Madrelingua

P. Belisario, associato PIME colombiano, ha terminato il corso di bengalese, e in attesa di sapere a quale missione verrà assegnato, va a Mariampur per un po’ di “tirocinio”. Arrivato là, tocca con mano che, sì, il bengalese è capito, ma la lingua comune della gente è il santal, e la domenica una delle due Messe viene celebrata in santal. Non si  spaventa, e in pochi giorni impara a leggere le parti ordinarie della Messa. La settimana dopo mi telefona una ragazza santal che conosco bene, felice e commossa: “E’ arrivato un padre nuovo, e domenica ha già celebrato in santal! Si capiva benissimo. Pensa, subito ha voluto parlare come noi!” La ragazza è laureata, e parla benissimo il bengalese, ma la lingua dell’infanzia è quella che tocca il cuore…

Groviglio

Nella scheggia “Storia”, del 22 dicembre scorso, dicevo che l’impiccagione di due criminali della guerra del 1971 potrebbe essere con-causa di alcuni recenti attentati a stranieri; l'”amico di blog” Mario commenta: “mi domando se la condanna non sia stata anche una conseguenza (una specie di “rappresaglia”) di azioni terroristiche avvenute prima”. Rispondo che i processi ai criminali di guerra 8 anni fa erano nel programma elettorale del partito Awami League, che ha vinto forse anche grazie a questo. Dissotterrare inimicizie e atrocità vecchie di oltre 40 viene presentato come un atto di giustizia e di purificazione che ridà dignità al Bangladesh. Politicamente, ha permesso di colpire pesantissimamente il partito islamico Jamaat-ul-islam, di cui fanno parte quasi tutti gli accusati, e di dare un segnale di forza, oltre che di rilanciare i principi secolari e “laici” del movimento di liberazione. Non manca, credo, una componente di rivalsa personale: la primo ministro è figlia del Padre della Patria ucciso nel 1975 da quelli che poi hanno gradualmente fatto tornare in patria chi aveva avversato l’indipendenza, li hanno accolti in politica, hanno rimesso in gioco la religione islamica come elemento politico sempre più rilevante.
Mario scrive anche: “mi sembra che ci sia una connessione molto stretta tra il sentimento religioso e l’azione politica, e che la politica faccia di tutto per strumentalizzare la religione come strumento di controllo della vita delle persone, fino a vedere nella religione una possibile giustificazione di azioni terroristiche”. Questa “connessione stretta” c’è, ma trovo semplicistiche le posizioni di chi dà tutta la colpa all’Islam, come di chi riduce tutto ad un uso strumentale della religione fatto dalla politica. C’è un inestricabile groviglio di elementi da tener presenti, spesso confusi o indefinibili. L’Islam dalle sue origini – da quando Maometto ha assunto poteri politici, ha legiferato e governato motivando leggi e scelte politiche con rivelazioni ricevute – non distingue religione e politica, e si definisce come una religione capace di rispondere in pieno ai bisogni socio-politici dei credenti, oltre che a quelli personali. Nella storia questi princìpi, e la legge coranica o quella post-coranica non sono state applicate alla lettera che in pochi tentativi non concordanti fra loro e presto abbandonati; ma il principio e specialmengte la mentalità restano. Oggi, certamente politica ed economia usano l’Islam per i loro interessi, ma è anche vero che musulmani arrabbiati e frustrati per varie ragioni storiche e attuali, e convinti che l’islam sia ovunque disprezzato, osteggiato, perseguitato e “in pericolo”, cercano strumenti politici per riaffermare dignità, forza, dominio dell’Islam, e trovano nella religione non solo giustificazione, ma incoraggiamento ad usare la violenza. E’ dunque anche la religione che usa la politica. Dire che i giovani combattono e si offrono come terroristi suicidi perché pagati lautamente è una semplificazione grossolana. Molti di loro hanno motivazioni religiose o ritenute tali, radicate in una lettura dell’islam discussa e rinnegata dalla grande maggioranza dei musulmani, e tuttavia accolta e propagandata con efficacia da minoranze consistenti e attive.

