Un giovanotto di un villaggio vicino va a Kurigram dal calzolaio per far gonfiare il pallone; accidentalmente uno schizzo di liquido per lustrare le scarpe gli sporca la camicia. Conseguenza? Una rissa colossale che coinvolge 2 villaggi, con 150 feriti, di cui 17 ospitalizzati, e almeno 50 (cinquanta) case incendiate insieme ad un pulmino, 6 tricicli elettrici e cinque riksciò, mentre la polizia accorsa spara 65 bombe lacrimogene e arresta 28 persone… Nello stesso giorno, il primo agosto, un quotidiano riferisce anche di un altra località, dove si lamentano un morto e 10 feriti a seguito di un disaccordo sul luogo dove tenere la grande preghiera della festa Id-ul-Fitr. Tre giorni prima, due morti e molti feriti in una cittadina di provincia per una rissa nell’acquisto dei biglietti del treno prima delle feste.
Ci sono i casi “seri”, vere e proprie battaglie per questioni di proprietà delle terre; ma ci sono anche queste improvvise fiammate, in cui persone normalmente tranquille e gentili perdono completamente il controllo, e si lotta alla morte senza neppure sapere perché. I giornali ne parlano soltanto quando ci scappa il morto, o quando i feriti superano la cinquantina, o quando il traffico viene bloccato per ore. Non solo nei villaggi! Un universitario che fa una battuta su una ragazza dell’altra università è una scintilla per lotte che durano giornate intere e sfasciano aule. Quando si chiede loro il motivo, spesso la risposta non arriva: pura solidarietà di gruppo: se sei dei miei, certamente hai ragione…
Archivio mensile:Agosto 2014
Pause
Mesi fa hanno iniziato a costruire una piccola moschea a tre-quattrocento metri di distanza dalla nostra casa a Dinajpur. Come sempre in questi casi, a fianco della strada dove sta sorgendo, hanno piazzato un tavolino, qualche sedia, un registratore con megafono dove persone di buona volontà si alternano nell’invitare i passanti a lasciare un’offerta. Tutto bene. Il problema è che il registratore funziona ininterrottamente dall’alba fino a sera, e – pur lontani come siamo – ci ritroviamo la casa inondata di canzoncine, filastrocche, racconti, e poi ancora canzoncine, filastrocche e racconti, e poi ancora canzoncine… sempre uguali. Per essere giusti non dovrei dire “ininterrottamente”, perché quando risuona, cinque volte al giorno, il richiamo alla preghiera, l’altoparlante tace per non soverchiare il richiamo e poi per lasciare il tempo di pregare senza disturbo. In queste condizioni, credo che anche un ateo privo di dubbi ammetterebbe che pure la preghiera ha una sua utilità…
Canton
Ci ha lasciati in punta di piedi il 29 luglio, nella casa di Lecco dove risiedeva da qualche anno, il fisico in buone condizioni, la mente colma di ricordi vivi ma disordinati, quasi sempre spersa a ricercare la sua vita passata in Bangladesh.
Ha vissuto e lavorato in Pakistan (poi Bangladesh) per 57 anni, realizzando un numero imponente di opere varie: scuole, dispensari, parrocchie…
Ma non solo costruzioni! L’arcivescovo di Dhaka, un religioso, diceva: “Ho capito la vocazione del prete diocesano conoscendo p. Canton, il suo attaccamento alla parrocchia, il pensiero costantemente rivolto alla sua gente. La mattina era lui a suonare la prima campana e poi andava in chiesa, a pregare e aspettare che arrivassero i fedeli. Noi religiosi “lasciamo” la comunità per dedicarci alla pastorale, per lui la pastorale era tutto: impegno, comunità, famiglia.”
A volte burbero e spiccio, autoritario, decisionista, sapeva trattare con chiunque e aiutare tutti, anche se parlava un bengalese che noi, per prenderlo in giro, chiamavamo “cantonese”. Nel difficile periodo della guerra e del dopoguerra la sua autorevolezza venne riconosciuta da tutti e fu utile a molti. Aveva il gusto della competizione: se p. Gerlero costruiva un ostello a Bonpara, lui doveva costruirlo più grande a Borni, se un altro spendeva poco per comprare il riso, lui doveva riuscire ad averlo a meno ancora. Competizione benevola, un po’ sbruffona, che favoriva le battute e l’amicizia con tutti.
Sempre ottimista e infaticabile; p. Quirico Martinelli scrive rivolgendosi a lui: “Mai Paura! Era la tua frase ricorrente… Di fronte ai guai e ai fallimenti (e ne hai avuti anche tu, senza farlo sapere troppo in giro…) riprendevi di nuovo come se niente fosse, senza scoraggiamenti e lamenti. “Mai paura” e forse aggiungevi nel tuo cuore ” Il Signore c’e’ ! “. Sei stato il mio primo Parroco. Ero arrivato dall’Italia che avevo 25 anni, tante idee, tanto entusiasmo, ma un giovincello senza esperienza. Mi hai insegnato prima con l’esempio che con le parole (non facevi tanti discorsi) a lavorare sodo per il Signore, senza perder tempo, e ad amare la gente. Gente semplice ed insieme difficile, che tante volte ti faceva arrabbiare: allora gridavi, tanto che ti sentivano anche al di la’ del fiume… e io accorrevo pensando che fosse successo chissà che cosa e invece niente, erano problemi normali, di tutti i giorni. La gente ha però un sesto senso per capire che erano parole che venivano dal cuore e ti voleva bene: avrebbe fatto qualunque cosa per te.”
