una foresta montagnosa, impervia e piena di pericoli. Li salvò… il canto di un gallo lontano. “Se c’è un gallo, ci sarà pure qualche essere umano” pensarono, dirigendosi subito nella direzione da cui era venuto il “chicchirichì”; e arrivarono a un piccolo villaggio che li ospitò.

Eppure è giusto dire che i piedi di Alfredo erano belli, perché lo portavano ad annunciare “la buona notizia” e “la salvezza” a tante, tantissime persone. Molti lo accoglievano con gioia, lo ascoltavano volentieri, si disponevano a conoscere Gesù e il Vangelo. Per questo non smetteva di viaggiare, e non si lamentava, anzi sognava sempre di fare di più… Già prima di partire per la missione aveva scritto: “Io desidero un apostolato pieno di sangue e di sacrifici, colmo di fiele e di delusione, senza l’egoistica soddisfazione personale: e laggiù è il mio campo”. Diceva con entusiasmo che voleva affrontare qualunque tipo di sacrificio e fatica per arrivare ai più lontani. E davvero è stato così.

I sacrifici non erano causati soltanto dai viaggi. Era sempre a corto di soldi, con debiti, scuole, cappelle da costruire, stipendi ai catechisti, che stimava molto. Viveva una grande povertà personale: abiti, cibo spesso scarso e poco nutriente (riso bollito, con erba della foresta, scriveva), insieme a malattie che doveva curare da solo, come la malaria che lo perseguitava, e ad esaurimenti di forze che più volte lo portarono vicino alla morte, se non lo avessero salvato le suore… più con le preghiere che con le medicine – diceva.

A tutto questo si aggiunsero la guerra mondiale, che in Birmania fece tantissimi danni, e poi la guerra civile, che fece soffrire tantissimi poveri, e costrinse lui a lasciare la sede della sua missione provocandogli grande dolore e smarrimento.

Nel 1950 infatti, la sua missione venne occupata dai ribelli; due missionari, Mario Vergara e Pietro Galastri, erano già stati uccisi; Alfredo era nella lista… Molti decisero di rifugiarsi a Toungoo, e p. Alfredo andò con loro… ma fu una decisione di cui non si diede pace.

Scrive al suo Vescovo: “Lei non può davvero immaginare come sia aumentata in me l’ansia, la brama, l’agonia di ritornare presto al mio villaggio per raccogliere la mia povera gente dispersa (…). È una tale ansia che toglie tutto il gusto delle altre cose. Mi pare di sentire fisicamente il dolore della mia povera gente e il loro cruccio e mi rimprovero per averla abbandonata. Quindi mi può perdonare se magari penso di fare delle imprudenze…”

E alla zia suora: “Io sono qui, profugo senza più nulla, alla mercè della carità di tutti; e i miei (cioè coloro che erano rifugiati come lui) sono là nell’accampamento che guardano e sperano in me come al loro unico aiuto. Come faremo? Come vivremo oggi, domani e poi? Come potremo ricominciare la nostra vita? Penso ai molti della mia povera gente che sono ancora nelle mani dei ribelli. Ho bisogno di tante preghiere perché possa perseverare nella mia vocazione, perché il pensiero di dover ricominciare tutto daccapo, il pensiero di quel che mi aspetta nel prossimo avvenire, del come si troveranno i miei poveri cristiani, di come farò a far fronte a una situazione così disperata mi dà le vertigini. E se non fosse la fiducia nella provvidenza e nella bontà di Dio, si cederebbe subito alla tentazione che si fa ogni giorno più forte, di piantar qui tutto e di andare dove queste prove e preoccupazioni non ci sono più. È difficile la vita eroica… Mi affido alle tue preghiere e a quelle dei bambini. Il Signore ascolta tanto volentieri le preghiere dei bambini.”

Difficoltà, privazioni, sofferenze, eppure Alfredo è conosciuto come un uomo sorridente, sereno, di buona compagnia. Dove trovava la forza, le motivazioni per proseguire, e la serenità che lo accompagnava?

Come P. Paolo Manna, Alfredo pensa che il successo della missione sia in proporzione ai sacrifici che si fanno. Se c’è da soffrire, ci saranno risultati, e quindi dobbiamo andare avanti con fiducia, senza tirarci indietro. Gli è familiare anche il pensiero della morte, in un orizzonte di fede. Nel 1938 scrive alla zia suor Gemma: “Adesso che ho visto il viso della morte tante volte durante l’invasione giapponese e durante questi tre mesi di malattia, non ho più nessun attaccamento alla terra e sento una gran voglia di consumarmi tutto e presto, perché venga presto il Regno del S. Cuore in queste terre. (…) Quando il Signore ispira questi sentimenti, non c’è più nulla che faccia paura. Tutto è bello, anche il dolore che ci prepara una corona più bella in paradiso” (…) Il peggio che mi possa capitare è di morire, e questo non è il peggio. Se anche avessi a morire sul campo è una cosa alla quale mi preparo da un pezzo…”

La sua forza perseverante veniva senza dubbio dall’amore a Gesù, che è per lui veramente “la porta” di cui parla il Vangelo secondo Giovanni, ascoltato poco fa. Alfredo passa attraverso quella porta per raccogliere le pecore, come fa il pastore buono (e non il mercenario!) – e come il pastore buono, giunge a dare la vita per le sue pecore. Proprio così: entra con Gesù, per Gesù, attraverso Gesù; e come Gesù dà la vita per il popolo a cui è stato mandato.

Il suo rapporto con Gesù e il suo amore per la gente, intrecciandosi e crescendo insieme, sostengono e motivano la sua preghiera e il suo servizio instancabile; allo stesso tempo, pregando e servendo il suo prossimo Alfredo cresce nell’intimità con Gesù e nella sua dedizione appassionata.

Agli inizi della sua missione, parroco a Yedashè e procuratore delle missioni affidate al PIME, mentre si ambienta scrive a p. Manna: “Una cosa sola ho visto chiaramente, cioè l’impossibilità di fare qualcosa senza una pioggia straordinaria di grazie.” Si mette d’accordo con un’associazione di Torino che impegna 25 persone a pregare per lui; appena ne viene informato…si sente meglio: “Subito ne ho provato in me stesso effetti prodigiosi. Un ardore di fede, di confidenza, di amore mai provato finora, un desiderio di mortificazione nuovo, un desiderio insaziabile di trovarmi davanti a Gesù in preghiera.”

Corrisponde frequentemente con Agnese, suora di clausura, alla quale nel 1937 scrive: “Ho sempre avuto un desiderio immenso di vita solitaria e claustrale. Mi è sempre sembrato bello e sublime vivere una vita di preghiera, di meditazione, di silenzio e di ritiro (…) Mi ottenga da Gesù la grazia di una intensa vita interiore, in modo che anche in mezzo ad una vita necessariamente dissipata, io mi abitui a trovare nel mio cuore la mia cella serena e segreta dove solo Gesù è ammesso (…) È un aiuto necessario ed efficace per realizzare la mia santificazione.”

Da un certo momento, inizia a pregare anche di notte: riposa dalle 9 di sera fino a mezzanotte, poi va in chiesa a pregare per un’ora, per ritornare poi a dormire un’altra ora e mezza; e mezz’ora nel pomeriggio. Dice che non gli costa fatica, che in famiglia anche suo papà dormiva poco… ma sarà stata proprio una cosa facile e leggera?

Dunque tanta preghiera, tanta fiducia, tantissimi sacrifici, e tantissima ansia di raggiungere sempre più persone, raccogliendole nel “gregge” di Gesù.

Lessi per la prima volta la vita di p. Alfredo più di 10 anni fa. In questi giorni, mentre la rileggevo, sentivo che… stavamo diventando amici, ma allo stesso tempo si rinnovavano in me alcune perplessità: non sono forse cose belle, ma di altri tempi? Noi oggi non pensiamo alla missione in questo modo; quanto ai sacrifici, ci sembra proprio che nessuno li cerchi. Perciò ho deciso di fargli qualche domanda, per risolvere le mie perplessità che forse sono anche le vostre. Permettetemi di presentarvi questa immaginaria intervista.

P. Alfredo, tu parli sovente, anzi, tu desideri vita molto dura, prove, sofferenze e sacrifici… quasi quasi ci prendi gusto. È così? Non ti pare di esagerare al punto di sembrare masochista? Noi parliamo della fede cristiana come gioia… In questi ultimi decenni, ben due papi (Paolo VI e Francesco) hanno scritto encicliche sulla gioia!

Risposta. So che faticate ad accettare il nostro linguaggio e il nostro pensiero su queste cose. Anche oggi, quando vi viene consegnato il crocifisso per la partenza, leggete la preghiera di P. Mazzucconi in cui tra l’altro si dice: “beato il giorno in cui dovrò soffrire molto… più beato ancora quello del martirio.” Lascia che ti comunichi un mio dubbio: sì, lo dite, ma… ci credete?

Nel vangelo secondo Giovanni, Gesù ha detto che ci unisce a sé “perché la vostra gioia sia piena”: questo non lo dimentico! Dunque avete ragione voi, Gesù è venuto per salvarci dalla sofferenza, non per farci soffrire. Ma ha anche detto che il Figlio dell’uomo sarebbe stato insultato, umiliato, crocifisso e ucciso, suscitando le proteste di Pietro – e le nostre… Non solo, ma ha insegnato che per seguirlo bisogna prendere la croce e portarla, che bisogna perdere la propria vita per salvarla; e ci ha avvisato: “vi mando come pecore in mezzo a lupi…”. Vi sembra facile?

