L’inflazione c’è, i prezzi aumentano, dopo la scomparsa dei centesimi, ora vanno scomparendo le monete da una taka. Al villaggio, qualcuno incomincia a cercarle, e per averle è disposto a pagare anche 2, poi 5, poi 10 taka… Alla fine, si confida con un amico fidato, rivelandogli sotto segreto di aver saputo che le monete da una taka sembrano valer poco, ma il governo le usa come deposito nascosto: in superficie c’è uno strato di metallo senza valore, che copre un metallo preziosissimo all’interno. La notizia si sparge in un baleno, i prezzi vanno alle stelle, le monetine sono introvabili. Quando la faccenda si sgonfia, sono pochi i fortunati che non ci sono cascati, golosamente intascando una moneta da una taka in cambio di 1.500 taka…
Archivio mensile:Ottobre 2016
Armando Diaz
Fortuna: non faccio in tempo a girare l’angolo che arriva Projapoti (Farfalla), l’autobus più comodo che collega la casa del PIME alla nostra parrocchia. Salendo do un’occhiata all’autista; pare un quindicenne ma, come tutti sanno, io non indovino mai l’età del prossimo. Il traffico è ancora poco, e il giovanotto guida baldanzosamente zigzagando con il vecchio autobus come fosse una bicicletta; taglia la strada, si ferma per raccogliere passeggeri bloccando sfacciatamente tutti i veicoli che lo seguono, ci sconquassa con riprese da Formula 1 e frenate da brivido. Dai e dai, riesce a urtare l’angolo anteriore sinistro di un altro autobus, guarda caso un altro Projapoti. Inizia una corsa da film americano, con spinte laterali, fiancate sbombate, spesse schegge di vernice che volano. Un passeggero redarguisce l’autista, finchè i due autobus sono costretti a fermarsi fianco a fianco, allora cambia partito: gli autisti tacciono, mentre i passeggeri si insultano attraverso i finestrini, ciascuno prendendo le parti del suo veicolo. Si riparte, poi di nuovo tutti bloccati: questa volta noi siamo dietro, e il posto strategico ci permette di dare una botta decisa alla parte posteriore del nemico. Gli autisti sempre zitti, ma scendono gli aiutanti, ad azzuffarsi. Poi calmo, lento, dall’autobus avversario emerge un distinto signore in giacca con uno stemma che (pare) è il logo di Projapoti. Si accosta al nostro autobus, sale, dà un robusto ceffone all’autista, e senza dire una parola se ne torna al suo posto. Il giovanotto incassa, aspetta che l’autobus vincitore riparta e scompaia all’orizzonte, poi riparte pure lui con guida prudente, lentissima, gentile, direi “dolce”. C’è aria di mestizia, nessuno fiata anche se si va a lumaca. Guarda un po’ – mi torna alla mente il “Bollettino della vittoria” scritto dal generale Armando Diaz alla fine della prima guerra mondiale. Nelle scuole tutti gli anni, il 4 novembre lo ascoltavamo proclamare che le truppe nemiche, umiliate e sconfitte, stavano risalendo in disordine “le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza” (diceva proprio così, lo ricordo bene). Ora il povero giovanotto è “umiliato e sconfitto”. A tutto vantaggio delle ossa dei passeggeri.
Depositati
Muhammad Nasar è un ingegnere di 28 anni, con un buon posto di lavoro vicino a Chittagong. Nove anni fa suo padre, che gestiva una piccola farmacia, si ammalò gravemente e rimase a lungo in ospedale prima di morirvi. Fu allora che Nasar, mentre si prodigava per accudirlo, si rese conto delle condizioni in cui si trovano i pazienti “sconosciuti” nel “Medical College” di Chittagong. Vittime di incidenti, risse, malori e altro, vengono depositati sul pavimento di una corsia, senza che nessuno si prenda cura di loro, neppure per una prima medicazione; nessuno che avverta i parenti, quando il ricoverato non è in grado di parlare e farsi valere. Nasar incomincia ad accostare uno di loro, poi un altro, e un altro ancora… si dà da fare “costringendo” infermieri e medici a prenderli in considerazione, chiama i famigliari, si entusiasma quando vede un miglioramento, una guarigione… Nell’ospedale si sparge la voce che da qualche parte c’è un giovane che si occupa degli abbandonati, e le richieste di aiuto si moltiplicano. Medici e polizia, insospettiti, pensano che si tratti di un ladro o ci sia sotto qualche imbroglio; ma poi incominciano a fidarsi, e ora loro stessi lo cercano quando arriva qualche paziente senza aiuti. Lui continua, mettendoci energie e tempo dalle 6 del pomeriggio, appena finisce il lavoro, fino alle 11 di sera. Il suo sogno è vedere qualcun altro che prende a cuore, disinteressatamente, queste persone che soffrono; ha aperto un website per facilitare l’identificazione dei pazienti, e incoraggiare chi vuol fare qualche cosa. www.mdnasar.org
Ucciso
Il 30 agosto i quotidiani del Bangladesh informano che un certo Khaled Hasan, alias Badar Mama, è stato ucciso, insieme ad un complice, durante uno scontro a fuoco con la polizia in località Sherpur, provincia di Bogra. Khaled sarebbe uno dei capi dell’organizzazione terroristica “Neo JMB” (Nuovo Jamahatul Mujahidin Bangladesh), rinato dalle ceneri del JMB che all’inizio del 2000 organizzò assassini e stragi per alcuni anni, fino a che i loro capi, fra cui il famigerato Bangla Bhai, vennero impiccati. Khaled, come comandante militare della zona nord del Bangladesh, aveva organizzato ed eseguito diversi azioni terroristiche, fra cui l’attentato a p. Piero Parolari a Dinajpur, l’esplosione di bombe ad una festa e a un tempio hindu, l’assalto con rapina ad un distributore di carburante. Secondo la polizia, una pattuglia sarebbe stata informata che era in corso una riunione di terroristi nella notte fra il 28 e il 29 agosto. Accorsa sul posto, era stata accolta da colpi d’arma da fuoco cui aveva risposto uccidendo i due uomini. Dal primo luglio scorso, giorno dell’assalto al ristorante di Dhaka, in cui persero la vita anche 10 italiani, sono una quindicina i presunti terroristi uccisi dalla polizia, e fra loro anche la “mente” e l’organizzatore di quell’assalto. Cinquanta gli arrestati, fra cui numerose donne. Molti giovani sembra siano stati “radicalizzati” all’inizio da predicatori locali, e poi all’estero, specie in Canada e in università in Malaysia.