Sollievo

Dopo vari attentati,e minacce a pastori e preti, tensione e preoccupazione sono evidenti, specie fra i cristiani, in attesa del Natale. Messe “di mezzanotte” programmate alle 16 o poco dopo, ambasciate che raccomandano natali casalinghi, polizia ad ogni chiesa, anche con metal detector (non funzionanti, s’è scoperto…); nel nord, stranieri limitati nei movimenti, a Dhaka cancellati cenoni negli hotel… Poco prima del Natale, le forze dell’ordine irrompono in un appartamento del quartiere Mirpur, a Dhaka, e arrestano 7 persone (lasciandosi scappare i due capi) con armi, bombe, e altre amenità; si stavano preparando ad assalire 6 luoghi di preghiera cristiani fra cui, forse, la nostra parrocchia.
E poi? per me, un Natale insolito, a Rajshahi, ospite della comunità Snehanir, che mi ha dato un’immagine di come dovrebbe funzionare il mondo. Per cantare e danzare i “kirton” tradizionali tutti insieme, i ragazzi in carrozzella o su barella, con stampelle o varie difficoltà motorie, si mettono al centro a suonare e cantare; quelli che si muovono, tutti a danzare girando intorno; nessuno si stanca, l’entusiasmo è contagioso. Messa in cattedrale con inizio alle 18, chiesa vuota all’inizio e piena alla fine. Pranzo alla casa del Vescovo, che serve i ragazzi insieme al Cancelliere e alcune suore.
Il giorno dopo, tutti in autobus per 7 ore e nel villaggio di Tumilia, raggiungiamo la casa paterna di suor Dipika, pacata e sorridente direttrice di Snehanir. La famiglia (nove fratelli e sorelle, più mogli, mariti, nipoti, parentele varie) ci ha invitato per celebrare i 25 anni della sua professione religiosa. Fa freddo, la sistemazione è spartana, ma l’accoglienza avvolge come una coperta calda. Si celebra con l’arrangiamento di una cerimonia tradizionale nelle famiglie dei due giovani, la sera prima del matrimonio. Suor Dipika accende una candela davanti alle fotografie del papà, di un fratello e di una sorella defunti, e compie l’affettuoso atto di omaggio toccando i piedi a mamma e nonna. Poi venti persone, che hanno portato luce e sostegno nella vita di Dipika fin da quando era piccola, una dopo l’altra, accendono una candela ciascuno. Si canta. Un prete benedice una coppa con pasta di “holud”, polvere gialla considerata medicinale e portafortuna, usatissima nella cucina bengalese. Uno dopo l’altro, tutti ungono il palmo delle mani della suora con un poco di questa pasta, come augurio di bene. Discorsi brevi ed elogi ragionevoli… poi ci si scatena con i “kirton” natalizi.
Insomma, il Natale più gioioso da quando sono in Bangladesh. In tutto il resto del Paese nessun incidente, anche se qualcuno brontola perché ha dovuto offrire te e torta a non pochi poliziotti…

Bilancio

Ovviamente, anche per il 2015, attivi e passivi nel bilancio del Bangladesh.
Attivi
L’economia, con il tasso di crescita valutato a oltre il 6%, con le esportazioni di abiti in aumento, con l’avvio dei lavori per il grande ponte sul fiume Padma che unirà sud ovest e sud est del Paese, e parecchi altri progetti in via di approvazione da parte del governo. Una donna, Wasfia Nawreen, è il primo bengalese che ha completato la scalata delle sette più alte cime del mondo, incluso l’Everest. La nazionale di cricket ha registrato vittorie entusiasmanti con i nemici tradizionali. La primo ministro è stata premiata all’ONU fra i “Campioni del Mondo” per l’impegno ecologico… Dopo 41 anni è stato siglato un accordo con l’India per sistemare decine di “enclaves”: piccoli spazi bengalesi nel territorio indiano, senza vie di accesso al Bangladesh, e viceversa: pezzeti di India intrappolati in Bangladesh. Rapporti migliorati fra le due nazioni.
Passivi
Rimane vivo il pessimismo, dopo tre mesi di violenze politiche dell’inizio dell’anno, quando 95 persone persero la vita a causa di bombe incendiarie lanciate su mezzi di trasporto, e 45 in conflitti con le forze dell’ordine che praticano alla grande “esecuzioni extragiudiziarie” di criminali e di avversari politici, una cinquantina dei quali sono stati fatti “sparire”. Gli investimenti privati ristagnano. Quattro “blogger” sono stati accoltellati a morte con l’accusa di ateismo, e altri – minacciati – hanno lasciato il Bangladesh. In episodi distinti, tre ragazzi di circa 12 anni sono stati torturati e uccisi a botte da persone che li accusavano di averli derubati, e in un caso gli assassini hanno filmato la tortura mettendola in rete. Innumerevoli i linciaggi di ladri veri o presunti, e i conflitti anche mortali per il possesso di terreni. A fine anno rialza la testa un terrorismo che sembra aver scelto le vittime per dare segnali chiari: un volontario (italiano) di una ONG (le ONG sono considerate il cavallo di Troia del secolarismo); un giapponese membro della religione Baha’i; tentato omicidio di un pastore protestante (bengalese) e di un prete cattolico (italiano); assalto con bombe a due templi hindù, ad una festa di musulmani Sciiti, ad una moschea della setta islamica Ahmadia, ad una moschea in zona militarizzata; uccisione di poliziotti ad un posto di blocco. Mancano al macrabo appello solo i buddisti, già vittime non molto tempo fa di attacchi a vari villaggi del sud. Le elezioni comunali svoltesi a fine anno sono state una parodia della democrazia: seggi elettorali occupati, schede pre-votate messe a forza nei box, avversari minacciati; forze dell’ordine colluse con i prevaricatori… Chi già aveva il potere, lo ha consolidato, confermando così che la democrazia è una facciata, e spargendo a piene mani i semi di violenza e terrorismo, visti come unica via per sottrarsi al regime.
E poi?
Disparati i pareri sull’impiccagione di tre criminali della guerra del 1971 e la condanna a morte di due assassini di un “blogger” ucciso tre anni fa. Giustizia o vendetta politica?