Allora, cerchiamo la gioia o i sacrifici? Non ci sono dubbi: la meta è la gioia, e la gioia piena. Sacrifici e sofferenze non sono lo scopo. Però, attenzione: non cercate le scorciatoie che non ci sono! Guardate a Gesù: è lui che dobbiamo seguire, e quanto più si ama, tanto più si è pronti al sacrificio per la persona amata. Nella fede, sappiamo che la morte non è la fine, ma l’inevitabile passaggio verso la vita piena, di felicità eterna. Questa fede ci fa accettare i sacrifici vissuti per gli altri, per amore, sicuri che questo amore ci dà gioia oggi, e ci riempirà di “gioia piena” domani. Io, pure in mezzo a tanti guai e sofferenze, ero un uomo – come dite voi – “realizzato”. Ho accettato e vissuto sacrifici molto grandi, non lo nego, a volte li ho anche desiderati, ma perché volevo raggiungere tanti, tantissimi, per presentare a queste persone, spesso cariche di sofferenze di ogni tipo, Gesù e la sua gioia, e per donare loro a Gesù che le ama!

Nei villaggi dove avevo predicato si diceva: “Eravamo sempre in guerra fra noi, i missionari ci hanno portato la pace”. Questo sì mi colmava di energie, e il fatto di aver sofferto per arrivare a questa pace, rendeva la gioia ancora più viva!!

È vero, p. Alfredo, pur facendo moltissimi sacrifici, a coloro che incontravi non davi l’impressione di essere una persona corrucciata e dura… Ma devo farti ancora una domanda.
Tu parli a volte dell’evangelizzazione come “conquista”, o scrivi che avevi “preso nella rete” quelli che accettavano l’invito ad ascoltare il vangelo. Sinceramente, queste parole ci disturbano, ci fanno venire in mente la Russia che conquista l’Ucraina, o una religione che ci prende in una rete e toglie la libertà, e tu sai che noi oggi vogliamo soprattutto la libertà. Come la mettiamo?

Risposta. Io ho accompagnato alla fede cristiana tanti, ma non facevo il “proselitismo” che Papa Francesco giustamente non vuole. Ricordi? Mons. Gobbato, ultimo vescovo del PIME a Taunggyi – che nella sua vita aveva battezzato tantissime persone – ha confidato una volta proprio a te che tutte le mattine pregava il Signore di tenerlo lontano dal proselitismo. Io non annunciavo il vangelo per sentirmi forte, per attirare ad ogni costo, per aumentare di numero le “truppe” della chiesa, per mio interesse… Io pregavo e prego perché molte persone si aprano ad accogliere il dono dell’amore di Gesù, il dono più prezioso che un essere umano possa ricevere. Avevo l’ansia di annunciare perché il vangelo è la cosa più bella che avevo, e giorno dopo giorno vedevo che – nonostante la debolezza umana – il Vangelo migliora molto la vita delle persone, dei villaggi, dei popoli. Quanto ad “essere presi nella rete”, è un paragone che usa Gesù, per spiegare che il Regno dei Cieli è come una rete piena di pesci, buoni e cattivi, e non bisogna scandalizzarsi, perché non ci sono realtà soltanto buone o soltanto cattive. D’altra parte, la libertà che ha come obiettivo soltanto se stessa (= fare quello che si vuole e piace, senza altre considerazioni) porta a forme di prigionia vere, ben peggio di una rete per pesci. È meglio entrare consapevolmente nella “rete” della fede in Gesù che ci ama, oppure entrare senza accorgercene nelle reti del consumismo, dell’idolatria, delle mode, dei nazionalismi e delle ideologie, della droga, o semplicemente dell’egoismo, e del vuoto?

Vorrei concludere raccomandandovi: lasciatevi amare da Gesù, cercate di voler bene, fate bene, imparate a sacrificarvi per ciò che è bello e buono, e non abbiate paura: sarà il Signore a darvi la gioia.

Crema, 7 febbraio 2023 – Settantesimo anniversario della morte di P. Alfredo Cremonesi

p. Franco Cagnasso

Disabilità 2 – Madri, figli, padri

Rina dava l’impressione di non sorridere mai. Suo marito – un uomo istruito e serio – sapeva che avrebbe avuto diritto ad un sussidio governativo, ma si rifiutava ostinatamente di farne richiesta, perché ciò avrebbe significato dichiarare la disabilità di sua figlia Myriam, e lui non riusciva ad ammetterla. Tutte le spese relative a questa situazione ricadevano sulla famiglia, ma lui non voleva saperne di contribuire. La moglie aveva avuto in precedenza ben sette aborti spontanei e quando diede alla luce la figlia disabile, lui era caduto in depressione grave, e cercava disperatamente di cancellare questa realtà.

Rina per un certo tempo portò regolarmente Myriam ai programmi di Joyjoy, avvisando quando non poteva; poi, qualche mese fa, improvvisamente smise di accompagnarla, e non rispose alle nostre chiamate telefoniche; a volte rispondeva il marito, con modi bruschi e ostili, finché un giorno tagliò corto dicendo che Myriam non sarebbe mai più andata. Intuivamo come potesse essere l’atmosfera di famiglia, e decidemmo di non andare a trovarli.

Dopo parecchio tempo, finalmente fu Rina a farsi viva di nuovo. Telefonava, ansiosa e timorosa, dalla casa di una vicina: il marito le aveva sottratto il cellulare, la controllava e sospettava di lei qualunque cosa facesse. “Per favore – ci chiese – venite voi a parlargli”.

Lo trovammo in pessime condizioni, evidentemente avrebbe avuto bisogno di cure e sostegno, e la situazione ora stava diventando insopportabile anche per la moglie.

Ma ora Rina lavora con noi come aiutante, ed è proprio il marito che ogni mattina, puntualmente, con la sua motocicletta porta lei e la figlia al nostro Centro. Raramente dice una parola, una sola, ma per noi questo è un grande miglioramento, e anche Rina si sta rivelando una donna con buone risorse, e degna di fiducia: ci aiuta molto bene, parla, sorride…

Rehana fu la prima aiutante assunta da Joyjoy; fino ad allora, lavorando come domestica con uno stipendio miserabile, era sopravvissuta solo grazie all’aiuto di sua madre. Con noi lavorava sodo; inoltre si fece notare come la più fedele nel far praticare alla figlia Moni, sia a casa sia a Joyjoy, gli esercizi di cui aveva bisogno. E poiché Moni ha una paralisi cerebrale, questo produsse notevoli miglioramenti, e fu di incoraggiamento anche alle altre mamme. Solo parecchio più tardi venimmo a sapere che suo marito si drogava pesantemente e spesso la violentava. Gli proibimmo di venire alla nostra sede, ma disturbava con chiamate telefoniche o con irruzioni chiassose. Ne parlammo con lei e sua madre, poi tutte insieme. Le altre mamme dissero di non capire perché Rehana non si separasse da quell’uomo, visto che erano lei e la mamma a mandare avanti economicamente la famiglia. La ragione venne ad un certo punto espressa: Rehana e mamma avevano paura di essere giudicate come donne poco serie… Sarebbe facile liberarsi del disturbo dicendo a Rehana di non venire più, ma in questo modo i problemi per lei certo non si risolverebbero. Stiamo cercando qualche organizzazione che possa intervenire sul marito e aiutare lui a cambiare; speriamo di trovarlo…

Futuro. Nello scorso mese di agosto abbiamo avuto il primo incontro con le mamme, e qualche nonna, e da allora ci si vede regolarmente tutti i mesi, con la partecipazione media di venti persone. Si prende il tè insieme, si condivide, ci si diverte. Alle mamme piace giocare a bocce (gioco sconosciuto in Bangladesh). Il campo è stato preparato da alcuni volontari italiani venuti in visita qualche mese fa, mentre dal Giappone sono arrivate bocce soffici e di misura piccola, che vanno proprio bene per loro. Si appassionano al gioco fino a dimenticarsi dell’agenda dell’incontro…

Tre mamme sono state scelte per incontri di collaborazione con gli operatori di Joyjoy, subito prima di ogni incontro mensile. Noi speriamo che questo stia mettendo le basi per una futura autogestione dell’iniziativa, aumentando le loro responsabilità e facendoci noi gradualmente da parte. Le mamme si interrogano spesso del futuro dei loro figli, sono consapevoli della fragilità del progetto Joyjoy, e ne parlano. Speriamo che si sviluppino fra tutte senso di appartenenza e di solidarietà, per riuscire a superare le differenze che esistono fra noi.

P. Franco Cagnasso 1.1.23

Disabilità 1

Joyjoy ha già avuto l’onore di entrare in più di una scheggia. È un piccolo progetto che, a Dinajpur, si occupa di bambini con disabilità mentali di vario genere, e delle loro famiglie, a partire dalle mamme. Più volte ho accennato al fatto che, spesso, la presenza in famiglia di una persona con disabilità è motivo di emarginazione, pregiudizi negativi, vergogna, tentativi di nascondere questa realtà agli occhi degli estranei. Le eccezioni ci sono, e ho scritto anche di quelle, raccontando qualcosa della famiglia di Mim, e dell’affetto di cui questa bimba è circondata da parte di genitori e fratelli.

