Paolo

P. Paolo Ciceri era nato in Brianza, e avrebbe compiuto 80 anni il 25 di questo mese di novembre 2022. Ordinato presbitero a Milano nel 1967, dopo 4 anni di servizio nell’arcidiocesi ( a cui rimase sempre vicino per amicizie e per il suo “stile ambrosiano” nella pastorale), era entrato nel PIME, che lo assegnò al Bangladesh. Vi rimase 46 anni, operando in diverse parrocchie che contribuì a fondare. Rientrato in Italia per motivi di salute, nel 2019 fu accolto a Lecco nella casa per missionari del PIME ammalati e anziani. È morto quasi improvvisamente il 9 novembre 2022 per emorragia epatica.

1978: ero ai miei primi passi in Bangladesh, alle prese con lo studio della lingua bengalese in una scuola a Barisal, nel sud, quando P. Giulio Schiavi mi invitò a trascorrere il periodo natalizio alla missione di cui era parroco, Beneedwar. La parrocchia copriva un’area molto estesa, con tanti villaggi; ad aiutarlo, c’erano p. Emanuele Meli, che conoscevo bene, e p. Paolo Ciceri, che incontrai per la prima volta. Fu un Natale ricco di cose nuove per me, cose che vidi con i miei occhi, che ascoltai da loro, che la gente tentò di dirmi – anche se capivo ancora poco.

Appena ho ricevuto la notizia della morte di P. Paolo mi è venuto alla mente un fatterello accaduto allora, che in seguito sentii raccontare più volte fra noi del PIME, spesso arricchito di particolari più o meno “storici”, sempre scherzosi. Eccolo: P. Paolo aveva un appuntamento in un villaggio piuttosto lontano e al di là del fiume, per amministrare alcuni battesimi. Ma nel giorno fissato una pioggia fittissima rese impraticabili le strade e gonfiò il fiume. “Paolo, non andare! – gli disse p. Giulio – con questa pioggia non si farà nulla”. Ma Paolo non poteva pensare di deludere quelli che lo aspettavano, e andò. Il fiume era davvero ingrossato, ma in qualche modo riuscì ad attraversarlo e a raggiungere il luogo dell’appuntamento, dove non trovò nessuno… Sicuri che con un tempo del genere il Padre non sarebbe venuto, tutti erano rimasti a casa loro. Al ritorno, inzuppato e stanco, Paolo vide p. Giulio che lo aspettava sulla soglia di casa; gli passò accanto per arrivare alla sua stanza, mormorando soltanto: “Niente commenti, per favore!”.

La storiella nella sua semplicità comunica una caratteristica nota a tutti quelli che conoscono P. Paolo: davanti a un suo compito, a un impegno preso, a qualcuno che aveva bisogno di lui, non era tipo da pensarci due volte, tanto meno da tirarsi indietro per evitare di bagnarsi, infangarsi, stancarsi.

Per preparare l’omelia durante la Messa celebrata per lui il giorno dopo la sua morte mi sono chiesto: c’è una parola che possa esprimere bene la sua personalità? Credo di averla trovata: era un uomo, “appassionato”. Poi ho pensato: verrà proclamato il vangelo delle Beatitudini; quale di esse lo descrive meglio? Ne ho scelte due: “Beati i misericordiosi” e “Beati i puri di cuore” (Mt 5, 7-8).

Era impulsivo, non per sventatezza, ma perché lasciava parlare il cuore, e metteva tutto sé stesso in ciò che decideva di fare, ritenendolo giusto e buono.

“Appassionato” certo, ma… di che cosa?

Della missione, che per lui aveva due punti fondamentali.

Il primo era la “compassione” (Beati i misericordiosi). Le persone che soffrono per povertà, malattia, ingiustizie, disagi lo attiravano come una calamita, e lui sentiva che comunque doveva fare qualcosa al più presto. Non aveva strategie complesse, non era un calcolatore, uno che prendesse tempo per vagliare con calma i pro e i contro e non sbagliare, o per risparmiarsi, o che si inoltrasse in discussioni teoriche.