Pazienza

Diciotto anni fa i rappresentanti dei 16 gruppi etnici della zona “Chittagong Hill Tracts” (sud est del Bangladesh), dopo oltre 20 anni di guerriglia intesa ad affermare i loro diritti, firmarono un trattato di pace con il governo, formato dalla coalizione attualmente al potere, e deposero le armi. Doveva seguire una rapida de-militarizzazione della zona; più tardi, fu creata una speciale commissione per prendere in esame le controversie provocate da occupazioni forzate da parte di oltre mezzo milione di bengalesi musulmani,  invitati dai governi precedenti a “bengalesizzare”, e di conseguenza islamizzare, la vasta area, ancora in parte forestale. In occasione di una discussione organizzata per celebrare la data, Santu Larma, rappresentante di tutti i gruppi etnici, ha spiegato: “Il governo ha creato un Comitato per la realizzazione dell’accordo (di pace). Ma non c’è un ufficio, non ci sono fondi, non c’è un incaricato. Non si può neppure trovare un fascicolo che sia del Comitato di realizzazione”. L’immigrazione da altre parti del Bangladesh continua, privati e grandi compagnie s’appropriano di terre per sviluppare il turismo o diversi tipi di piantagioni, l’amministrazione è in mano ad estranei, la presenza delle forze di polizia e militari è massiccia, invadente, arrogante. Le visite di stranieri sono ammesse a fatica, e strettamente controllate. Un “consigliere per gli affari internazionali” del primo ministro presente ai colloqui, fra l’altro ha detto che se le donne dei gruppi etnici subiscono violenza da chi vuole costringerle ad andarsene, devono denunciare il fatto alla polizia, e se la polizia non dà retta devono rivolgersi all’ufficio del  primo ministro (sic). Riconoscendo che il governo non ha preparato alcun piano né fissato i termini per il lavoro del Comitato, ha aggiunto: avete avuto finora molta pazienza senza vedere risultati, ma bisogna averne ancora, e aver fede in questo governo, perché è sincero.