Ora prendo qualche spunto dal rapporto semestrale di Joyjoy, che Naomi, missionaria laica giapponese e perno di questo progetto, ha mandato in copia anche a me. Presento qualche breve profilo di bambini, e di mamme; i nomi sono di fantasia, persone ed eventi sono reali.

Figli, madri, nonne. La prima volta che andammo a trovare Rakhib, lo trovammo legato per una gamba ad un palo di sostegno della casa. I vicini lo chiamavano “pagol” – “pazzo”. Quando gli si metteva davanti il piatto, non prendeva il cibo con la mano, ma si tuffava con la bocca sul mucchio di riso; non sapeva usare il bagno, si sporcava continuando a camminare…

La mamma, non sopportando le violenze del marito drogato, si era rifugiata, con lui e un’altra figlia più piccola, presso un fratello maggiore, e guadagnava qualcosa facendo la domestica. Dava l’impressione di essere come indurita dalle difficoltà della vita, indifferente ai figli; quando le proponemmo di occuparci un poco di Rakhib ci disse: “Fate quello che volete, e come volete: io non posso fare altro che tenerlo legato.”

I primi tempi non furono facili per chi se ne occupava, ma pian piano gli insegnammo a portare il cibo alla bocca. È con noi da oltre cinque mesi e ha imparato a chiamarci con una singola parola, “ushai”, quando ha bisogno di andare in bagno.

La mamma non dice molto. Spesso lo lega al palo quando lo accompagniamo a casa. Ma recentemente ha comprato per lui camicie e calzoni nuovi, e ci ha fatto felici.

Bonna è stata accolta come una “eccezione” perché Joyjoy è per i bambini, ma Bonna è una giovane di 22 anni. Sette o otto anni fa, dopo uno stupro subito da un vicino, entrò in depressione; non parla e non sorride mai. Di famiglia indù povera, i suoi riuscirono a far condannare il suo aggressore, che è in prigione, e tornerà libero fra qualche anno.

L’abbiamo invitata a venire a Joyjoy per giocare con i bambini. Suo padre, molto anziano, le vuole bene, e nonostante abbia difficoltà a camminare, l’ha accompagnata personalmente. Con i bambini, Bonna riuscì a sorridere, e la invitammo a venire una volta la settimana a mangiare con noi. Ma non si fermava a lungo, e anche questo piccolo diversivo non basta certo a farla migliorare. Avrebbe bisogno di cure, anche mediche, appropriate. Rifiuta ogni medicina, ma mostra di accogliere volentieri le nostre visite, e noi continuiamo ad andarla a trovare regolarmente…

Ridoy è un ragazzo di 14 anni, affetto da paralisi cerebrale. Aveva 5 o 6 anni di età quando la mamma lo abbandonò e se ne andò di casa. Dopo due anni il padre si risposò, ma dopo un mese anche lui se ne andò, con la seconda moglie, facendo perdere le tracce. La nonna si prese cura di Ridoy, ma non poteva prestargli molta attenzione perché doveva lavorare presso due famiglie da mattino a sera. Ridoy rimaneva solo tutto il giorno; si distraeva sbirciando attraverso una fessura nel cancello di ferro…

La madre non si rifece viva, ma con qualche trucco riuscì a fare assegnare a sé il sussidio governativo dovuto a Ridoy per la disabilità, andando avanti a riscuoterlo e tenerlo per sé, per otto anni. Solo recentemente la nonna è riuscita ad ottenere che il sussidio venga mandato a lei. La nonna si era anche interessata di una vecchia sedia a rotelle che apparteneva a un bambino disabile morto qualche tempo prima, ed era riuscita a farsela dare. La sedia è l’unico attrezzo che in qualche modo risponde alle necessità di Ridoy.

Bisogna dire che è stata la mamma ad avvisarci della situazione di Ridoy, mentre la nonna ha accolto volentieri la nostra proposta di assistenza. Continua a prendersene cura, e speriamo che il nostro aiuto possa migliorare la situazione del ragazzo, e anche la sua.

Franco Cagnasso 31.12.22

Frastornato

Questa volta la “scheggia” che vi mando è la consueta lettera natalizia agli amici. Gli anni scorsi avevo preferito spedire personalmente a tutti queste lettere, e solo in seguito metterle “in pasto” ai lettori di internet… ma quest’anno penso proprio di non farcela a spedire una lettera per ciascuno a tutti o quasi, e quindi… mi arrendo e ricorro alla diffusione collettiva, confidando nella comprensione dei lettori.

Il titolo della scheggia esprime al meglio un aspetto della mia personale situazione in questo momento: “frastornato”.

Ma “Un aspetto” non significa “tutto”: se avete voglia, leggete, e fatevi un’opinione personale. Ho un grande “magone” per la lontananza di tanti che sono diventati lontani perché si trovano in Bangladesh, e allo stesso tempo mi sento gioiosamente sorpreso di trovarmi in questo mondo di giovani che mi entusiasmano, mi incuriosiscono, mi stimolano, mi commuovono… non solo, ma mi sopportano e mi preparano anche la minestra in brodo alla sera, perché sanno che per me è meglio…

Un capitolo inatteso, entusiasmante, eppure pieno di nostalgia. E il bello è che ringrazio Dio di questa sovrabbondanza di interessi, sentimenti, desideri, timori, facce e storie lontane cui penso spesso, e facce nuove che imparo ad amare. Curioso, vero?
Ed ecco la lettera.

Natale 2022

Carissimi Amici,
a tutti un cordiale saluto dal Seminario Teologico Internazionale del PIME, a Monza!

Qualche sera fa abbiamo concluso la giornata con un’ora di adorazione, che includeva un canto in italiano, uno in latino, uno in telegu (lingua dell’Andhra Pradesh, in India) e un altro in un idioma che non avevo mai sentito… la varietà parla da sé a proposito della comunità in cui ora risiedo, che conta 61 seminaristi africani, latino americani, asiatici; fra questi ultimi, dieci provenienti dal Bangladesh.

Anche il gruppo “direttivo” è nutrito e vario; siamo sei Padri e un Fratello: camerunesi, indiani, italiani, con esperienze di servizio missionario in Hong Kong, Bangladesh, Brasile, Cambogia.

Una Babele? No, piuttosto un ambiente decisamente stimolante per me, invitato qui per sostituire uno dei due missionari incaricati dell’accompagnamento spirituale, che si era ammalato. Sono approdato in un mondo pieno di vita, progetti, speranze, che – dopo il faticoso periodo di reclusione a causa del Covid – ha ripreso a pieno ritmo: studio, preghiera, vita comune e tante esperienze impegnative. Tutti, ogni settimana, escono per servizi di appoggio in parrocchie, oratori, centri di assistenza caritativa; frequentano le carceri, giovani con disabilità, anziani, e nel prossimo futuro – forse – un “Hospice”.

I nostri seminaristi si sono inseriti bene sul territorio di Monza e Milano, si fanno conoscere e stimare. Recentemente abbiamo invitato per una giornata fra noi i preti con i quali sono coinvolti. Erano una cinquantina, contenti di aiutare nella formazione, e grati per l’aiuto efficace che ricevono.

Certamente per me non tutto è facile, a partire dal problema di ricordare i nomi; mi incoraggiano la simpatia e la pazienza di chi mi sta attorno, e la soddisfazione di vedere che il fascino del Vangelo e l’appello ad annunciarlo – con precedenza ai poveri e ai sofferenti – rendono questi giovani i protagonisti della missione, mentre fino a pochi anni fa sembravano esserne soltanto “obiettivo”.

Dunque, il Bangladesh è ormai alle spalle? No: spero di ritornarvi, allo scadere del biennio di servizio che mi è stato chiesto; né io, né le persone che conosco in Bangladesh intendiamo “tagliare i ponti”.

I contatti sono tantissimi (troppi?) e le attività a cui mi dedicavo continuano bene, grazie a chi ha cordialmente accettato di sostituirmi: p. Francesco Rapacioli, per l’Ostello dei Marma a Bandarban e per il Centro Assistenza Ammalati di Rajshahi; p. Gian Paolo Gualzetti a Snehonir, nella “Casa della tenerezza” di Rajshahi; p. Brice Tambo per le borse di studio assegnate ad alcuni studenti, e nei rapporti diretti con persone che vivono in difficoltà a causa di malattie, vedovanza, disoccupazione… Ho promesso di appoggiarli in tutti i modi possibili, a partire dalla preghiera, e di mantenere i contatti con chi aiuta dall’Italia.

Penso vi faccia piacere ricevere anche qualche notizia sulle singole attività che conoscete. A Bandarban, MongYeo e il suo Consiglio hanno prolungato dalla classe ottava fino alla decima gli anni d’insegnamento nella scuola, così gli alunni possono rimanere alla “Hill Child Home” fino al livello del College senza dover andare in città, dove è difficile per le ragazze trovare un posto adeguato. E la piantagione di gomma? Oltre metà ha iniziato a produrre, e presto il raccolto aumenterà ancora.

A Snehonir sono entrati parecchi bambini e bambine nuovi, in parte conosciuti grazie al progetto realizzato con la Caritas e ora concluso. Sono per lo più non udenti, o non vedenti; con loro, l’età media degli oltre 40 membri della comunità si è abbassata, mentre la vivacità è aumentata! Amily, una delle ragazze grandi, ha iniziato un corso speciale per divenire insegnante alle scuole per infermiere, mentre Robi ha avviato una piccola attività commerciale per mantenersi.

