Viaggio – 5

Ci lasciamo alle spalle la strada a quattro corsie ben asfaltate, procedendo verso nord con tratti molto malmessi, altri in corso di rifacimento, e tanti ponti in costruzione. Il terreno in Bangladesh è quasi ovunque morbido, e il lavoro per costruire o asfaltare le strade è complesso: prima di tutto, quasi ovunque la strada deve essere sopraelevata di alcuni metri rispetto al terreno circostante, perché non finisca allagata alle prime piogge. Si sposta dunque un’enorme massa di terra, e poi si scava in profondità nella striscia sopraelevata, preparando il “letto” a vari spessi strati di sabbia e di terra, pazientemente spianati e compressi uno dopo l’altro, fino a mettere poi ghiaia di mattoni (o di pietra), anche questa da comprimere e spianare; e finalmente arriva l’asfalto; ma se si vuole un lavoro che duri a lungo bisogna ricorrere ai lastroni di cemento. Inoltre, se si tratta – come in questo caso – di allargare una strada già esistente, bisogna anche liberarsi delle case costruite sui margini: si demoliscono, o almeno si “affettano”, abbattendo la parte che dà fastidio, e recuperando in qualche modo il resto – se possibile.

Attraversiamo un’area dove si dice che venga prodotto il miglior “doi” di tutto il Bangladesh, poi prendiamo la circonvallazione nuova di Bogra, una città in crescita di cui ho parlato in una scheggia della serie “Charles de Foucauld”, perché vi ho trascorso quasi due anni(1981-82 se non sbaglio) con p. Achille Boccia e p. Gianni Zanchi. Cercavamo – nel linguaggio che si usava nel primo periodo del dopo-Concilio Vaticano – “vie nuove” per l’evangelizzazione, anche là dove non ci si poteva appoggiare ad una presenza cristiana cui offrire un servizio pastorale. A Bogra infatti c’era un’unica famiglia cattolica, e poche altre di diverse denominazioni cristiane; tutti erano hindu e soprattutto musulmani; stranieri non se ne vedevano. Qualcuno ci disse perplesso: che cosa andate a fare a Bogra, dove non c’è nessuno?

Quel tentativo ebbe vita breve per ragioni diverse, una delle quali era la mia incapacità ad agganciare rapporti basati soltanto sul desiderio di conoscersi e dialogare: suscitavo sospetti, o non riuscivo a smuovere l’indifferenza. P. Achille e p. Gianni riuscirono a combinare qualche cosa più di me, ma anche loro dovettero rinunciare: Achille per malattia, Gianni perché eletto superiore regionale del PIME in Bangladesh. Fu una ritirata un po’ triste, ma per fortuna non ci mancavano alternative; inoltre, in seguito venimmo a sapere che qualche piccola cosa era rimasta. Nel 1988 infatti, rimessa in sesto la salute, p. Achille riprese il discorso, con un’idea un po’ più precisa: organizzare un luogo dove i cristiani si riunissero a pregare, proprio in mezzo ai musulmani; pregare per loro e anche con loro, nell’intenzione e nella collocazione. Mentre si stava sistemando, gli capitò di incontrare uno dei giovani che era stato con lui volontario per aiutare le famiglie con disabili. Da lui seppe che, dopo la sua partenza, un medico a cui si rivolgevano per disabili ammalati, aveva chiesto come mai non si fosse più visto nessuno. Il giovane rispose che il Padre straniero era andato via, e questo fece riflettere il medico: “Perché stare con le mani in mano aspettando che ritorni uno straniero per fare ciò che dovremmo fare noi?” E in qualche modo diede continuità all’iniziativa che era stata forzatamente abbandonata, ma aveva lasciato, a nostra insaputa, un seme che era germogliato.