Partenza

Domenica 13 dicembre, a Borni – parrocchia nel nord-ovest del Bangladesh – si celebra la consegna del Crocifisso a suor Chandana Rozario, Missionaria dell’Immacolata (PIME) che parte per il Cameroun. Nella chiesa affollata, dico a tutti che nel 1979, a un anno dal mio arrivo in Bangladesh, passai tre mesi a Borni per far pratica della lingua e ambientarmi. Chandana non era ancora nata, e certo io non pensavo che sarei tornato 36 anni dopo a dare il saluto a una “figlia” di Borni diventata missionaria. Non solo, ma tra i presenti ci sono pure p. Adolphe Ndouwe, camerunese, missionario del PIME in Bangladesh, e Fratel Joseph Mongol Aind, bengalese, per 10 anni missionario del PIME in Camerun, da poco rientrato per un periodo di servizio nel suo Paese. Chiese che si muovono, donano, ricevono, si incontrano… Ma ha senso questo andirivieni? Perché non lasciare ciascuno al suo posto evitando fatiche e spese?
Il partire è vissuto dai missionari non come una scelta personale, ma come una risposta. La “strategia missionaria” dello Spirito Santo è decisamente originale e difficile da inquadrare nei nostri schemi. Sa Lui dove ci saranno frutti, e come; sa Lui quali strade ci permettono di seguire meglio il Maestro. Andare lontano è anche un modo di accogliere e vivere la risposta che Gesù dà alla domanda: “Chi è il mio prossimo?” Non parla di parenti, vicini di casa, connazionali, fratelli di fede religiosa, ma di un Samaritano, straniero ed eretico, che si fa prossimo all’uomo ridotto in fin di vita dai briganti. Suor Chandana e Fratel Joseph, bengalesi, si fanno “prossimo” dei camerunesi, come p. Adolphe, camerunese, si è fatto “prossimo” dei bengalesi: con la loro vita ci mettono sotto gli occhi il valore di ogni essere umano, lontano, vicino, straniero, diverso, e l’attenzione di Gesù per ciascuno; ripetono il gesto di Abramo, che cerca Dio fuori della sua terra. Partire costa fatica, e mette in una condizione di perenne impegno per capire, adattarsi, accettare la condizione di stranieri, ospiti, pellegrini. Non è forse questo che il Maestro chiede al giovane che voleva qualcosa in più per “ottenere la vita eterna”? “Vendi tutto e seguimi”. Vendi terre e distribuisci i conti in banca, ma anche staccati dalla tua stessa gente, dalla lingua, dal cibo, da un’appartenenza che rischia sempre di essere chiusa, esclusiva. Partire ti fa più grande il cuore, ti rende libero e quindi, se sai approfittarne, più disponibile al vangelo e all’intimità con il Maestro. Spesso suor Chandana Lo sentirà profondamente, a volte dolorosamente e allo stesso tempo gioiosamente, come unico punto di riferimento e appoggio. E partire può anche suscitare qualche domanda in chi ci accoglie: se lei/lui viene da tanto lontano per testimoniare il vangelo, perché non posso pure io darmi da fare un poco di più fra la mia gente?

Fastidio

Recentemente, cinque giovani operaie cristiane che vivono in una stanzetta a Dhaka sono state avvicinate due volte da sconosciuti e minacciate: “Siete cristiane? Che ci fate qui?  Sgombrate il quartiere o vi facciamo sgombrare noi, ci date fastidio” “Perché?” “Perché voi cristiani sostenete il governo che è nemico dell’Islam, e impicca i nostri fratelli maggiori…”

Storia

Il 18 novembre è stata confermata, ed eseguita per impiccagione pochi giorni dopo, la condanna a morte di altri due “criminali di guerra”, per fatti accaduti nel 1971. Erano stati oppositori all’indipendenza del Bangladesh, ma – tornati dopo un breve esilio – avevano ricoperto ruoli importanti nel partito islamico Jamaat, o in quello nazionalista BNP, e anche nel governo. La condanna potrebbe essere una con-causa delle azioni terroristiche eseguite in varie parti del Paese contro stranieri, cristiani, hindu e templi, simboli del sostegno all’indipendenza, considerata un rifiuto dell’islam nel cui nome Pakistan Occidentale e Orientale avevano formato un’unica nazione. S’è fatto sentire anche il governo del Pakistan, prima esprimendo preoccupazione per le condanne, e poi negando che ci siano stati nel ’71 repressioni e stragi. A sentir loro, addolorato per l’ingratitudine dei loro fratelli Bengalesi che volevano separarsi, l’esercito pakistano per tutto quell’anno protesse la gente dai comportamenti banditeschi di alcuni fuorviati, distribuì caramelle, sostenne i poveri, protesse la castità delle ragazze; usando parole dolci e lacrime fece del suo meglio per tenere il Pakistan unito con vincoli di sincera fraternità, caparbiamente respinto dai “banditi” che volevano separarsi mettendo in pericolo l’Islam…
Furibonda la reazione del Bangladesh, a livello diplomatico, e di “società civile”. Stampa e TV sono inondati di testimonianze, rievocazioni, fotografie che ricordano le atrocità commesse, la strategia volta ad annientare la classe colta del Bengala, per tenere unito – e sottomesso – un popolo di poveracci analfabeti. Culmine della reazione, il 14 dicembre, “Giornata degli intellettuali martiri”, data in cui l’esercito diede la caccia casa per casa a professionisti, intellettuali, insegnanti, scienziati, artisti, massacrandoli indiscriminatamente: un’inutile, crudele vendetta due giorni prima di firmare la resa incondizionata all’esercito indiano (16 dicembre 1971). L’Università di Dhaka ha sospeso ogni rapporto accademico con tutte le università pakistane, finché non venga riconosciuta la verità storica delle stragi.