Il Centro Assistenza Ammalati, con la sezione generale e quella per i pazienti di tubercolosi, da gennaio a giugno ha aiutato 782 ammalati – meno di alcuni anni fa, ma in crescita rispetto al periodo del Covid. È affiancato, a distanza, dal Centro Assistenza Ammalati collocato nella casa del PIME a Dhaka: piccolo, ma prezioso specialmente per i pazienti in situazioni più complesse.

E JoyJoy, l’iniziativa più recente? Ha preso il via a Dinajpur mentre stavo per trasferirmi in Italia, e procede molto bene. Segue oltre 30 bambini e bambine fra i cinque e gli undici anni con grave disabilità mentale, portando serenità e sollievo anche alle loro mamme, attivamente coinvolte. Perno di tutto è la missionaria laica giapponese Naomi Iwamoto, competente, entusiasta, instancabile, affiancata dal missionario laico dell’ALP Alberto Malinverno e da alcuni missionari del PIME.

Non nego che ho vissuto con fatica l’imprevisto “salto” dal Bangladesh all’Italia, e che mi sento ancora frastornato. Ma sono convinto di aver fatto la scelta che dovevo fare. La missione non ci appartiene, e il Maestro, che ci ha chiamati a collaborare con Lui, ha percorso prima di noi la strada del dono di sé senza troppi calcoli.

Lo ricordiamo specialmente nella festa del Natale che si avvicina e ci annuncia che la potenza di Dio si esprime e si manifesta nell’amore che fa spazio agli altri, con gioia e fiducia.

A tutti i miei auguri più sinceri

P. Franco Cagnasso

Paolo

P. Paolo Ciceri era nato in Brianza, e avrebbe compiuto 80 anni il 25 di questo mese di novembre 2022. Ordinato presbitero a Milano nel 1967, dopo 4 anni di servizio nell’arcidiocesi ( a cui rimase sempre vicino per amicizie e per il suo “stile ambrosiano” nella pastorale), era entrato nel PIME, che lo assegnò al Bangladesh. Vi rimase 46 anni, operando in diverse parrocchie che contribuì a fondare. Rientrato in Italia per motivi di salute, nel 2019 fu accolto a Lecco nella casa per missionari del PIME ammalati e anziani. È morto quasi improvvisamente il 9 novembre 2022 per emorragia epatica.

1978: ero ai miei primi passi in Bangladesh, alle prese con lo studio della lingua bengalese in una scuola a Barisal, nel sud, quando P. Giulio Schiavi mi invitò a trascorrere il periodo natalizio alla missione di cui era parroco, Beneedwar. La parrocchia copriva un’area molto estesa, con tanti villaggi; ad aiutarlo, c’erano p. Emanuele Meli, che conoscevo bene, e p. Paolo Ciceri, che incontrai per la prima volta. Fu un Natale ricco di cose nuove per me, cose che vidi con i miei occhi, che ascoltai da loro, che la gente tentò di dirmi – anche se capivo ancora poco.

Appena ho ricevuto la notizia della morte di P. Paolo mi è venuto alla mente un fatterello accaduto allora, che in seguito sentii raccontare più volte fra noi del PIME, spesso arricchito di particolari più o meno “storici”, sempre scherzosi. Eccolo: P. Paolo aveva un appuntamento in un villaggio piuttosto lontano e al di là del fiume, per amministrare alcuni battesimi. Ma nel giorno fissato una pioggia fittissima rese impraticabili le strade e gonfiò il fiume. “Paolo, non andare! – gli disse p. Giulio – con questa pioggia non si farà nulla”. Ma Paolo non poteva pensare di deludere quelli che lo aspettavano, e andò. Il fiume era davvero ingrossato, ma in qualche modo riuscì ad attraversarlo e a raggiungere il luogo dell’appuntamento, dove non trovò nessuno… Sicuri che con un tempo del genere il Padre non sarebbe venuto, tutti erano rimasti a casa loro. Al ritorno, inzuppato e stanco, Paolo vide p. Giulio che lo aspettava sulla soglia di casa; gli passò accanto per arrivare alla sua stanza, mormorando soltanto: “Niente commenti, per favore!”.

La storiella nella sua semplicità comunica una caratteristica nota a tutti quelli che conoscono P. Paolo: davanti a un suo compito, a un impegno preso, a qualcuno che aveva bisogno di lui, non era tipo da pensarci due volte, tanto meno da tirarsi indietro per evitare di bagnarsi, infangarsi, stancarsi.

Per preparare l’omelia durante la Messa celebrata per lui il giorno dopo la sua morte mi sono chiesto: c’è una parola che possa esprimere bene la sua personalità? Credo di averla trovata: era un uomo, “appassionato”. Poi ho pensato: verrà proclamato il vangelo delle Beatitudini; quale di esse lo descrive meglio? Ne ho scelte due: “Beati i misericordiosi” e “Beati i puri di cuore” (Mt 5, 7-8).

Era impulsivo, non per sventatezza, ma perché lasciava parlare il cuore, e metteva tutto sé stesso in ciò che decideva di fare, ritenendolo giusto e buono.

“Appassionato” certo, ma… di che cosa?

Della missione, che per lui aveva due punti fondamentali.

Il primo era la “compassione” (Beati i misericordiosi). Le persone che soffrono per povertà, malattia, ingiustizie, disagi lo attiravano come una calamita, e lui sentiva che comunque doveva fare qualcosa al più presto. Non aveva strategie complesse, non era un calcolatore, uno che prendesse tempo per vagliare con calma i pro e i contro e non sbagliare, o per risparmiarsi, o che si inoltrasse in discussioni teoriche.

L’altra grande passione, a cui dedicava anima e corpo, era la formazione, perché il Vangelo entrasse nella vita delle persone che gli erano affidate, per vivere con loro la preghiera e la comunione. Scherzando diceva: “Qualcuno pensa che io faccio missione con i soldi, ma non sa che io faccio… tonnellate di catechesi!”. Un giovane prete che lo sostituì quando Paolo, trasferito, lasciò la parrocchia di Rajshahi, mi confidò: “Sentivo dire che p. Paolo era popolare perché usava molti soldi; ma ora che sono al suo posto ho capito quanto lavoro pastorale facesse, quante corse per celebrare in diversi villaggi ogni domenica, per farsi presente negli ostelli, per visitare gli ammalati, per organizzare e partecipare a momenti formativi, di ritiro, di preghiera… Io non riesco proprio a fare altrettanto…” Spesso i preti nelle parrocchie affidano alle suore e ai catechisti l’insegnamento religioso, la guida delle preghiere quotidiane; P. Paolo agiva in prima persona, appena gli era possibile.

Non gli mancarono delusioni, fallimenti, e anche imbrogli, tradimenti di chi approfittava di lui e della sua generosità troppo fiduciosa. Non l’ho mai sentito scoraggiato per questo, o amaro e aggressivo contro chi si era comportato male. Dava quasi l’impressione di ignorare o dimenticare questi incidenti di percorso. In un certo senso era proprio così; anche nei momenti difficili sapeva subito guardare a ciò che andava bene, che dava qualche risultato anche piccolo. Era il suo modo di praticare ciò che Paolo di Tarso, il suo patrono, raccomanda ai Galati: “Non stanchiamoci di fare il bene” (6,9), o ai Tessalonicesi: “non lasciatevi scoraggiare nel fare il bene” (2 Ts 3,13).

Paolo non si stancava del bene e non si scoraggiava del male; aveva il pregio di saper gustare i buoni risultati e questo gli dava coraggio e forza per non arrendersi. Non parlava molto di ciò che faceva, ma parlava moltissimo delle persone che mettevano a buon frutto il suo servizio: un ragazzo o una ragazza che mai avrebbero potuto studiare, e che con il suo aiuto terminavano le superiori, diventavano infermiere, medici, insegnanti, formavano famiglie, si consacravano come suore, o preti, si impegnavano nella comunità cristiana, aiutavano altri negli studi… Mia sorella Anna e mio cognato Aldo nel 2003 visitarono il Bangladesh e trascorsero qualche ora con lui. Anni dopo non ne ricordavano il nome, ma lo identificavano come “quel missionario che parlava con tanto entusiasmo della sua gente…”. Un seminarista bengalese che studia al seminario del PIME a Monza mi ha confidato: ho visitato tante volte p. Paolo nella casa di riposo, sempre mi parlava del Bangladesh, e mi mostrava fotografie: non di edifici costruiti, di riunioni organizzate, ma di persone che erano fiorite grazie al suo aiuto. Parlava di ciascuno di loro, raccontava, e raccontando piangeva… di nostalgia, penso, ma anche di commozione e gioia.

Si può dire senza paura di esagerare che Paolo ha fondato la Chiesa a Rajshahi, una grande città sulla riva del Gange. Dopo lunga esperienza in zone rurali e tribali, era approdato là su richiesta del Vescovo, con fatica. Negli anni ’70 la presenza visibile della chiesa cattolica in quella città si limitava ad un modesto ufficio della Caritas, frutto dell’iniziativa di p. Faustino Cescato, anche lui del PIME. Ma i cristiani presenti avrebbero dovuto far capo alla parrocchia rurale di Andarkhota, a 14 chilometri di distanza, cosa praticamente impossibile. Ad Andarkhota viveva e operava un’altra persona “appassionata”, suor Silvia Gallina – delle Suore di Carità di Maria Bambina, responsabile del dispensario medico della missione. Fu la sua “complice” in tante iniziative, a cominciare dagli ammalati, per allargarsi poi a bambini e giovani che non avevano possibilità di studiare, a famiglie che vivevano in ambienti malsani, e per sviluppare una serie di iniziative che in pochi anni diedero un’identità, un volto alla chiesa cattolica nella città.