Achille affittò una casa (per la cronaca, un ex pastificio…) e si mise a disposizione per guidare ritiri spirituali. In Bangladesh allora non erano disponibili luoghi e strutture predisposte a questo scopo, e lui ne propose uno… assurdo: un ritiro spirituale in una casa qualunque, senza giardino in cui passeggiare, senza cappella bella e accogliente, in un quartiere dove non mancavano rumore e distrazioni, a due passi da “Sat Matha”, il punto più trafficato della città. Si fece autore, editore e diffusore di “Atma o Jibon” (Spirito e Vita), una rivista di spiritualità che scriveva tutta lui, a mano, in bengalese, mandandone fotocopie a chi era interessato. Trovò persone che desideravano e apprezzavano il suo impegno, ed ebbe richieste di guidare giornate o settimane di preghiera e ritiro per catechisti, seminaristi, suore e preti. Si trattava di una proposta originale non solo per il luogo, ma anche per il metodo, che comprendeva tra l’altro una meditazione passeggiando al bazar, e offriva prospettive inedite e stimolanti, che aiutavano a non considerare la vita spirituale semplicemente come una parentesi diversa, e un po’ astratta, rispetto alla vita “normale”, e anche a interiorizzare il fatto che noi cristiani siamo una presenza numericamente insignificante, ma che non deve chiudersi a riccio.

Poi Achille dovette di nuovo lasciare Bogra (1999) e p. Carlo Dotti, con l’aiuto di P. Francesco Rapacioli, continuò i programmi di ritiri. Ma le situazioni evolvono, ed era iniziata la “concorrenza” di altre strutture più comode e accessibili. I ritiri si diradavano, e con p. Dotti, poi p. Meli e infine p. Buzzi la casa divenne sede di un ostello per studenti in ricerca vocazionale, e un centro pastorale per i cristiani che gradualmente aumentavano di numero, venendo a lavorare nella città. Infine, il gruppo vocazionale venne trasferito a Dinajpur, e il PIME passò tutto quanto alla diocesi di Rajshahi, che vi manda un prete diocesano. Il servizio di doposcuola per i poveri che da anni si svolgeva tutti i pomeriggi venne trasformato in una vera e propria scuola elementare intitolata a S. Silvia.

Vorremmo passare a salutare p. Lipon, il giovane prete – mio ex alunno – attualmente residente lì, e sentire come va; ma entrare in città richiede tanto tempo, e dobbiamo rinunciarvi: con rammarico, si tira dritto…
(continua)

Viaggio – 4

CORREZIONE. Nella scheggia “Viaggio – 1”, ho scritto che siamo partiti da Dhaka sabato 16 gennaio 2021. Giusto. Nella scheggia “Viaggio – 2” ho scritto che siamo ripartiti da Zirani domenica 27 gennaio. Sbagliato. Siamo rimasti a Zirani soltanto una notte, perciò siamo ripartiti domenica 17 gennaio 2021, non il 27. Mi scuso e auguro a tutti… buon viaggio…

Oltre Mirzapur e l’ospedale Kumudini, si procede verso ovest sulla strada ora a quattro corsie, salvo qualche lungo tratto con lavori in corso. Molta campagna, villaggi, bazar, risaie a perdita d’occhio. Non sono al corrente di alcuna presenza di comunità cristiane in quest’area del Bangladesh. Dopo oltre un’ora, si arriva al Jamuna – nome locale del fiume che conosciamo come Brahmaputra (Figlio di Brahma). Scende dal nord, più a sud incontra il Gange e, insieme, i due fiumi formano il grande delta, una “ragnatela” di corsi d’acqua che sfociano nel golfo del Bengala.

Nel 1998 è stato inaugurato il ponte che collega le due rive del Jamuna, collegando le regioni est e ovest, via strada e per ferrovia. È un’opera di ingegneria molto complessa, lunga quasi 5 chilometri (4.800 metri), su cui tutto ciò che so mi è stato spiegato da p. Carlo Buzzi. Durante gli anni in cui veniva costruito, p. Carlo si coinvolse con maestranze e lavoratori stranieri e bengalesi, facendo loro da “cappellano”, non so se ufficiale oppure no, e scoprendone i “segreti”. Mi ha spiegato alcuni complessi problemi tecnici per la costruzione, soprattutto quello delle sponde. L’enorme massa d’acqua che scende dall’Himalaya, durante la stagione delle piogge erode le sponde sabbiose facendo crollare interi villaggi, forma nuove isole, muta i giochi delle correnti, e metterebbe gravemente a rischio la stabilità del ponte. È stato necessario un grande lavoro per consolidare le sponde, “fermarle” con muraglioni enormi; inoltre, con il fiume in piena si formano vortici profondissimi che possono “rosicchiare” il fondo al di sotto dei muraglioni facendoli crollare.
Perciò speciali barconi perlustrano le rive per identificare i gorghi e dare l’allarme a grosse chiatte, che accorrono per scaricare nei vortici blocchi di cemento e così “scombinarli” (linguaggio da incompetente, ma spero che sia chiaro) per impedire l’erosione. Anche i piloni sono costruiti con particolari accorgimenti che li rendono stabili nonostante il fondo sabbioso.