Protezione

Dopo l’assassinio o il tentato assassinio di stranieri, e di un pastore battista bengalese, le forze di polizia sono in allarme rosso, e sotto enorme pressione del governo, perché ci proteggano. Chiuso uno dei due cancelli della missione, giorno e notte quattro poliziotti presidiano l’altro, controllando chi entra e chi esce. Ci pregano di non uscire troppo, ma quando serve siamo liberi di farlo, purché accompagnati da uno di loro. Possiamo andare anche lontano: allertando il comando due giorni prima, manderanno una scorta.
Il giorno dopo aver ricevuto queste disposizioni, da Khidirpur (70 chilometri da Dinajpur), telefona p. Almir, che s’è malamente tagliato un piede e sanguina molto. Massimo, l’infermiera suor Dipty e io in un attimo siamo al cancello con l’auto. Ma non abbiamo avvisato due giorni prima, e i giovanotti di guardia sono smarriti. Si accertano che non si tratti di un attentato, e che il ferito sia uno straniero (“se è un bengalese non conta…”). Telefonano freneticamente a vari numeri, spiegano e rispiegano, ci fanno spiegare e rispiegare, ricevono ordini confusi. Si fanno dare e ridare nomi e numeri di telefono. Chiedono e richiedono dove andiamo, quando torniamo, che strada facciamo. Poi,
raggianti, annunciano che l’auto di scorta arriva in un minuto. Aspettando,.più volte esprimiamo il desiderio di arrivare sul posto prima che il ferito sia dissanguato… Si dicono d’accordo, e ci tranquillizzano: “Ormai è qui…”
Con perplessità ci lasciano spostare l’auto sulla strada, pronta per partire. Si fa avanti un tale in borghese con taccuino, rifà tutte le domande, prende nota, chiede i numeri di telefono, telefona più volte – sorridente e rassicurante. Colpo di genio di Massimo: “Senta, la vostra auto deve arrivare dalla direzione in cui dobbiamo andare, noi ci avviamo e ci incontreremo”. Telefonata, permesso, si parte.
I chilometri scorrono, incominciano le telefonate: dove siete? Dove andate? Quanti siete? Com’è la vostra auto? Vi aspettiamo al ponte sull’Atrai… Massimo fila veloce, al ponte non c’è nessuno. Poi ecco una camionetta, saluti cordiali. “State tranquilli, noi vi precediamo”. –
40 chilometri all’ora…
Intanto p. Almir, capita l’antifona, s’è fatto portare da una motocicletta fino a Fulbari. Quando vi arriviamo si deve cambiare pattuglia di scorta, e ci vuol tempo a spiegare che sì, intendevamo arrivare a Birampur, ma ora non conviene proseguire per altri 15 chilometri fino là e poi tornare, dal momento che l’infortunato stesso è arrivato a Fulbari. Discussione, telefonate, consenso. Con la nuova scorta raggiungiamo p. Almir e lo carichiamo.
“Precediamo noi” dice Massimo con tono leggermente minaccioso. “Ok, precedete”. In poco tempo la camionetta è fuori orizzonte, e ci telefonano: “Ma voi andate in fretta! Dateci dentro, troverete un’altra scorta più avanti”. Ogni tre minuti, telefonata per chiedere dove
siamo e indicare dove ci attendono… ma non li troviamo, finché, a pochi chilometri da Dinajpur, un gruppo di giovanotti in divisa ci ferma.
Si accerta sulle nostre condizioni di salute e chiede dove andiamo. Poi, due di loro saltano su una piccola motocicletta per seguirci. Li seminiamo, ma il tratto finale di strada è così sconnesso che ci raggiungono e facciamo trionfale ingresso all’ospedale tutti insieme: il
ferito, l’infermiera, l’autista, il sottoscritto e due poliziotti garanti della nostra incolumità.
Mentre il medico sistema la ferita, aspettando di accompagnarci a casa, esprimono sdegno per l’accaduto, sconfinata ammirazione per i missionari (mia moglie ha partorito due volte nel vostro ospedale, pulitissimo!), lamentano la durezza della loro vita e mi sommergono di domande su preti, suore, missionari, famiglie, chiedendomi in confidenza: “I medici dell’ospedale sono bengalesi?”. “Sì”. “Stipendiati?” “Certo!” “Non fidatevi, noi siamo tutti ladri…”. Concludo, per evitare equivoci: siamo grati per il servizio, e comprendiamo che il loro compito, con i mezzi che hanno, non è semplice.