Stava infatti crescendo il processo di urbanizzazione, che coinvolgeva numerosi tribali, tra cui molti cristiani, i quali erano vittime, nei loro villaggi, di soprusi e imbrogli per sottrarre loro le terre. Per questo, o semplicemente con la speranza di migliorare la loro vita, migravano a Rajshahi, dove erano costretti a vivere senza i riferimenti sociali e religiosi, e le tradizioni a cui erano abituati; perdevano perciò l’aiuto, il controllo, l’identità di cui potevano godere nei villaggi di origine. Molti dormivano in verande o sgabuzzini, sottopagati e sfruttati, alcuni si rovinavano con l’alcool… P. Paolo mi spiegò che il suo intento era di raccoglierli e formare comunità dove potessero ritrovare la loro dignità e identità, e anche accettare le novità e i vantaggi che la vita cittadina comporta. Per questo – mi disse – si ispirava a Mosè il quale, per dare consistenza al Popolo di Dio, lo aveva guidato attraverso il deserto, fra mille difficoltà e paure, fino a che ebbero una terra dove ebbero la possibilità di essere se stessi. Con questo sogno sullo sfondo, P. Paolo comprava terreni in varie zone ancora libere del territorio urbano di Rajshahi, e vi stabiliva gruppi di immigrati tribali: assegnava ad ogni famiglia una casetta molto semplice, con un palmo di terra per allevare galline e capre, con il compito di prenderne cura, e in ognuno di questi piccoli nuovi “quartieri” o – se si vuole – villaggi urbani, apriva una scuola elementare, una sede per le riunioni di comunità, una cappella. Nacquero – se non sbaglio – nove di queste piccole “terre promesse”, che diedero a p. Paolo tantissimo lavoro, tanti grattacapi e delusioni, ma anche tante soddisfazioni. Ora Rajshahi è sede di una diocesi; è dotata di una grande cattedrale, di un’ampia sede episcopale e un centro di pastorale e di comunicazioni sociali, tre parrocchie, diverse comunità religiose femminili, scuole, ostelli, un seminario a livello di college, un centro di assistenza malati… No, non ha fatto tutto p. Paolo! Ma è lui che ha dato il via ed è stato il motore che ha animato e sostenuto questa rapida crescita per tanti anni.

Arrivò poi il momento di staccarsi anche da questa sua creatura, dalla parrocchia di Rajshahi. Ci furono proteste e anche turbolenze da parte di molti parrocchiani, che volevano tenerlo per sé; p. Paolo ci soffriva, ma in occasione di una mia visita come superiore regionale fu lui a spiegare in assemblea che doveva andare, era bene, e voleva farlo. Partì alla chetichella, senza cerimonie, per evitare problemi!

Nella sua nuova destinazione, a Moeshpur, fu assistente del parroco p. Pier Francesco Corti, che aveva trascorso a Rajshahi i primi cinque anni del suo impegno missionario proprio con lui, come suo assistente. L’amicizia e la stima che avevano l’uno per l’altro resero possibile questo scambio di ruoli, di solito molto difficile. Anche là, però, Paolo non si risparmiava e non riusciva a riguardarsi come avrebbe dovuto; la salute continuò a deteriorarsi, finché fu coinvolto in un incidente automobilistico che provocò ad una gamba gravi fratture, mal ricomposte con un’operazione. Sperando di migliorare per poi ritornare, accettò di venire a Lecco, nella comunità PIME per missionari anziani e ammalati. Chi lo conosceva pensava con pena che non si sarebbe adattato alla vita comune, e a un ritmo opposto a quello iperattivo cui era abituato. Ci stupì tutti, accettando la nuova condizione non solo con pazienza, ma senza perdere entusiasmo e buon umore, e sottolineando gli aspetti positivi della nuova situazione.

Tanti, ma proprio tanti lo piangono in Bangladesh, riconoscendo che ha cambiato la loro vita perché ha aperto per loro e con loro, strade che mai avrebbero potuto percorrere senza di lui. Anche a chi è stato opportunista e ha approfittato della sua generosità, il suo “cuore puro” ha dato testimonianza di un amore appassionato, e della misericordia che il suo Maestro, Gesù, ha raccomandato ai suoi discepoli.

Franco Cagnasso

Monza, 13 novembre 2022

Congedo

Rieccomi a Monza, da dove ero partito il 19 settembre per il Bangladesh, con l’obiettivo di rinnovare il famoso “visa M” (cioè missionario) di cui ho parlato in una “scheggia” circa un mese fa. La data di scadenza del mio “visa” era il 12 ottobre. Ho consegnato la domanda di rinnovo pressappoco 15 giorni prima – come da regolamento – poi non ho saputo più nulla di certo. Partendo dall’Italia, avevo promesso di non assentarmi per più di un mese dal mio nuovo servizio, cioè l’accompagnamento spirituale dei seminaristi a Monza. Quindi il 19 ottobre alle 3.15 di notte (ora del Bangladesh), ho preso il volo di ritorno, arrivando nella stessa data alle 14 in punto (ora dell’Italia). Senza “visa”.

Se e quando sarò libero di ritornare in Bangladesh, dovrò ricominciare daccapo tutta la trafila per un nuovo “visa”, che nel 1977-78 ottenni in 9 mesi, e nel 2001-02 in altri 9 mesi.

La vigilia della mia partenza da Dhaka, sono andato ad un piccolo negozio di artigianato locale per comprare biglietti augurali e angioletti di canapa. Una passeggiata di poco più di mezz’ora, per masticare in santa pace la sofferenza di lasciare, la nostalgia, passando davanti al grande palazzo del parlamento, con ampi spazi e prati ben tenuti, e poi immergermi nell’ininterrotto caos di mezzi, pedoni, chiasso, sporcizia, odori, piccolo commercio di ogni tipo che brulica nel quartiere di Tejgaon. Anche là è in corso la costruzione della metropolitana sopraelevata. Un altissimo ponte che percorre tutta la città da nord a sud, pilastri e muraglioni giganteschi, macchinari modernissimi, operai al lavoro giorno e notte per completare un lavoro che – si spera – renderà il traffico meno faticoso, e la città più moderna.

Arrivando ad un punto di svolta di questo gigante in costruzione, ho percorso un pezzo di “scorciatoia”, un sentiero fangoso che serpeggia sotto alcuni di questi pilastri, fra materiale edilizio, camion, tecnici, rifiuti, giovani storditi dalla droga, mendicanti parcheggiati a mostrare deformazioni fisiche varie… Seminascosta dietro un angolo di uno di questi pilastri, ho intravvisto un’improbabile macchina per cucire a pedali, scrostata e arrugginita, speranza di vita di un anziano, che aspetta il passaggio di qualcuno che voglia far rammendare uno strappo, attaccare un bottone, rifare un orlo… Gli sono passato accanto, e ho sentito che questo poteva essere un ricordo, come un’immagine simbolica della mia missione in Bangladesh con le sue grandezze e le sue meschinità. Mi è sembrato di vedere proprio lì uno dei tanti “confini del mondo” a cui Gesù ha mandato i suoi discepoli e apostoli: non sono i confini geografici che, essendo il mondo rotondo, non si raggiungeranno mai; sono piuttosto i confini dell’umanità, e si trovano dovunque ci sia qualcuno che c’è – ma è come se non ci fosse. Confini che tutti, e ovunque, possiamo trovare guardandoci intorno.

La passeggiata si è conclusa con una preghiera perché il Padre mandi qualcuno anche a quell’improbabile sarto, pure lui “messe per il Regno di Dio”.

Franco Cagnasso
Monza, 28 ottobre 2022

Ritorno

Dopo cinque mesi in Italia, mi trovo di nuovo in Bangladesh. Devo rinnovare il “visa” che scade il 12 ottobre – così che, terminato il mio incarico biennale al seminario teologico del PIME a Monza – io possa ritornare senza problemi. Quanto tempo occorrerà per sistemare la faccenda?
  
“Visa”, è una parola inglese che significa “visto”, ma anche – fra i missionari in Bangladesh – grattacapi e incertezze. Si tratta, per la precisione, di “visa M”, cioè del permesso che il governo del Bangladesh concede a cittadini stranieri che vogliono stare in questo paese come M, cioè missionari. La motivazione è: a servizio dell’Arcivescovo di Dhaka, che assegna ufficialmente compiti e luoghi di residenza. Quanto dura? È la domanda che ci accompagna ogni volta che il visa scade, e va rinnovato, e rimane senza risposta. In quanto tempo lo danno? Altra incognita… Perché a volte si aspetta a molto a lungo? Per favore, basta con le domande cui non sappiamo rispondere…    

Mi rendo conto che l’introduzione a questa scheggia è squallida, ma questo mio ritorno temporaneo richiede una spiegazione.     

