Mentre ero in Italia, quanto accaduto ha spinto molti amici e persone care a suggerirmi di non ritornare in Bangladesh, almeno non subito, e a consigliare insistentemente prudenza.
Sono sinceramente grato a tutti loro, e commosso, e posso assicurare tutti che non ho certo il gusto di andare a cercare i pericoli o sfidare i rischi. Qualcuno s’è spinto un passo oltre, e m’ha detto che prega per noi perché abbiamo coraggio, e possiamo fare qualche
cosa di bello anche in queste condizioni. Spero che questo sia il pensiero di tutti, anche se inespresso. Le persone a cui il Signore ci ha mandati come missionari non hanno bisogno di inviti alla prudenza, perché di preoccupazione ne hanno già per conto proprio.
Hanno bisogno di non sentirsi abbandonati, e di essere aiutati a guardare oltre “coloro che possono uccidere il corpo”, per riscoprire la forza mite e piena di amore che ci viene dallo Spirito del Signore Gesù. La diversità e la bellezza del Vangelo possono ora risplendere.
Archivio mensile:Luglio 2016
Madrasse?
S’è detto e scritto molto a proposito delle migliaia di madrasse (scuole coraniche) che negli ultimi decenni sono state organizzate e finanziate da Paesi del Golfo per re-islamizzare i bengalesi, considerati musulmani all’acqua di rose e contaminati dal paganesimo. Ho spiegato questo fatto in varie “Schegge”, esprimendo la convinzione che stiamo ora assaggiando i frutti amari di questo lavoro, e ci troviamo con una generazione giovane che include molti seguaci di un Islam chiuso e intransigente, in qualche modo nuovo per questo Paese. Sinceramente, pur temendo che potesse accadere qualche cosa di grosso, non avevo pensato che gli autori potessero essere giovani di famiglie ricche, che hanno studiato non in queste madrasse, ma in prestigiose università private e internazionali. La strage dell’1-2 luglio scorso ci apre gli occhi su questa realtà inattesa, e suscita mille domande. Fonti che penso siano attendibili hanno messo in giro la notizia che sarebbero circa 300 gli studenti universitari e i giovani laureati che – in quest’ultimo anno – sono scomparsi. Le loro famiglie hanno pensato a rapimenti per avere il riscatto (ne succedono tantissimi), ma nessuno ha chiesto soldi. La polizia dice di essere alla loro ricerca, e sospetta che un punto di riferimento per loro si trovi in Malaysia. Ma si brancola nel buio, sapendo che 300 giovani fanatizzati così profondamente sono davvero tanti, e possono fare danni enormi.
Mi pare che questo aspetto della situazione, finora sottovalutato, non sia da pensare come una specie di smentita al discorso della formazione data nelle madrasse finanziate dall’estero. Le madrasse hanno fatto e fanno il loro lavoro, su cui nessuno è veramente informato in modo soddisfacente. A queste si aggiungono le violenze dei fondamentalisti nelle università, che non sono state né poche né leggere in questi anni. Forse le abbiamo sottovalutate perché non erano solo loro i violenti e i prepotenti, ma anche i giovani del partito al potere, e dell’opposizione; per cui tutto lasciava pensare solo a colossali (e spesso mortali) risse fra studenti. Ora ci ricordiamo che tutte le forme più radicali di ideologie totalitarie e violente, in ogni tempo e in ogni paese, hanno avuto ai loro vertici persone istruite, con tanto di “cattivi maestri” nel mondo universitario. E poi entra in campo il fattore “internet”. Che purtroppo ha aperto la porta non solo alle meraviglie della “telemedicina” (tanto per ricordarne una), ma anche ai pericoli del “telefanatismo”, il fanatismo diffuso via etere. Madrasse dunque, e università, e internet.
Umorismo consolatorio
Circola in questi giorni questa storiella. Una giovane coppia viene avvicinata da un terrorista che intima al marito di recitare versetti coranici per dimostrare di essere musulmani e sfuggire alla morte. L’uomo si guarda attorno smarrito, poi prende coraggio e recita alcuni versetti biblici. “Va bene, potete andare. Ma tu – dice il terrorista alla donna – vesti la burqa altrimenti la prossima volta non la scampi”. Mentre tirano il fiato riprendendosi dalla paura, lei chiede: “ Ma ti rendi conto che invece del Corano hai recitato la Bibbia? Come hai fatto?” “Sapevo – risponde lui – che se sono terroristi è perché non conoscono il Corano”.
Perdonateci
C’è tanta polizia, e ci sono capannelli di persone dall’aria mesta nel tratto di strada che conduce al luogo,ormai tristemente famoso, dove il terrorismo di radice islamica ha massacrato nel nome di Allah 22 persone, fra cui 9 italiani e 7 giapponesi. Il locale è
devastato, danneggiata è anche la clinica che lo fronteggia nello stesso giardino. Qualcuno ha portato fiori, e fra essi campeggia una corona anonima, con due parole sul nastro: “Forgive us” – Perdonateci. Credo che esprima il sentimento dominante, o comunque molto intenso, che pervade tanti bengalesi dopo la strage. Stupore, incredulità, paura, preoccupazione per sé e per il Paese, e anche la sensazione che quei giovani di buona famiglia, ubriachi di potere e di una fede impazzita, uccidendo stranieri che abitavano e lavoravano qui, discriminando fra musulmani e non, abbiano anche violentato il Bangladesh e l’immagine che ha di sè. La percezione della realtà ora è diversa, e piena di disagio: siamo capaci di questo? Si vorrebbe pensare che non è vero, si vorrebbe trovare una causa precisa, ma non la si trova. Ci si vergogna di se stessi, mentre non si sa rispondere alla domanda che è in tutti: e poi?
Le stesse sensazioni e domande si trovano fra gli espatriati che si trovano qui; s’è dissolto un clima che, nonostante i recenti attentati mortali a singole persone di svariate minoranze, rimaneva ancora fiducioso, convinto che qui in Bangladesh le cose sono
diverse, e vanno meglio che altrove.
Passa e ripassa nella mente l’immagine del giovane Faraaz Ayaaz Hossain. Intrappolato dai terroristi insieme agli altri, poi liberato perché aveva saputo recitare parti del Corano. Poteva andarsene, ma è rimasto a condividere la sorte di due amiche, trattenute
perché vestite all’occidentale, ed è stato ucciso insieme a loro. La sua mamma ha commentato: “Conosco mio figlio: se non lo avesse fatto, non avrebbe potuto perdonarsi, per tutta la vita”. Anche lui un giovane “di buona famiglia”; anche lui bengalese, anche
lui musulmano. E ora, quasi un balsamo che attenua l’angoscia per le atrocità di cui siamo testimoni.