Come mai?

Finora il Covid 19, quel simpatico pallino colorato munito di cornetti, che appare a fianco del giornalista della BBC ogni volta che parla della pandemia, qui in Bangladesh ha fatto danni a sufficienza, specialmente in campo economico. Non della macro-economia, perché a quanto risulta dai dati ufficiali il reddito del Paese è cresciuto anche nel 2020, e non di poco: il 6%. Così il Bangladesh sta al terzo posto nel mondo e al primo posto in Asia fra i pochi paesi in cui l’economia ha continuato a crescere. Quanto agli abitanti, ovviamente qualcuno ci ha guadagnato, e non poco; ma ancora più visibilmente milioni ci hanno perso praticamente tutto, e allora, finché il piatto rimane vuoto, delle statistiche e della macroeconomia importa poco. Anche per quanto riguarda casi positivi e negativi, sintomi leggeri o gravi, e decessi, i dati che abbiamo sono assolutamente inattendibili, a causa del limitato numero di tamponi che si fanno, e della raccolta di informazioni, che è erratica e geograficamente limitata.

Tuttavia, sembra proprio che il virus sia meno aggressivo e che si diffonda meno rapidamente che altrove. Come mai?

Senza alcuna pretesa di saperla lunga, ma con il modesto intento di offrire elementi preziosi per la ricerca scientifica, raccolgo alcune delle risposte che vengono dalla gente. Infatti, pare che qui tutti o quasi sappiano con certezza il motivo per cui il virus è così… beh, dire gentile sarebbe troppo, ma diciamo clemente; o forse distratto?

Ecco dunque alcune delle ragioni addotte (il lettore tenga presente che – salvo pochi casi – le ragioni non sono da assommare: ciascuna di esse (o al massimo due o tre) è LA ragione per cui, ecc.

I bengalesi mettono nei cibi abbondante “holud” (credo si chiami curcuma): un tocca-sana.

I bengalesi mangiano tanto aglio – e pure cipolle

I bengalesi prudenti bevono molta acqua calda

Il clima è più caldo rispetto all’Europa e all’America

Il virus non esiste.

Il virus è una punizione che Dio manda sui cristiani per le loro malefatte e immoralità

I bengalesi sono in maggioranza giovani e il virus trova pochi vecchi su cui accanirsi

Il virus è stato fabbricato dai cinesi per gli americani, da noi funziona poco

I bengalesi sono immunizzati dalla loro vita “spartana”.

Ci sono poi, per ciascuna religione, formule varie che assicurano l’immunità. Per qualche cristiano è un cocktail, la cui ricetta va accuratamente seguita, di preghiere, acqua benedetta, baci a immagini sacre.

Rinascita

Ainul era un commerciante, con moglie e tre figli, che gestiva anche una piccola fabbrica tessile. Musulmano praticante, partecipava regolarmente alle preghiere nella moschea, alle feste e alle attività della comunità islamica, considerava la vita di famiglia come parte del suo dovere, senza particolari difficoltà né entusiasmi. Ma ogni tanto si sentiva a disagio, sentiva – se interpreto bene i suoi pensieri – di partecipare ad una religione, ma non di comunicare con Dio; allora gli tornava alla mente una frase che la nonna gli aveva detto varie volte: se non hai un “guru”, qualcuno che ti guida personalmente, non arrivi a incontrare veramente Dio. Il “guru” è figura tipica di varie correnti dell’induismo.