Dunque mi trovo a Dhaka, pronto ad aspettare fino al 20 ottobre – al massimo. Nel frattempo, cercherò di andare a Dinajpur per vedere il progetto Joyjoy che sembra andare bene, salutare le suore del Monastero delle Clarisse adoratrici, e tanti altri; poi verrà il turno di Rajshahi, per trascorrere qualche giorno con gli amici della comunità Snehonir, disabili e normodotati…  pregusto canti, danze e sorrisi. Di là, il Centro Assistenza Ammalati è a due passi, e una visita non potrà mancare. Sono lontano da oltre 5 mesi, e tutto va avanti bene; vederlo con i miei occhi è un piacere. Niente visita ai Marma di Bandarban, in zona vietata agli stranieri: occorrerebbe troppo tempo per aver il permesso e c’è pure il rischio di non riceverlo. MongYeo con qualche ragazzo verrà a Dhaka e ci vedremo qui…     

Arrivando dall’Italia assetata per mesi e ora preoccupata per le “bombe d’acqua”, trovo un Bangladesh che è stato afflitto dalle troppe piogge, comprese alluvioni prolungate nel nord-est (Sylhet) che, dopo quelli dovuti al Covid, hanno costretto ad altri rinvii degli esami di maturità.      
Il caos del traffico di Dhaka sembra peggiorato, ma forse si tratta solo di una mia impressione dovuta alla lunga assenza; in compenso, aumenta la speranza che i giganteschi lavori in corso per la metropolitana sopraelevata arrivino presto al termine: a colpo d’occhio direi che si sono fatti progressi rilevanti, e si può sperare di vedere presto un miglioramento nella circolazione!!!      

Segnalo comunque un ingorgo stradale insolito. Come avevo “profetizzato” (?!) in una scheggia tempo fa, il calcio femminile ha fatto centro. Le ragazze “under 18” (ufficialmente sotto i 18 anni di età) hanno battuto il Nepal nella finale del torneo del Sud Asia giocata a Katmandu, e sono state accolte da una gran folla all’aeroporto, da dove, sistemate su un pullman a due piani scoperto, hanno trionfalmente percorso in lungo e in largo la città applaudite da tantissimi come “eroine”. Momenti di gioia e fierezza… con un’ombra. Mentre sopra facevano festa, sotto qualcuno rovistava nei loro bagagli rubando in tutto oltre mille dollari alla bravissima portiera. Ma a consolarla è arrivata la notizia che la prima ministra Sheikh Hasina – viste le fotografie della baracca dove vive la sua famiglia – ha deciso di far costruire una casetta per loro.     

Nella grande area che fa parte della parrocchia di Khewachala, avviata dal PIME nella diocesi di Dhaka, un gruppetto di famiglie che ho conosciuto anni fa hanno chiesto e ricevuto il battesimo. Erano povere, senza prospettive, e avevo anche tentato di  aiutarle, con scarso successo. Ma recentemente il nuovo assistente della parrocchia (ora affidata alla diocesi), le ha ritenute pronte e ha soddisfatto la loro insistenza. Alcune famiglie sono state battezzate a Pasqua, altre sono in preparazione per il prossimo Natale. Benvenuti e benvenute: e poiché i piccoli nel Vangelo sono i primi, voi siete… in pole position!

Un po’ di politica: nel contesto dell’Assemblea Generale ONU, la delegazione del Bangladesh ha spiegato che le “così dette” sparizioni forzate di personaggi in qualche modo ostili al governo, non sono mai avvenute, che il governo continuerà come sempre con tolleranza zero nei riguardi di questi episodi, aggiungendo che gli Stati Uniti non hanno saputo motivare le sanzioni personali che mesi fa hanno imposto su alcuni alti ufficiali del “Battaglione di Pronto Intervento” spesso accusato di tali sparizioni.     

Il 19 settembre, in uno scontro fra membri dell’opposizione e la polizia, ci sono stati oltre 50 feriti. Alcuni giorni prima, i feriti erano stati un po’ di più, con l’aggiunta di qualche morto, uno dei quali era comunque nella lista di accusati presentata ai tribunali.      

Della guerra in Ucraina si parla poco, quasi nulla. Proprio come in Italia si parla poco delle numerose altre guerre che affliggono il mondo. Per tutti, i guai vicini a casa sono più rilevanti di quelli lontani… Una traccia però c’è: zona per zona, per due ore al giorno l’erogazione della corrente elettrica viene interrotta, per risparmiare sul consumo del gas, con relativi aumenti dei prezzi.      

Notizie frammentarie informano che in Myanmar l’esercito sta cercando di stroncare i gruppi armati Rohingya, e lo fa con mano pesante. Qualche cannonata è arrivata anche sulla “terra di nessuno” fra lo stato Arakan, parte del Myanmar, e il sud del Bangladesh, dove gruppi di Rohingya si rifugiano. Se poi qualcuna ha oltrepassato anche il confine, per ora non viene detto. Il Bangladesh teme un’altra ondata di profughi, con relativo aumento dei problemi, che già non sono pochi. La tensione fra i due paesi è alta; probabilmente nessuno, per ora, ha interesse ad aumentarla.       
Infine, sta per partire una spedizione mista di bengalesi e nepalesi, che intendono scalare una delle vette ancora inviolate dell’Himalaya. Come l’Italia, conquistando il K2, aveva fatto concorrenza alla Gran Bretagna che era arrivata sull’Everest, ora il Bangladesh si accinge a raccogliere un po’ di gloria con una “prima” himalayana che nessuno si aspetterebbe da un Paese quasi tutto in pianura, e privo di montagne che richiedano corde e picconi. Ma non del tutto privo di amanti della montagna!

p. Franco Cagnasso 

Emilio 2

Nella precedente scheggia ho ricordato p. Emilio Spinelli trascrivendo l’omelia che ho pronunciato poco dopo la sua morte, nella cappella della Casa del PIME a Lecco. Ora trascrivo qui alcuni dei messaggi che in quei giorni sono stati mandati spontaneamente da confratelli ed amici al “Gruppo WhatsApp” del Bangladesh.

***

“Ciao p. Emilio, abbiamo cominciato assieme la vita missionaria in BD… tanti felici ricordi di quei primi anni. Dovunque sei stato, la gente ti ha molto amato perché sei sempre stato al loro fianco e hai dato tutto per loro. La tua presenza ai nostri incontri comunitari era una festa per come ci raccontavi con tono scanzonato le tue avventure e quelle di altri confratelli. Ci lasci un grande esempio di missionario semplice, ma vero e sincero, come è stato p. Giulio. Che il Signore colmi il vuoto che avete lasciato. Prega per noi e grazie per la tua amicizia. (Gianni Zanchi)

“Carissimo p. Emilio, Sei stato presente in un pezzo della mia storia in Bangladesh. Abbiamo condiviso momenti di gioia e di fatica. Con tanta riconoscenza ti ringrazio e ti affido nelle mani del Signore. Possa tu riposare presso il tuo Creatore.” (Adolphe Ndouwe)

“Carissimo Emilio, hai compiuto il bellissimo miracolo di passare direttamente dal Bangladesh al Paradiso… parlavi bengalese anche a Rancio e alla sera preparavi la borsa per andare a visitare i villaggi… il tuo cuore era rimasto in Bangladesh… aiuta anche noi ad amare come te tutta la gente che incontreremo sul nostro cammino… un grande abbraccio…” (Quirico Martinelli)

“Carissimo Emilio, le più belle partite “al due” sono state quelle giocate con te… resterai sempre vivo nei nostri cuori… Accompagna dal Cielo il nostro servizio missionario” (Massimo Cattaneo)

“Emilio, vai. Felicitazioni per questa “nuova” destinazione meravigliosa.” (Lucio Beninati)

“Da Chandpukur la nostra preghiera e gratitudine” (Ciro Belisario)

“Caro Fabrizio, mi sei venuto in mente in questi giorni. Tu hai accompagnato Emilio in Italia per tentare le ultime cure. L’ho visto 5-6 volte sia all’ospedale di Merate che a Rancio. L’ho trovato sempre accogliente anche se confuso geograficamente e nella geolocalizzazione di persone. L’ho trovato anche sempre ottimista. Pensa che l’ultima volta che l’ho visto un mese fa, per la prima volta si era presentato camminando con le sue gambe anziché essere accompagnato in sedia a rotelle. Naturalmente il colore era sempre più pallido, ma lui stava “benissimo” come sempre. Quando è uscito dalla chiesa di Cernusco gremita e fra gli applausi, mi è venuto un nodo alla gola. Che uomo anche questo!!! Potremo criticare il PIME finché vogliamo, ma che uomini abbiamo… (Guglielmo Colombo)