L’altra grande passione, a cui dedicava anima e corpo, era la formazione, perché il Vangelo entrasse nella vita delle persone che gli erano affidate, per vivere con loro la preghiera e la comunione. Scherzando diceva: “Qualcuno pensa che io faccio missione con i soldi, ma non sa che io faccio… tonnellate di catechesi!”. Un giovane prete che lo sostituì quando Paolo, trasferito, lasciò la parrocchia di Rajshahi, mi confidò: “Sentivo dire che p. Paolo era popolare perché usava molti soldi; ma ora che sono al suo posto ho capito quanto lavoro pastorale facesse, quante corse per celebrare in diversi villaggi ogni domenica, per farsi presente negli ostelli, per visitare gli ammalati, per organizzare e partecipare a momenti formativi, di ritiro, di preghiera… Io non riesco proprio a fare altrettanto…” Spesso i preti nelle parrocchie affidano alle suore e ai catechisti l’insegnamento religioso, la guida delle preghiere quotidiane; P. Paolo agiva in prima persona, appena gli era possibile.

Non gli mancarono delusioni, fallimenti, e anche imbrogli, tradimenti di chi approfittava di lui e della sua generosità troppo fiduciosa. Non l’ho mai sentito scoraggiato per questo, o amaro e aggressivo contro chi si era comportato male. Dava quasi l’impressione di ignorare o dimenticare questi incidenti di percorso. In un certo senso era proprio così; anche nei momenti difficili sapeva subito guardare a ciò che andava bene, che dava qualche risultato anche piccolo. Era il suo modo di praticare ciò che Paolo di Tarso, il suo patrono, raccomanda ai Galati: “Non stanchiamoci di fare il bene” (6,9), o ai Tessalonicesi: “non lasciatevi scoraggiare nel fare il bene” (2 Ts 3,13).

Paolo non si stancava del bene e non si scoraggiava del male; aveva il pregio di saper gustare i buoni risultati e questo gli dava coraggio e forza per non arrendersi. Non parlava molto di ciò che faceva, ma parlava moltissimo delle persone che mettevano a buon frutto il suo servizio: un ragazzo o una ragazza che mai avrebbero potuto studiare, e che con il suo aiuto terminavano le superiori, diventavano infermiere, medici, insegnanti, formavano famiglie, si consacravano come suore, o preti, si impegnavano nella comunità cristiana, aiutavano altri negli studi… Mia sorella Anna e mio cognato Aldo nel 2003 visitarono il Bangladesh e trascorsero qualche ora con lui. Anni dopo non ne ricordavano il nome, ma lo identificavano come “quel missionario che parlava con tanto entusiasmo della sua gente…”. Un seminarista bengalese che studia al seminario del PIME a Monza mi ha confidato: ho visitato tante volte p. Paolo nella casa di riposo, sempre mi parlava del Bangladesh, e mi mostrava fotografie: non di edifici costruiti, di riunioni organizzate, ma di persone che erano fiorite grazie al suo aiuto. Parlava di ciascuno di loro, raccontava, e raccontando piangeva… di nostalgia, penso, ma anche di commozione e gioia.

Si può dire senza paura di esagerare che Paolo ha fondato la Chiesa a Rajshahi, una grande città sulla riva del Gange. Dopo lunga esperienza in zone rurali e tribali, era approdato là su richiesta del Vescovo, con fatica. Negli anni ’70 la presenza visibile della chiesa cattolica in quella città si limitava ad un modesto ufficio della Caritas, frutto dell’iniziativa di p. Faustino Cescato, anche lui del PIME. Ma i cristiani presenti avrebbero dovuto far capo alla parrocchia rurale di Andarkhota, a 14 chilometri di distanza, cosa praticamente impossibile. Ad Andarkhota viveva e operava un’altra persona “appassionata”, suor Silvia Gallina – delle Suore di Carità di Maria Bambina, responsabile del dispensario medico della missione. Fu la sua “complice” in tante iniziative, a cominciare dagli ammalati, per allargarsi poi a bambini e giovani che non avevano possibilità di studiare, a famiglie che vivevano in ambienti malsani, e per sviluppare una serie di iniziative che in pochi anni diedero un’identità, un volto alla chiesa cattolica nella città.