Quadriennio

‘Superiore” è una parola che non ci piace, e non esprime la nostra realtà; la usiamo per non sprecar tempo a cercarne un’altra, convinti che i fatti valgono più delle parole. Così anche noi missionari in Bangladesh abbiamo un “superiore” e l’11 novembre scorso, quattro anni dopo che l’incarico era stato affidato al sottoscritto, abbiamo eletto il successore: p. Michele Brambilla, e il suo consiglio. Abbiamo dato uno sguardo al quadriennio passato per capire in quale direzione andiamo.
Nel novembre 2011 eravamo 33 di cui 30 preti e 3 fratelli laici. Oggi siamo 29, di cui 25 preti e 4 fratelli. “Sorella morte” ha preso con sé p. Enzo Corba, p. Carlo Calanchi e p. Gregorio Schiavi; 9 missionari sono stati trasferiti per operare in Italia con incarichi diversi, o rientrati in Colombia, al termine del “contratto di associazione”. Nello stesso periodo sono arrivati 8 missionari: 5 rientrati dopo aver svolto servizio in altri paesi, 1 di prima destinazione, due nuovi associati. Eravamo 27 italiani, un brasiliano, un camerunese, 4 associati colombiani; oggi siamo 24 italiani, un brasiliano, un camerunese, un bangladeshi, richiamato dal Cameroun per qualche anno di servizio nel suo paese, 2 associati colombiani. Il numero quindi è calato, ma “in compenso” è aumentata l’età: su 29, abbiamo 11 ultrasettantenni, e il nostro vivace decano è ultraottantenne.
Siamo presenti in tre diocesi, avendo lasciato la diocesi di Chittagong, dove era rimasto soltanto uno di noi. Svolgiamo una varietà di servizi di prima evangelizzazione fra gli aborigeni, di pastorale, formazione scolastica, professionale e religiosa, di cura e attenzione agli ammalati, al mondo del lavoro e ai bambini in strada, di formazione al risparmio con le “Credit Unions”, di animazione missionaria.
In 4 anni abbiamo effettuato vari trasferimenti “ordinari” secondo le indicazioni dei vescovi, abbiamo passato alle diocesi tre realtà fondate da noi: due centri di formazione e una missione; stiamo gradualmente affidando alle diocesi il “Sostegno a distanza” (adozioni), pilastro economico di scuole e ostelli nelle diocesi di Rajshahi e Dinajpur.
Ci hanno affidato nuovi incarichi, compresi due sottocentri e due parrocchie. Le attività ecumeniche e di dialogo segnano il passo, mentre ha preso forma il “Centro Gesù Lavoratore” alla periferia di Dhaka. Siamo in difficoltà a provvedere personale per dirigere l’ospedale diocesano di Dinajpur, e la scuola tecnica di Rajshahi. A causa di visti non concessi, non siamo riusciti d avere personale ALP, che sarebbe molto prezioso.
Nelle nostre due piccole “comunità vocazionali” studiano 13 giovani di “Intermediate” e 11 di college. Sette sono stati accettati come seminaristi PIME nel seminario di filosofia nazionale; due studiano teologia a Monza, uno è stato ordinato prete quest’anno e destinato alla Papua Nuova Guinea. Fra i membri del PIME nel mondo si contano un fratello e tre preti di nazionalità bangladeshi.
Impossibile contare celebrazioni, sacramenti, preghiera, contatti, aiuti, sacrifici, peccati, buona volontà, delusioni, colloqui, tempo perso, amicizie, conflitti. Lasciamo il bilancio al Signore.