“Dopo Pillon, Enzo Palladini, Ivano Tosolini è stata la volta di Vincenzo Pascale e di Emilio a partire da questo mondo… Vincenzo ha speso anche lui tutta la sua vita in Giappone nella stanza sempre ordinatissima. Una vita con pochi cristiani, come del resto in tutto il Paese. Quando l’abbiamo incontrato nella casa regionale di Tokyo, circa 10 anni fa, era cambiato molto dai tempi del seminario, meno riservato, sempre gentile, ma con tanta energia e tante prospettive. I suoi giapponesi l’avevano trasformato… Emilio si interessava anche di politica, seppure in modo indiretto, a sostegno di suo fratello che era stato eletto nelle liste dell’MPL, il Movimento Popolare dei Lavoratori. Quando ci siamo dati i giudizi a vicenda prima dell’ordinazione, lui ha scritto che ci ha visti maturati da un impegno principalmente intraecclesiale a quello più allargato del cambiamento sociale. Sono andato a trovarlo a Rohampur nel 1980 di ritorno dall’Italia per Hong Kong. Quando mi ha visto arrivare, ha aspettato che fossi vicino per innaffiarmi all’improvviso con la canna dell’acqua. Era il suo stile. Poi mi ha portato a pescare nel laghetto del boarding dei ragazzi. Tutto essenziale nella sua stanza. Mi ha fatto conoscere tra le altre suore Barbara Pereira, con la quale siamo rimasti in contatto con la spedizione delle medicine per tanti anni, fino a quando lei è entrata in clausura. La lettera di Emilio dell’anno scorso, in cui si sente contento di aver sentito il nome di cinque giovani sorelle delle sue comunità diventare novizie e quello di due altri giovani diventati preti, rivela la soddisfazione di averli visti seguire la sua stessa strada. Cinque fratelli del PIME classe 1974: SANTI SUBITO!” (Franco Mella)

Infine, una “risposta” di Emilio ai suoi amici…

“In questo periodo post-natalizio mi sento particolarmente euforico. Avrei voluto tanto celebrare un poco del giubileo del mio fratello don Sandro, ma proprio questo desiderio è irrealizzabile ed è giusto e bello condividere la pandemia con la mia gente, anche se mi sono accorto che il giubileo lo sto già celebrando perché il giubileo non si celebra da solo, ma con tutti, con quelli più cari e la gioia è incontenibile e non dovrò aspettare i 50 anni per celebrarlo. Infatti, in questo mese di gennaio, cinque bellissime ragazze hanno emesso voti di consacrazione. Solo cinque le nuove sisters, ma ogni volta che il cerimoniere annunciava il nome della suora con il nome della missione di provenienza (di Chandpukur) c’era come un brusio di accompagnamento, infatti le collegavano tutti a p. Emilio. Mi sono orgogliosamente sentito festeggiato con le nuove suorine e le loro famiglie e con tutta la comunità. Ma questo era solo l’inizio di questo gioioso giubileo perché due settimane dopo abbiamo avuto l’ordinazione di due nuovi preti: uno di Chandpukur e l’altro di Bhutahara e tutti e due hanno vissuto l’ordinazione e la prima messa in mezzo ai campi, all’ombra di due grandi tende, abbracciati da una folla di amici, commossi. Tutti insieme sotto quella grande tenda, nuovi figli, nuove famiglie. Per me questi due momenti sono stati un grande Giubileo. Davvero il Signore è sempre con noi! Carissimi, non sono uno scrittore di libri, magari più in là, chissà, riuscirò a scrivere qualche parola. In questo giubileo così grande, sono riuscito a ricordare anche tutti voi. (Emilio Spinelli – 26 febbraio 2021)
p. Franco Cagnasso
 

Emilio 1

P. Emilio Spinelli, un caro amico, era originario di Cernusco sul Naviglio (Milano), aveva 76 anni ed era stato missionario in Bangladesh ininterrottamente dal 1975 fino ad un anno e mezzo fa, quando fu colpito duramente dal Covid. Portato a Dhaka, si rimise a sufficienza per organizzare un rientro in Italia e tentare di curare i gravi problemi di salute che lo avevano fatto soffrire già prima della pandemia. È morto il 12 agosto scorso a Lecco, nella casa del PIME. P. Ferruccio – superiore generale – mi ha chiesto di tenere l’omelia alla celebrazione eucaristica di suffragio celebrata il 13 agosto. Ne riporto il testo qui sotto, con qualche ritocco.

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Celebrazione Eucaristica di suffragio
Lecco, 13 agosto 2022

Spesso ringrazio Dio per i doni che ho ricevuto, e quando lo faccio ricordo che la vocazione missionaria mi ha dato la possibilità di conoscere e frequentare tante persone belle. Belle nella mente, belle nel cuore e belle nelle opere – perché toccate e trasformate dalla Sua grazia.

Fra loro c’è anche p. Emilio, un dono forse avvolto in “carta da pacchi” più che in carta dorata ed elegante, ma preziosissimo. Me lo conferma un breve messaggio mandato dopo la sua scomparsa da un amico suo e mio, p. Gianni Zanchi, che ha scritto: “P. Emilio, il Signore ti dia la ricompensa, perché sei stato un servo fedele amico di tutti”: una “pennellata” proprio giusta: servo – fedele – amico di tutti.

Ho conosciuto Emilio nel 1964, quando ci incontrammo nel seminario che il PIME allora aveva a Cervignano del Friuli. Faceva parte del gruppo delle così dette “vocazioni adulte”, perché era entrato nella formazione del nostro istituto dopo un periodo di lavoro, e seguiva corsi speciali per recuperare il livello scolastico del liceo; io ero là come “prefetto”. Trascorremmo insieme l’anno scolastico 1964-65 e non fu difficile intendersi: era un giovane pieno di vita, simpatico, sereno e generoso, spesso con la battuta originale, ironica, mai cattiva.

Dopo l’ordinazione (1974) ha trascorso 46 anni in Bangladesh: come assistente di p. Di Serio nella missione di Rohanpur, passando poi come responsabile alla missione di Chandpukur, “ereditata” da p. Ciceri; in seguito, ha creato a Bhutahara una nuova missione piena di vita e attività, e poi ancora ha ricominciato a Kodbir, con la comunità avviata da p. Sandro Giacomelli. Trascorse anche un anno come responsabile della nostra scuola tecnica a Dinajpur, la “Novara Technical School”, in un momento difficile, in cui non si sapeva a chi affidarla…

Aveva due “passioni”:

– I giovani: con loro sapeva essere esigente e allo stesso tempo farsi voler bene; gli ostelli erano un po’ “il suo mondo”: impegno ma anche soddisfazione. A chi ce la faceva, dava anche la possibilità di studi superiori. In questo, nonostante qualche frizione occasionale, ha sempre lavorato d’intesa con le Suore, per lo più della congregazione locale “Shanti Rani” e poi con le Missionarie dell’Immacolata.

– Gli ammalati: ne ha fatti curare tantissimi, appoggiandosi al “Centro Assistenza Ammalati”, voluto dalle suore di Maria Bambina e dal PIME, di cui era il “cliente” più fedele – in “concorrenza” con p. Buzzi. Quando poteva, andava a trovarli, per i bambini portava un giocattolino… Riteneva che occuparsi degli ammalati fosse il gesto missionario più diretto, perché applica alla lettera la parola di Gesù, che manda i suoi nei villaggi e raccomanda anzitutto di visitare gli ammalati. Nella malattia non ci sono divisioni religiose, la sofferenza tocca tutti in modo uguale, e l’aiuto in quel momento è più eloquente di tante prediche o dialoghi. Suor Mariagrazia, dell’Istituto di Maria Bambina, che lo incontrò molti anni fa nel nascente “Centro ammalati”, mi ha detto: “L’ho visto poche volte, ma nella memoria m’è rimasto impresso il ricordo del primo incontro con lui, mentre entrava nel Centro portando lui stesso, sulle sue braccia, una donna ammalata”.

Giovani, ammalati… voglio ricordare anche le piante. Dove andava, trasformava zone spoglie in boschi. Raccontava sorridendo di quel vescovo che gli aveva detto: “Sono troppe, nascondono la vista della chiesa…” ma dall’anno seguente – durante il gran caldo di maggio – aveva preso l’abitudine di trascorrere qualche giorno proprio là da lui, cercando l’ombra e il silenzio del bosco…

Ha sempre operato fra i tribali di vari gruppi, appassionandosi alla loro vita, accettando e condividendo le loro abitudini che cercava di capire, lucidamente, con affetto e rispetto anche quando rilevava debolezze e difetti. Osservava, parlava, rifletteva… le sue valutazioni partivano dall’esperienza e non da pregiudizi o luoghi comuni – che sapeva rimettere in discussione e su cui spesso si confrontava con altri missionari.

Aveva esperienza concreta delle difficoltà che le minoranze tribali incontrano, perché spesso oppresse, ingannate e sfruttate dalla maggioranza, e faceva il possibile per stare al loro fianco; ma sapeva creare una rete di rapporti personali amichevoli e di collaborazione, anche con non pochi bengalesi musulmani. Emilio non parlava di “dialogo”, ma lo faceva nella vita quotidiana, senza classificazioni né ostilità preconcette.

Amava la compagnia. Non mancava mai agli incontri dei missionari del PIME in Bangladesh, momenti di gioia spontanea, con interessanti chiacchierate, scambio di esperienze e consigli, animatissime partite a carte.

D’altra parte, l’abitudine a far da sé, insieme con l’originalità di certi suoi metodi e stili di vita (si alzava sempre prestissimo, si trascurava, era a volte impulsivo…), potevano rendere difficile lavorare con lui nella stessa missione. Ha dovuto accettare anche periodi di solitudine, e questo gli pesava. Quando lasciò Chandpukur per andare a Bhutahara, passò da un ambiente a prevalenza Santal ad un ambiente a prevalenza Orao (altra lingua, altra cultura, altri stili di vita…).Doveva organizzare e costruire tutto da zero, in una località che a suo parere non era stata scelta bene e dove non conosceva nessuno; fu per lui un grande sacrificio, come una lunga quaresima che seppe comunque affrontare senza vittimismi.