Non aveva mai dato peso a quell’idea, ma alla fine decise che era ora di ascoltare la nonna, e si mise alla ricerca. In Bangladesh non mancavano i “pir”, membri della corrente islamica “Sufi”, spesso ispiratori e guide di gruppi di spiritualità che fanno capo a un santuario, alcuni dei quali sono noti in tutto il Paese. Ainul chiedeva aiuto per trovare un senso alle sue pratiche religiose. All’inizio ne fu deluso, ma la sua “sete” cresceva. Continuò a lungo a cercare finché, nel 2000, le parole di un “pir” riuscirono a toccargli il cuore e la mente, aprendogli una prospettiva nuova: non sono le pratiche religiose che ti portano alla fede, è la fede che ti conduce a cambiare vita e a pregare, e dà senso anche alle pratiche religiose, da vivere con devozione nella libertà. Con la fede, viene la coerenza della vita, il tuo rapporto con gli altri, e il passo determinante per dare senso a te stesso: arrendersi a Dio, completamente.

Ainul incominciò a cambiare, anzitutto cercando di rendere coerente il proprio modo di vivere, e – pur continuando nel commercio – giunse a vendere la fabbrica che gestiva, perché si accorse di essere tentato dall’avidità e dal praticare astuzie e inganni che sfruttavano gli altri. La moglie si risentì di questa scelta fatta senza nemmeno informarla, e dopo varie proteste iniziò uno sciopero della fame per costringere il marito a tornare “alla normalità”. Fu il figlio maggiore a intervenire: “Mamma, non vedi che papà è cambiato davvero? Ha pazienza con noi, vuole essere onesto, è sereno. Certo, ora non va più regolarmente alla moschea e la gente lo critica, lo hanno persino minacciato, ma preferisci che ritorni come prima?” La donna si persuase, e gradualmente anche lei, e pure i figli, presero la strada di Ainul.

Il quale non ha fatto l’iniziazione per diventare a sua volta “pir”, ma dopo questa esperienza di rinascita spirituale ha tessuto rapporti con tante persone di varie religioni, con cui condivide il suo cammino di uomo in ricerca, musulmano “libero” che si è consegnato a Dio. Quando sentì dire che non lontano da Dinajpur c’era un “pir” cristiano, dove molti andavano per consigli spirituali, si diede da fare per rintracciarlo. Abitava lontano, ma pur non trovandolo una prima volta, lo cercò una seconda e poi una terza, finché si incontrarono:era p. Enzo Corba, missionario del PIME da tanti anni in Bangladesh. Dopo una lunghissima conversazione dissero l’uno all’altro: “Sì, siamo fratelli”. Ne nacque un’amicizia profonda e dinamica che durò fino alla morte di p. Enzo.

Ainul ogni anno organizza una festa, a cui invita nella sua ampia casa gli amici che capiscono le sue scelte. Oltre cento persone trascorrono la notte intera insieme: condividono, pregano, mangiano, ascoltano, cantano. Celebrano il momento in cui le parole del “Pir” gli hanno toccato il cuore e cambiato la vita, facendolo passare da una religiosità arida, impostata su norme e osservanze, alla “resa” a Dio. Quest’anno hanno celebrato il ventesimo anniversario di questa conversione, che è stata per lui una rinascita.

Ponti

Anni fa, per parecchi mesi, ebbi un incubo ricorrente: mi trovavo su un altissimo “ponte”, una fila di pali di bambù, uno dopo l’altro, appoggiati orizzontalmente su traballanti cavalletti di altri bambù piantati sul fondo del fiume; bisognava camminare in equilibrio su quell’unico bambù, appoggiandosi con una sola mano a un’unica “sponda” (sì, anch’essa di bambù e traballante). Grandi e bambini, persino vecchi, lo facevano con disinvoltura, ma a me era già capitato di “impuntarmi” a metà e non riuscire a proseguire, nè avanti nè indietro, mentre alle mie spalle la fila si allungava e quella di fronte, sulla riva, aspettava il suo turno e s’inquietava: vi muovete sì o no o no? Ne uscii anche quella volta senza volare nell’acqua, ma nel sogno il ponte mi appariva ad altezza vertiginosa, lunghissimo, e io ero sempre là, accovacciato su un bambù che oscillava…