Il mio Bangladesh e il Papa che vuole visitarci
Dunque sul volo di ritorno da Baku e parlando dei prossimi viaggi apostolici la parola «Bangladesh» sembra sia quasi sfuggita al Papa, in associazione – come spesso accade – alla ben più nota e rilevante parola «India». Nessun giornalista l’ha raccolta, ma resta il fatto che – salvo smentite – l’anno prossimo Francesco verrebbe a visitarci.
Sarebbe bello!
Il ricordo delle poche ore di visita di Giovanni Paolo II nel 1986 qui in Bangladesh è ancora vivo; lo abbiamo ripreso quest’anno quando i preti ordinati da lui in quell’occasione hanno celebrato il loro trentesimo.
Sono cambiate tante cose, da allora. Il Paese è in fase di decisa crescita economica, la Chiesa cattolica è passata da 4 a 8 diocesi, e ha indubbiamente consolidato e collaudato organizzazione e strutture per andare avanti con le proprie forze, mentre il numero dei missionari si è assottigliato e la loro presenza fra non molto sarà quasi invisibile. Abbiamo persino inaugurato da poco un’«Università cattolica»!
I cattolici qui sentono in maniera molto forte il senso di appartenenza ad una realtà piu’ vasta, formata da tante chiese che fanno capo alla chiesa di Roma, e una visita del «capo» certamente li incoraggia.
Forse prima ancora che nella fede li incoraggia nella fierezza: ci siamo anche noi, e se qui siamo una piccola minoranza, nel mondo siamo una forza…
Al Papa i cattolici del Bangladesh vogliono bene, ma la sua opera ci raggiunge come un’eco lontana e smorzata. Per quel poco che lo si conosce, piace, risulta simpatico, e i vescovi si sforzano di far passare i messaggi fondamentali delle sue lettere e dei suoi messaggi. Piace la sua attenzione ai poveri, la sua semplicità; piacciono molto meno – anche se nessuno osa dirlo forte – i suoi interventi (così come vengono colti qui) a favore dell’accoglienza ai musulmani e – sembra un paradosso – anche ai migranti in genere. Dico «paradosso», perché anche fra i cristiani non sono pochi i «clandestini» e ancora recentemente – nonostante attentissimi controlli di vescovi e ambasciata – alcuni sedicenti pellegrini si sono squagliati nella folla di Roma e non hanno fatto ritorno.
Perché l’accoglienza li preoccupa? Non sono sicuro di capirlo bene, ma penso che si tratti di un timore analogo a quello di molti in Europa, che vedono la propria identità (vera o presunta) in pericolo; e se molti musulmani considerano le migrazioni come l’occasione offerta da Dio per islamizzare quel continente, i cristiani temono che sia proprio così, però non per grazia di Dio, ma per l’ingenuità e la debolezza degli europei, e anche del Papa (che – dicono – è sudamericano e quindi conosce ancora meno i musulmani). Questo e’ il sentire «di pelle» della gente, e anche il commento più esplicito di parecchi preti e qualche vescovo. Quasi quasi, fa piacere che il terrorismo abbia colpito anche il Vecchio Continente: chissà che le bombe riescano a svegliarlo e a renderlo più guardingo e forte?
Se il Papa verrà, comunque sarà una gioia grande, non solo per i cattolici ma per quasi tutti i cristiani e moltissimi indù e musulmani.
Persino l’Awami League, il partito di governo, sarà contento di far vedere quanto prestigio ha il Paese sotto la guida della sua inossidabile presidente, il primo ministro Sheikh Hasina… Qualcuno sarà preoccupato che tanta visibilità possa incattivire il fondamentalismo e anche il terrorismo, che recentemente hanno alzato la testa colpendo duramente. Non è da escludere che ci sia anche questo pericolo, ma val la pena correrlo: il Papa saprà certamente ascoltare anche l’espressione di questi timori, e dire parole di coraggio e di testimonianza cristiana che ci aiuteranno a ridimensionare le paure istintive e a vivere nella fede le paure che infondate non sono.
Saprà anche trovare parole che incoraggino atteggiamenti e scelte missionarie e pastorali, sempre a rischio di essere assorbiti dalle preoccupazioni organizzative, economiche, celebrative, di prestigio… Sì, anche in questa piccola chiesa abbiamo bisogno di ricordarci che le persone, specialmente chi è povero e soffre, e non le cose o i nostri programmi, sono al cuore del messaggio e della vita della chiesa.
Spero proprio che venga…