Qualche volta mi disse: “Fra poco lascio, torno in Italia in una parrocchietta di montagna nel mio Friuli, dove stare finalmente tranquillo”. Gli rispondevo: “Canton, quella parrocchietta non esiste, non è stata ancora inventata…” Infatti, ha lasciato il Bangladesh proprio contro voglia, solo quando la mente ha incominciato a tradirlo.
Mi piace pensare che, arrivato in Paradiso, abbia subito detto: “Date un’occhiata giù, alla svelta: quando c’ero io certe cose non succedevano, hanno bisogno di aiuto. Ascoltate me e mettiamo a posto tutto…” Speriamo che lo ascoltino!
Messaggio bis
“Ciao Franco, come stai? Sono andato a leggermi le ultime “Schegge del Bengala”, mi sembrano un po’ calate o sbaglio? Poi cos’è questa storia del “bicchiere d’acqua’ soltanto? Hai problemi di salute o è solo una meditazione sulla morte, tipo quelle che si facevano durante gli esercizi spirituali? Ti spero in salute, seppure un po’ invecchiato (ma quello capita anche a me)”.
Così m’ha scritto un amico, riferendosi alla “Scheggia” intitolata “Messaggio”, andata in rete il 16 giugno scorso. Parlava di Naomi, la volontaria giapponese che dirige la Comunità dell’Arche, e della sua gioia perché dopo vari anni finalmente un loro ospite era riuscito a bere da solo un bicchier d’acqua. La Scheggia concludeva così: “Ora che gli anni aumentano e l’attività inevitabilmente deve calare, trovo il “messaggio” di Naomi di straordinaria verità. Fra non molto potrò soltanto offrire un bicchiere d’acqua e nient’altro. Forse neppure potrò offrirlo, ma solo riceverlo; ma anche allora sarà possibile uno sguardo di riconoscenza, che accolga e offra il volersi bene”.
Ho risposto al mio amico che ha ragione, le Schegge sono sottotono, perché ho attività sempre più disparate che sembrano sfuggire al mio controllo. A volte mi sento assalito da mille cose e cosucce che soffocano la possibilita’ di guardarsi intorno con calma, di annotare un’osservazione che viene in mente… il tutto, ovviamente, aggravato dal fatto che con l’eta’ la fatica si fa sentire e la “produttivita’” diminuisce drasticamente.
Ma vado avanti perché l’ho promesso a Maria, una nuova amica per corrispondenza che mi ha scoperto proprio attraverso quello che scrivevo.
Gli ho anche scritto che il riferimento al “bicchier d’acqua” non è frutto di un momento di cattivo umore o di un pio esercizio spirituale, ma “è un mio pallino non certo recente. Se sfogli il mio libro: “La forza della debolezza” (EMI) vi trovi un articolo dedicato ai missionari che non sanno invecchiare, che non accettano di dover essere aiutati: è una debolezza grande, camuffata da forza eroica. Tanti anni fa un amico con cui mi trovavo ogni tanto ad accompagnare un handicappato mi disse: “Se dovessi finire come lui, mi ammazzerei”. La cosa mi fece riflettere molto. Ci vidi una specie di involontaria inautenticità: assistere, aiutare, scherzare, ma in fondo pensare che quella vita sarebbe meglio non viverla! Da allora ho spesso riflettuto sull’ipotesi che a me succeda qualcosa del genere (chi sono io perche’ non debba succedermi?), e non vorrei essere aiutato da gente che pensa che farei bene ad ammazzarmi. La conversazione con Naomi non ha fatto che farmi ritrovare gli elementi di questa riflessione che, come ho detto, sono anche alimentati dall’esperienza quotidiana con confratelli “eroici” che mai ammetterebbero di aver bisogno di un bicchier d’acqua, e che pretendendo di non essere di peso – diventano pesantissimi. E allora sì, anche se può suonare mestamente, non trovo nulla di male se a 70 anni di età si prende atto che la direzione in cui camminiamo è quella, e ringraziare Dio perche’ ci sono persone come Naomi che trovano la pienezza della loro vita anche solo nel sostenere il bicchiere di uno spastico… Assieme a “eroi” rompiscatole si trovano anche anziani e ammalati che sono davvero un ristoro per la mente e lo spirito, nonostante i loro acciacchi: vorrei tentare di essere uno di loro, preparandomi per tempo”.
Ed ecco la sua risposta: “Bene, sono contento dell’interpretazione del bicchiere d’acqua. Riprendi ciò che mi hai scritto, togli tutti i riferimenti personali e scrivi un’altra bella scheggia di riflessione, tipo: “Ritornando sul bicchiere d’acqua di Naomi”. Ho trovato molto bello ciò che scrivi. Mio nonno, passando davanti al cimitero, mi diceva sempre: “Vedi, tutti questi si credevano indispensabili”. E’ una frase che mi accompagna spesso. Di “bicchieri d’acqua” donatami da altri ne ho bevuti parecchi in questi anni; qualche piccolo bicchiere l’ho sporto anch’io. Stai tranquillo, Franco. Saprai invecchiare serenamente senza rompere le scatole … Continua a scrivere Schegge, anche quelle sono i tuoi “bicchieri d’acqua” e si possono scrivere anche a novant’anni (sempre che ti regga la testa… ma te l’auguro). Ti assicuro che fanno bene, sono una sorsata di acqua pura … Un lettore come vedi è assicurato. Stammi bene”.
Gli ho dato ascolto, come vedete.