Se ne vedono ancora di ponti così, ma pochi ormai. Lo sviluppo del paese ha privilegiato le strade, e i trasporti fluviali di persone e di merci hanno perso importanza. Abbiamo ora ponti di ogni dimensione, e altri sono in costruzione. Il 10 dicembre scorso, a sud di Dhaka, una enorme chiatta speciale ha sistemato su pilastri l’ultimo di 22 tronconi in cui è suddiviso il nuovo ponte sul fiume Padma, formato dalla congiunzione del Brahmaputra che, entrando dal Nord, nella parte centrale del Bangladesh, si immette nel Gange, proveniente da nord-ovest. In questo modo il Bangladesh è suddiviso in tre quadranti: est, nord-ovest, sud-ovest.

Per passare dall’uno all’altro quadrante era indispensabile fare uso di barche, battelli, traghetti. Il primo che unì due quadranti (nord-ovest e sud-ovest) fu il ponte ferroviario sul Gange, costruito dai Britannici durante il periodo coloniale, e poi affiancato da un ponte stradale. Seguì, nel 2000, il ponte sul Jamuna (Bramaputra) che collega il quadrante est con il nord-ovest; cinque chilometri di lunghezza, opera realizzata sotto la responsabilità di ditte coreane, che ovviamente subappaltarono parte del lavoro ad altre ditte – anche italiane. Ne venne un grande beneficio per tutto il nord-ovest, ma in pochi anni i tempi di viaggio fra nord e centro si prolungarono di nuovo, perché le vecchie strade non reggevano l’aumento del traffico ed erano sempre più affollate, con ingorghi giganteschi… Si mise mano ai lavori sulla strada che, dopo anni di disagi enormi per i viaggiatori, hanno reso largo e comodo il tratto da Dhaka fino al ponte, e ora stanno facendo tribolare i viaggiatori del tratto nord, che si consolano sperando che un giorno tutto sarà finito.

Mancava il collegamento del quadrante est, con il sud-ovest, ma con il ventiduesimo pezzo sistemato il 10 dicembre scorso, ora fra le due sponde c’è un ponte lungo oltre sei chilometri. Mentre si aspetta con ansia che questo importante elemento di sviluppo diventi percorribile (entro la metà del 2022), ci si rallegra di questo successo ormai sicuro con un tratto di orgoglio tutto particolare. Si pensava infatti che il ponte sarebbe stato finanziato per 1,2 miliardi di dollari dalla Banca Mondiale e – al suo seguito – la Banca Asiatica per lo Sviluppo e la Banca Islamica per lo Sviluppo avrebbero contribuito ulteriormente. Ma quando, dopo varie revisioni, i preventivi dei costi aumentarono vertiginosamente, nel settembre 2011 si parlò di corruzione e la Banca Mondiale si ritirò; così fecero le altre, mandando in fumo la prospettiva di ricevere miliardi di dollari.

Il governo ebbe un sussulto di orgoglio. Un’inchiesta della Commissione Anti Corruzione del Bangladesh sostenne che non c’erano prove di reati, e la Primo Ministro Sheikh Hasina disse: “Vogliono che chiediamo l’elemosina, che continuiamo come porcellini d’India (sic). Andremo avanti con il progetto usando le nostre risorse”, e decise di procedere comunque, con le proprie forze. Sembrava più una sfida destinata a fallire che una scelta politica ragionata, ma Hasina ridusse i finanziamenti destinati ad altre grandi opere, affidò l’opera a due ditte cinesi, impose balzelli provvisori qua e là, emise speciali obbligazioni – e iniziò i lavori. Si fece anche un’inchiesta da parte della Banca Mondiale, affidata a inquirenti canadesi, che conclusero sostenendo che non c’erano prove di corruzione. Ma la discolpa non fece ritornare sui propri passi la Primo Ministro che non tornò indietro a chiedere aiuto. Quando la struttura portante è stata completata, ha commentato: “Volevo far vedere che possiamo farcela. E oggi lo vedono”.