Oggi la nebbia ci impedisce di vedere il maestoso panorama del fiume, fino a qualche anno fa ingentilito dalle vele di barche da pesca e chiatte da trasporto che lo percorrevano, ora sostituite da motori. C’è acqua a perdita d’occhio o, nella stagione secca, grandi isole sabbiose che affiorano, in poco tempo coprendosi di verde brillante, dove povera gente dalle due rive si avventura per coltivare qualcosa o pascolarvi mucche – nella speranza che non arrivino impreviste violente piogge fuori stagione e tutto venga spazzato via…

Frequentando chi lavorava per il ponte, p. Carlo si interessò anche ai guardiani notturni delle numerose, piccole fabbriche di tessuti, tecnicamente ancora molto rudimentali, che si trovano oltre la sponda ovest del fiume. Si tratta di cristiani, che appartengono alla popolazione “Mandi” (chiamati anche Garo), e provengono dal nord est del Bangladesh. Uno dopo l’altro, hanno conquistato la fiducia dei proprietari, in qualche modo ottenendo il “monopolio” di questo poco ambito mestiere, per lo più lavorando lontani dalle famiglie, guardiani durante la notte e conduttori di riksciò durante il giorno. I Mandi gli dissero che volevano un prete con loro e che ne valeva la pena perché erano parecchi, un migliaio. Presto p. Carlo si accorse che in realtà si trattava di un centinaio di persone e non di più, ma non li volle deludere. Perciò aggiunse anche questo ai molti impegni che già aveva nella vasta area, quasi priva di cristiani, della missione di Gulta, diocesi di Rajshahi. Fra l’altro, aveva aperto e sosteneva piccole scuole in vari villaggi di aborigeni, e altre fra i poveri, fra cui molti fuori casta hindu, nel capoluogo Sirajgonj, cittadina sulla riva del fiume, sempre a rischio di venire inghiottita dalle sue acque… Una curiosità: a Sirajgonj p. Carlo si dedicò anche ai… defunti, “riscattando” con grande fatica e sistemando un cimitero cristiano lasciato dai coloni britannici e da decenni completamente abbandonato e indecoroso, che ora si presenta bene ed è un dignitoso testimone della storia, oltre che quasi una curiosità turistica.

Fuori città, a pochi chilometri dalla strada che stiamo percorrendo, p. Carlo diede vita ad un villaggetto dove i bambini mandi vanno a scuola, e pure gli adulti, da soli o con la famiglia, hanno un punto di appoggio. Poco lontano, su un altro terreno, ha costruito una chiesetta e spazi per incontri, catechesi, attività varie. Un “centro mandi”, piccola isola cristiana fra bengalesi hindu e musulmani.

Sarebbe bello passare a salutarli, si è sempre bene accolti; ma oggi proprio non possiamo. Proseguiamo in fretta per quasi un’altra ora, arrivando allo svincolo dove la strada si dirama verso nord, ovest e sud.