Stava infatti crescendo il processo di urbanizzazione, che coinvolgeva numerosi tribali, tra cui molti cristiani, i quali erano vittime, nei loro villaggi, di soprusi e imbrogli per sottrarre loro le terre. Per questo, o semplicemente con la speranza di migliorare la loro vita, migravano a Rajshahi, dove erano costretti a vivere senza i riferimenti sociali e religiosi, e le tradizioni a cui erano abituati; perdevano perciò l’aiuto, il controllo, l’identità di cui potevano godere nei villaggi di origine. Molti dormivano in verande o sgabuzzini, sottopagati e sfruttati, alcuni si rovinavano con l’alcool… P. Paolo mi spiegò che il suo intento era di raccoglierli e formare comunità dove potessero ritrovare la loro dignità e identità, e anche accettare le novità e i vantaggi che la vita cittadina comporta. Per questo – mi disse – si ispirava a Mosè il quale, per dare consistenza al Popolo di Dio, lo aveva guidato attraverso il deserto, fra mille difficoltà e paure, fino a che ebbero una terra dove ebbero la possibilità di essere se stessi. Con questo sogno sullo sfondo, P. Paolo comprava terreni in varie zone ancora libere del territorio urbano di Rajshahi, e vi stabiliva gruppi di immigrati tribali: assegnava ad ogni famiglia una casetta molto semplice, con un palmo di terra per allevare galline e capre, con il compito di prenderne cura, e in ognuno di questi piccoli nuovi “quartieri” o – se si vuole – villaggi urbani, apriva una scuola elementare, una sede per le riunioni di comunità, una cappella. Nacquero – se non sbaglio – nove di queste piccole “terre promesse”, che diedero a p. Paolo tantissimo lavoro, tanti grattacapi e delusioni, ma anche tante soddisfazioni. Ora Rajshahi è sede di una diocesi; è dotata di una grande cattedrale, di un’ampia sede episcopale e un centro di pastorale e di comunicazioni sociali, tre parrocchie, diverse comunità religiose femminili, scuole, ostelli, un seminario a livello di college, un centro di assistenza malati… No, non ha fatto tutto p. Paolo! Ma è lui che ha dato il via ed è stato il motore che ha animato e sostenuto questa rapida crescita per tanti anni.

Arrivò poi il momento di staccarsi anche da questa sua creatura, dalla parrocchia di Rajshahi. Ci furono proteste e anche turbolenze da parte di molti parrocchiani, che volevano tenerlo per sé; p. Paolo ci soffriva, ma in occasione di una mia visita come superiore regionale fu lui a spiegare in assemblea che doveva andare, era bene, e voleva farlo. Partì alla chetichella, senza cerimonie, per evitare problemi!

Nella sua nuova destinazione, a Moeshpur, fu assistente del parroco p. Pier Francesco Corti, che aveva trascorso a Rajshahi i primi cinque anni del suo impegno missionario proprio con lui, come suo assistente. L’amicizia e la stima che avevano l’uno per l’altro resero possibile questo scambio di ruoli, di solito molto difficile. Anche là, però, Paolo non si risparmiava e non riusciva a riguardarsi come avrebbe dovuto; la salute continuò a deteriorarsi, finché fu coinvolto in un incidente automobilistico che provocò ad una gamba gravi fratture, mal ricomposte con un’operazione. Sperando di migliorare per poi ritornare, accettò di venire a Lecco, nella comunità PIME per missionari anziani e ammalati. Chi lo conosceva pensava con pena che non si sarebbe adattato alla vita comune, e a un ritmo opposto a quello iperattivo cui era abituato. Ci stupì tutti, accettando la nuova condizione non solo con pazienza, ma senza perdere entusiasmo e buon umore, e sottolineando gli aspetti positivi della nuova situazione.

Tanti, ma proprio tanti lo piangono in Bangladesh, riconoscendo che ha cambiato la loro vita perché ha aperto per loro e con loro, strade che mai avrebbero potuto percorrere senza di lui. Anche a chi è stato opportunista e ha approfittato della sua generosità, il suo “cuore puro” ha dato testimonianza di un amore appassionato, e della misericordia che il suo Maestro, Gesù, ha raccomandato ai suoi discepoli.