Sembrava a volte trascurato; certo con se stesso e con la sua salute lo era. Ma aveva una vita interiore intensa e sensibile. Una volta mi chiese di aiutarlo, perché alcune sue battute scherzose erano state interpretate come ostili da un confratello, che aveva reagito scrivendogli una lettera molto dura. I miei tentativi di chiarire l’equivoco in un primo momento non ebbero successo, e questo causò ad Emilio un profondo disagio: “Bisogna che ci capiamo, non riesco a sopportare un rapporto così…” mi diceva.

Non credo che abbia mai contato quante persone, e nemmeno quante famiglie o villaggi abbia accompagnato al battesimo, certamente tante, ma non sottolineava i “successi”, cercava di andare alla sostanza; mi confidò: “Può capitare di intuire come il Vangelo cambia davvero l’interno, il cuore delle persone, e scoprirlo mi dà una grande gioia.” Una volta ascoltò – non visto – una conversazione fra due anziani, uno dei quali spiegava all’altro perché aveva deciso di avvicinarsi al cristianesimo: “Diceva cose molto semplici, ma vere e profonde; avevo avuto l’impressione che le mie spiegazioni non fossero capite; infatti non le ripeteva come le avevo dette io, ma le rielaborava molto meglio, in modo più concreto e adatto a loro!”. Sosteneva che l’elemento essenziale di una vera conversione consiste nell’entrata della preghiera nella vita delle persone: non lunghe orazioni, ma preghiera semplice, personale, segno di un rapporto con Dio.

Credo che fosse quello che cercava anche per se stesso. A parte le celebrazioni eucaristiche e momenti di preghiera comune, non sembrava pregare molto. Ma un seminarista diocesano che aveva trascorso con lui alcuni mesi mi disse: “Sembra che non preghi molto, ma sono sicuro che lo fa, perché la sua vita lo dimostra”. Un apprezzamento indiretto, ma rivelatore, e prezioso!
p. Franco Cagnasso

Futuro

Dopo 20 anni in Bangladesh, arrivando al “Seminario Teologico Internazionale” del PIME a Monza, ho trovato un’entusiasmante varietà di giovani da Africa, Asia, America del Sud, che si sentono chiamati ad essere missionari secondo i tre criteri che il PIME si è dato e che propone nella sua formazione. Per esprimerli in breve, l’Istituto ha persino rispolverato un poco di latino: ad gentes, ad extra, insieme(ai non cristiani, all’estero, insieme) – sempre dando precedenza alle situazioni di sofferenza, emarginazione e povertà – spirituali e non.

Questo modo di descriverci è stato formulato in tempi relativamente recenti, ma noi ci pensiamo così fin dai primi passi dei nostri fondatori e predecessori. Ora, insieme agli altri “educatori” di questi giovani, devo aiutarli a capire se il PIME fa davvero per loro oppure no, e per quali motivi; dovranno anche chiedersi con quali risorse spirituali andare avanti, appassionati del Vangelo, e nella fiducia che il loro cammino è e sarà accompagnato dal Risorto, che li chiama ad essere suoi testimoni.

Non si tratta di poca cosa: come realizzarla? Tra l’altro, mi domando anche: se mi riferisco all’esperienza dei “miei tempi”, e dei missionari che mi hanno preceduto, quanto posso farmi capire dai giovani e quanto io posso capirli? I contesti sono diversi, e anche le parole hanno significati in parte differenti.

Per tentare di rispondere ci vuol tempo, e bisogna conoscersi meglio. In questa scheggia mi limito a indicare qualche intuizione.

I missionari che hanno accolto nelle missioni quelli della mia generazione, approssimativamente e superficialmente classificabile come “sessantottina”, erano eredi di una tradizione che fin dai primi giorni si era rivolta con grande impegno alle povertà più evidenti: malattie, mancanza di istruzione scolastica, situazioni di denutrizione croniche o ricorrenti, soprusi dei colonialisti, dei grandi proprietari terrieri, delle maggioranze religiose ed etniche, e anche superstizioni e tradizioni, alcune delle quali tenevano la gente nella paura e creavano discriminazioni… Fra noi giovani, in qualche modo influenzati dalla così detta ”contestazione”, c’erano tante domande, anche molto critiche, su come questi problemi venivano affrontati e su come collegare l’evangelizzazione, che comportava l’insegnamento di dottrine nuove, con l’abbandono di tradizioni e religioni, per convertirsi al cristianesimo. Si cercavano “strade nuove”, ci si interrogava se a fronte di situazioni evidenti di povertà e di “sottosviluppo”, fosse giusto annunciare un vangelo “spirituale”. “Evangelizzazione o sviluppo?”. La domanda circolava insistente nel mondo missionario e nella Chiesa, dando per scontato che noi fossimo gli sviluppati, e che fra vangelo e sviluppo ci fosse una sorta di alternativa: o, o… “Non si può annunciare il vangelo a chi ha la pancia vuota” si sentiva dire, con l’aggiunta che “A chi ha fame non bisogna dare un pesce, ma insegnare a pescare”. Spesso queste semplificazioni venivano accettate come un’ovvietà, e portavano a dare la precedenza allo sviluppo, convinti che questo dovesse essere compito primario dei missionari.

Era scontato che i missionari venissero da un mondo “cristiano”, che era un mondo “sviluppato”, e dunque avesse il dovere di fare giustizia per superare il “sottosviluppo”. Il passato coloniale era un peso di cui sbarazzarsi – ma come? Era caduta una posizione del tutto negativa e chiusa nei confronti delle religioni; c’erano risposte nuove alle domande sulla “salvezza dei non cristiani” e sulla libertà religiosa, accompagnate spesso da riflessione teologica che affrontava temi nuovi, e pure da teorie sociali, politiche e ideologiche che cercavano di re-interpretare motivazioni religiose e di fede o anche di lasciarle da parte. C’era un certo “senso di colpa” per il fatto di appartenere a paesi e culture che erano stati e tuttora erano sfruttatori. La grande distanza esistente fra le condizioni di vita quotidiana dei paesi da cui partivano i missionari e le condizioni di vita dei “paesi di missione” poneva interrogativi angoscianti – come io stesso ho sperimentato in Bangladesh. Si può forse dire che in alcuni c’era una sorta di “versione laica” dello zelo che aveva spinto i missionari del passato a scegliere i luoghi più lontani e trascurati e a desiderare anche il martirio; l’obiettivo non era più espresso come “annuncio del Vangelo”, “salvezza”, “conversione”, ma piuttosto come “fare giustizia”, “restituire” il mal tolto. C’era anche, in termini diversi ma con un atteggiamento psicologico analogo, una specie di “eroismo romantico” che in passato sfidava il paganesimo, in tempi più recenti sfidava la “ingiustizia” e il “sottosviluppo”, con una certa dose di sopravvalutazione di ciò che i missionari potessero effettivamente fare, di quanto la loro attività potesse incidere su questi problemi. Con tutto ciò, la mia valutazione sulla missione svolta dai miei coetanei è positiva, e ho ammirazione riconoscente per molti di loro.

Ma oggi, come sono le prospettive?

I giovani con cui vivo per lo più non partono da “paesi cristiani” per andare a “paesi non cristiani”. Non vengono da “paesi sviluppati” e non si dirigono a paesi “in via di sviluppo”. La diversità economica e storica (colonialismo, ecc.) tra paese di partenza e paesi di destinazione, che ci poneva tanti interrogativi e creava sensi di colpa, ora non c’è.

I seminaristi di oggi sono forse più vicini alle condizioni in cui si trovavano i missionari della Chiesa nei suoi primi anni, ai suoi primi passi, che non distingueva paesi di missione e non, sviluppati e non, e nemmeno aveva esperienza di “paesi cristiani” e di società “scristianizzate”. Il loro obiettivo era che la Parola di Dio non si fermasse, “corresse”, e poi avrebbe dato i suoi frutti. L’espressione “conquistare il mondo a Cristo”, spesso usata da p. Manna, era sconosciuta, mentre era vivo il desiderio di dare a tutti la possibilità di ascoltare l’annuncio – a cui avrebbero risposto “coloro che erano stati scelti dallo Spirito”.

La generazione di missionari che si sta facendo avanti ora, non propone rotture con il passato: anzi, molti di loro attribuiscono la loro vocazione al fascino che hanno esercitato i missionari della generazione che li ha preceduti; però si muove in un contesto diverso, per cui credo che emergeranno modelli di vita missionaria in parte diversi.

Non ho mai apprezzato la “futurologia”, né chi scrive libri per dirci come sarà il mondo fra 20 o 50 anni; neppure do importanza allo studio di grandi, globali nuove “strategie della missione” con visioni onnicomprensive che prevedono rinnovamenti radicali di tutto. Perciò non pretendo di spiegare in anticipo come andranno le cose. Ma penso che dobbiamo, con umile fiducia, stare attenti alla silenziosa opera dello Spirito, che instancabilmente rinnova, ricrea, rilancia, approfittando anche dei nostri fallimenti, sbagli, dubbi. Non è detto che tutto ciò che sta cambiando, e forse ci preoccupa molto, sia premessa di guai, decadenze, invito a rimpiangere il passato.

Franco Cagnasso
Esino Lario, 18 agosto 2022