A questo punto è quasi automatico fermarsi al “Food Village” (Villaggio del Cibo) che, insieme al suo gemello posto a qualche chilometro verso nord, in Bangladesh è forse l’unica struttura di ristorazione paragonabile ai nostri “Autogrill”. Nelle ore di punta, anche in piena notte c’è una ressa incredibile di autobus e di passeggeri che approfittano del servizio di bar, ristorante, toeletta, vendita di ottimo “doi” (una deliziosa specie di yogurt), bancarelle con frutta, kebab, ecc. ecc. e da qualche tempo anche un caffè dalla macchinetta automatica che è il meglio della produzione locale. Perfino gli italiani, che in materia sono schizzinosissimi e si ritengono gli unici al mondo che sanno preparare un caffè degno di questo nome, quando lo assaggiano arricciano il naso, ma ammettono a mezza bocca: “Non è un caffè, ma si può bere”. Io non lascio scappare l’occasione per gustare uno o due “tanduri”, specie di piadine emiliane croccanti e leggere che, servite calde, sono ottime. Ma il timore che il Covid 19 sia in agguato nella ressa del Food Village è più forte della golosità, e questa volta Gian Paolo e io ci limitiamo al caffè automatico con bicchierino in plastica. Poi ripartiamo, prendendo la strada che va a nord.
(continua)

Viaggio – 3

Pochi chilometri oltre la scuola e l’ostello degli Avventisti, attraversiamo un bazar da dove si diparte una strada che percorsi anni fa, alla ricerca di una zona ancora afforestata dove, a quanto avevo sentito dire, si trovavano famiglie non cristiane e cristiane di varie denominazioni. Appartengono ad una popolazione in parte assimilata ai bengalesi – specialmente indù – insediatasi in ordine sparso in varie aree del Bangladesh. Le sue origini sono discusse, le tradizioni indebolite fino a scomparire; culturalmente, socialmente ed economicamente il gruppo è in gravi difficoltà.

Cercai la casa di una famiglia che conoscevo, e in breve tutti seppero che era arrivato uno straniero. Iniziò una raffica di inviti pressanti, perché ciascuno voleva esprimere la sua gioia e offrire un tè, per passare poi, senza altri preamboli, a richieste molto concrete e insistenti: riparazione della casa, terreno per una cappella (vorremmo proprio diventare cattolici!), cure mediche, scuola per i figli, acquisto di una mucca, e via chiedendo. M’indicarono anche una casa, un po’ in disparte, per visitare un’ammalata. Era sui vent’anni, debilitata, in condizioni che apparivano gravi. Mi assicurarono che aveva fatto diversi esami in vari ospedali, ma occorrevano soldi per farne ancora. “Potreste accompagnarla al nostro centro per i malati di tubercolosi”. “No, non ha la tubercolosi, dacci i soldi, ci pensiamo noi”. L’ammalata mostrò di ricevere volentieri una benedizione, poi telefonai a suor Berchmans, allora direttrice del Centro Assistenza Malati, che mandò l’ambulanza per portarla a Rajshahi (circa 100 chilometri di distanza), dove sapevo che avrebbero fatto le cose bene. In seguito, suor Berchmans mi disse che la giovane aveva rischiato di morire durante il viaggio, ma ce l’aveva fatta, ed effettivamente aveva una grave forma di tubercolosi ormai avanzata. Dopo pochi mesi stava bene e ritornò a casa.

Da allora la mia fama (!) si è diffusa, e ancora oggi, dopo oltre 10 anni, ogni tanto qualcuno telefona dicendomi che ci conosciamo benissimo, ci siamo visti proprio in quel giorno famoso, e ora lui o lei si aspetta… no, non una benedizione, ma che io l’aiuti con qualche donazione più concreta: se avevo aiutato allora, perché non anche adesso? Che cosa sono queste preferenze?… Molti pensano di aver diritto a ricevere aiuti economici, perché questo è “il mestiere” dei missionari – se così non fosse, perché mai vengono qui? E a quale scopo mio zio s’è fatto battezzare, mio cugino ha “confessato che Gesù è il salvatore” e il Pastore tal dei tali ha fatto riparare i tetti delle case a chi va nella sua chiesa? A parere non solo mio, l’approccio con questo popolo da parte dei missionari di diverse confessioni è avvenuto in modo concorrenziale e decisamente sbagliato, e pur non essendone l’unica causa, ha contribuito ad accrescere una mentalità passiva e dipendente, che non li ha aiutati affatto, e che ha reso i rapporti ambigui e difficili. Mi piacerebbe ritornare a quel villaggio, ma non lo faccio per non rinvigorire la “caccia”, che saltuariamente continua con ammirevole tenacia, nonostante tutti i miei “no”…