Franco Cagnasso

Monza, 13 novembre 2022

1 pensiero su “Paolo

  1. Luigi e Angela misero al mondo sette figli.
    Paolo, il secondogenito, fu subito speciale.
    Dopo la quarta elementare annunciò in casa che lui doveva diventare prete e quindi doveva andare in seminario, che però cominciava con la prima media. Tale era l’urgenza della vocazione che frequentò la quinta elementare nel preseminario di Don Folci, a Valle di Colorina, un paesino sperduto in Valtellina.
    Mamma e papà provarono a dissuaderlo.
    Come si fa a uscire di casa a dieci anni? E’ una cosa che ti spezza il cuore.
    La vinse lui. Era troppo felice!
    Andavamo a trovarlo a settimane alterne: mamma, papà e uno di noi a turno, rannicchiato su un cuscino posticcio fra papà e il manubrio della moto.
    A Valle di Colorina c’era solo il preseminario che accoglieva bambini delle elementari. Il seminario dei ‘chierichetti dei papi’ era a Roma. I seminaristi-bambini facevano i chierichetti nelle mille messe in San Pietro.
    Noi non si poteva più andare a trovarlo. Roma era troppo lontana.
    Paolo tornava a casa tre volte l’anno, per pochi giorni. A Natale, Pasqua, in estate.
    Noi cinque fratelli (saremmo stati sette qualche anno dopo) eravamo ancora bambini. Non festeggiavamo i suoi ritorni. I bambini non hanno il senso del tempo. Non c’era niente da festeggiare, quando tornava. Per noi non era mai andato via.
    Con il passare degli anni capimmo che, invece, non era mai tornato.
    Agitava in noi e dentro di sé emozioni forti; ma, in mille addii, mai i suoi occhi luccicarono di lacrime. Arrivava felice e felice ripartiva.
    Un’unica volta colsi un sussulto di commozione. Paolo, missionario del PIME, tornava dal Bangladesh ogni sette anni. Quella volta mamma era già molto avanti negli anni e tutti eravamo angosciati da un pensiero che nessuno osava palesare. Quello poteva essere l’ultimo abbraccio di nostra madre al figlio prediletto. Fu un saluto rapido. Paolo si incamminò a passi veloci verso l’auto che l’aspettava e non si voltò, come invece usava fare, sorridendo per un ultimo ‘ciao’ con la mano. Mamma, impietrita, lo seguì con lo sguardo. Lei sì con gli occhi pieni di lacrime. Poi non fu così. A distanza di quindici anni fu lui a chiudere gli occhi di nostra mamma. Può capitare che il Padreterno, anche lui si lasci prendere la mano.
    Una volta scherzai con Paolo sul concetto di vocazione. Gli chiesi se gli era successo come a Giovanna d’Arco, che ‘sentiva le voci’. Davvero nel suo caso la chiamata era evidente, riconoscibile da più segni. Quasi palpabile. Lui era stato chiamato con voce forte e chiara, sulle frequenze misteriose dei predestinati. Parafrasando il passo del Vangelo: “in principio erat verbum”, gli dissi che secondo me si poteva declinare anche in un modo più contingente.
    “Ci fu un uomo mandato da Dio il cui nome era …Paolo.”
    Paolo da Montesiro.
    Si fece una delle sue risate schiette e mi disse: ”Non andrai all’inferno solo perché dici bestemmie per scherzo. Fai il bravo, per favore, o dovrei darmi da fare parecchio nel caso che, al dunque, ti mancasse qualche punto per la sufficienza. Non sarebbe Paradiso se mancasse anche uno solo.”
    Oggi che lui muore, molti bengalesi e tanti altri che lo hanno conosciuto giurano di aver incontrato un uomo mandato da Dio, il cui nome era Paolo.
    Per questo, oppresso dal dolore e incalzato dall’affetto, le spalle piegate dallo spavento, voglio sussurrare un’ultima eresia: non preghiamo per lui, preghiamo lui. Come si conviene quando il Padre chiama a sé un uomo giusto.
    Gli eroi dovrebbero morire sul campo, nella pienezza dell’azione, del vigore e del coraggio. Credo sia il loro sogno, giusto suggello alla missione compiuta. Se lo sono meritato. Magari il Comandante in capo dispone diversamente. Chiudere la propria vita eroica in una RSA, accettano serenamente quello che s’é deciso …”là dove si puote ciò che si vuole”, non è una mortificazione per quello che si è stati e che si ha rappresentato, è un eroismo ulteriore. Consummatum est! Il compimento! Io sono onorato, orgoglioso e spaventato di essere indegnissimo fratello di Paolo da Montesiro.

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