Più avanti, proseguendo su una circonvallazione, lasciamo alla nostra sinistra Mirzapur, la cittadina dove si trova una delle opere benefiche meglio organizzate ed efficaci che io conosca in Bangladesh. Si tratta del “Kumudini”: ospedale ampio e di buona qualità, con prezzi contenuti, scuola infermiere, e ora anche corsi di laurea in medicina. Kumudini è il nome di una donna che all’inizio del secolo scorso morì dando alla luce il figlio, Ranada Prasad Shaha. Di famiglia indù molto ricca, Shaha custodì in sé la pena per la morte della mamma che non aveva potuto conoscere, e decise di fare qualche cosa per migliorare i servizi sanitari del Bengala (allora parte dell’India e colonia britannica), specialmente per le donne. Creò una fondazione che 88 anni fa incominciò i suoi servizi con grande attenzione ai poveri.

Nel 1971, quando le opere della Fondazione erano parecchie e stimate, durante la guerra che portò il Bangladesh all’indipendenza l’esercito Pakistano sequestrò Shaha e suo figlio, e fino ad ora nessuno sa come e dove siano stati uccisi. Era la “politica” del Pakistan: battere la rivolta decapitando il Bengala dei suoi uomini migliori. Ma la fondazione è sopravvissuta grazie all’impegno di altri famigliari, e ora gestisce diversi ospedali, scuole, ostelli femminili, e centri di ricerca in varie parti del Paese. La più recente iniziativa è un nuovo ospedale a sud di Dhaka, con trecento letti e una sezione specializzata per cura e ricerca sui tumori, con 50 posti.

L’ambiente e l’atmosfera al Kumudini sono aperti, professionalmente buoni, attenti alle persone. I corsi per infermiere e infermieri sono considerati ottimi. Fratel Joseph Aind, missionario del PIME ora in Cameroun, li ha frequentati anni fa come parte della sua preparazione, e ne è rimasto soddisfatto – non solo perché circondato da ben 70 studentesse… Pure chi non può pagare è ammesso: rimborserà lavorando, non ricordo se per due o tre anni, con stipendio ridotto al Kumudini stesso. Fra le studenti, sono numerose le suore e giovani cristiane, a cui viene dato spazio per vita comune, preghiera, celebrazione domenicale della Messa – responsabilità che ultimamente è ricaduta proprio su p. Gian Paolo, che viene spesso qui a celebrare o per accompagnarvi ammalati.
(continua)

Viaggio – 2

Per fortuna ci siamo attrezzati con abiti invernali, perché il vento che soffia a Zirani nella serata del 26 gennaio entra allegramente nelle stanze, costruite pensando solo come evitare il caldo, e ci intirizzisce. Ogni anno il freddo invade il Bangladesh brevemente, ma fa soffrire milioni di persone non attrezzate ad affrontarlo, dà a partiti politici e benefattori l’occasione per distribuire coperte ai poveri, mentre commercianti improvvisati espongono lungo le strade mucchi di golf, maglie e indumenti che verranno usati per pochi giorni e poi lasciati in qualche angolo per undici mesi…

Siamo alla prima tappa del viaggio Dhaka-Dinajpur, al Centro Gesù Lavoratore, nel cuore di un’ampia zona trasformatasi rapidamente da rurale ad industriale, a circa 40 chilometri da Dhaka, con fabbriche ed edifici grandi e piccoli costruiti in ordine sparso.

Il Centro ha un cortile interno relativamente grande, usato per giochi, incontri, liturgie, e due edifici che ospitano la chiesa, la comunità delle suore del PIME e i due padri, un ostello per lavoratrici, e uno per lavoratori, un asilo nido, qualche ufficio, la cucina all’aperto che serve tutti.

È stato progettato e realizzato per venire incontro alle esigenze di cui i nostri missionari – p. Baio, p. Gualzetti, p. Ballan – si rendevano conto mentre avviavano la nuova parrocchia urbana di Mirpur, cercando contatti ovunque si potessero avere, anche molto lontani dalla sede parrocchiale. Trovavano tanti immigrati cristiani isolati e smarriti, con possibilità praticamente nulle di frequentare comunità cristiane. A loro volta, i responsabili della scuola tecnica di Dinajpur, specialmente Fratel Massimo, vedevano l’urgenza di preparare i ragazzi, provenienti da zone rurali tradizionali, non solo ad essere buoni meccanici, carpentieri, elettricisti, ma ad entrare nella giungla suburbana, nel mondo del lavoro, per trovare un impiego e per vivere in modo dignitoso e sereno in quell’ambiente per loro del tutto sconosciuto. Pensa e ripensa, i missionari di Dhaka e di Dinajpur hanno unito le forze passando ai fatti. Trovare e comprare il posto adatto e disponibile non è stato facile, ma ce l’hanno fatta, e l’iniziativa è partita: con gli ostelli, dove i giovani possono rimanere per un certo tempo, mentre cercano lavoro e poi una abitazione adatta; e organizzando interventi pastorali e sociali adeguati.

Si potrebbe dire che il Centro è come una parrocchia, ma disegnata sulle esigenze dei lavoratori, di cui le parrocchie tradizionali – rurali o urbane – non sono abituate a tener conto. L’adattamento più evidente è quello di svolgere la liturgia domenicale il venerdì, che in Bangladesh è il giorno di riposo settimanale, perché solo il venerdì le fabbriche concedono un giorno, o almeno qualche ora libera. Ma è importante anche stabilire rapporti di collaborazione con le parrocchie di origine, che sono legate agli usi tradizionali, specialmente per i matrimoni. I giovani che si trasferiscono lontano, per ragioni di lavoro ed economiche non possono seguire queste regole (incontri tra famiglie, visite, offerte di regali…),e per questo rinviano o si adattano a convivere, in attesa di poter celebrare secondo le regole… Le iniziali difficoltà ad intendersi con le parrocchie di origine, con pazienza si sono quasi superate; ora a Zirani si interviene con corsi prematrimoniali e celebrazioni che liberano i giovani da questi problemi. La presenza di un Centro “per loro”, attrae molti, non soltanto cristiani, specie appartenenti a gruppi etnici di minoranza, che trovano possibilità di aggregazione e di iniziative varie – dal torneo di calcio alle conferenze sulla giustizia sociale, dalla celebrazione di feste all’attenzione per gli ammalati… Insomma, un’iniziativa indovinata e, dopo iniziali perplessità e critiche, apprezzata. Ormai non sono pochi a dire che ce ne vorrebbe altre simili in altre zone.

La mattina del 27, domenica, Gian Paolo e io celebriamo l’Eucaristia alle 5.30 e partiamo con il buio. È stagione di nebbie, e infatti oggi c’è nebbia, ma non troppo fitta, e si può viaggiare bene. Proseguiamo sulla strada che sale verso nord. Recentemente sono stati fatti lavori molto impegnativi per migliorare la viabilità in Bangladesh. Questa strada, che collega il resto del Paese con tutto il quadrante nord ovest, chiamato “Uttorbongo”, ha ora molti tratti larghi e scorrevoli; rimangono da completare gli attraversamenti dei centri abitati, e per questo un buon numero di sovrappassi sono ora in costruzione.

Dopo pochi chilometri c’è lo svincolo di “Chondra”, con la direzione e parecchi stabilimenti della Walton, una ditta in rapida crescita. Proprietà di quattro fratelli bengalesi, produce materiale e macchinario elettrico, frigoriferi, televisori, motociclette e dicono che stia ora puntando anche sulle automobili.

A Chondra prendiamo la direzione ovest, verso il fiume Brahmaputra. La zona ci è nota anche per un grande ostello con scuola gestito dagli “Avventisti del Settimo Giorno”, che ospita centinaia di studenti di varie provenienze cui offrono un buon servizio, ma con l’esplicito obiettivo di convertirli, anche allettandoli con facilitazioni, sconti e privilegi vari.

(continua)